I cattolici e la violenza

Scritto da Francesco di Maria.

 

L’avversione dei cattolici per la violenza è arcinota. La parola di Cristo è una parola di pace non certo di guerra anche se, come è altrettanto noto, Cristo non è venuto a portare sulla terra la pace ma la spada e la divisione (Mt 10, 34-37 e Lc 12, 51-53), il che significa che la pace di Cristo non è né una pace diplomatica, né una pace di comodo, né una pace tattica e meramente strumentale, non una pace generica insomma ed ipocrita, ma una pace che può nascere solo da un effettivo spirito di verità e di giustizia. Bisogna rilevare che non sempre i cattolici, quando trattano di pace e di guerra, di amore e di odio, di moderazione e tolleranza oppure di forza e aggressività, sono realmente consapevoli del significato di ciò di cui parlano.

L’esperienza storica ed umana insegna inequivocabilmente che molto spesso queste parole sono usate in modo generico e banale quando non anche ambiguo o equivoco, al di fuori o persino in contrasto con il loro specifico contesto di riferimento, per cui alla fine vengono non di rado assumendo un significato mistificatorio e producendo effetti per lo più ingannevoli e negativi. L’errore che, beninteso contro lo stesso spirito evangelico, i cattolici commettono è spesso quello di considerare la violenza prevalentemente nella loro valenza intellettuale o meglio intellettualistica e non anche in quella più estesamente esistenziale, per cui il loro giudizio morale corre sempre il rischio di apparire astratto e meramente “moralistico” e diventa cosí difficile ammettere che uno schiaffo o un comportamento aggressivo e veemente, un determinato uso della violenza verbale e fisica o un’energica opposizione armata, possano anche essere coerente espressione di amore evangelico e di salvaguardia della dignità umana.  

La cacciata dei mercanti dal tempio è, come tutti sanno, un atto di sana violenza che Gesù compie in particolare verso un ceto sacerdotale che non era stato capace di evitare che la fede venisse contaminata da pratiche di vita e da interessi mondani assolutamente malsani e antitetici alla volontà di Dio, e anche certe reazioni di Gesù verso scribi, sommi sacerdoti e farisei, sono cariche di una virulenza particolarmente veemente che non può essere onestamente negata o disconosciuta. Non mancano altri episodi neotestamentari in cui l’amore cristiano viene chiaramente coniugandosi con una carica di violenza persino mortale, come nel caso in cui il mitissimo Pietro, con una severità e una violenza apparentemente incomprensibili, provoca la morte dei coniugi Anania e Saffira (Atti 5, 1-11).

Ma che la violenza in sé considerata non sia demonizzata aprioristicamente da Gesù, è ciò che risulta chiaramente da un passo evangelico oltremodo significativo che viene generalmente trascurato o rimosso dagli esegeti cattolici, quello in cui Gesù, dopo aver esortato Pietro a rimettere la spada nel fodero, sempre rivolgendosi a lui dice: «O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?» (Mt 26, 53-54). E nel vangelo di Giovanni, Gesù, rispondendo a Pilato, dice: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (18, 36).

Gesù non usa e non vuole che si usi la forza solo perché le Scritture prevedono che egli si immoli senza opporre resistenza per la salvezza dell’umanità, solo perché il suo regno non è di questo mondo, solo perché il monito che intende lasciare a coloro che vorranno reiterare il suo universale sacrificio salvifico nella vita e nella storia degli uomini è che si sappia capire con una fede illuminata dalla razionalità e da una razionalità illuminata dalla fede che ci sono momenti in cui bisogna rinunciare ad ogni forma di resistenza e quindi anche a forme violente seppur legittime di resistenza per ottemperare compiutamente alla volontà di Dio. D’altra parte, Gesù riconosce e giustifica il potere di Cesare, in quanto potere legittimato da Dio stesso, e il potere di Cesare si esercita il più delle volte in termini fortemente repressivi, coercitivi, violenti. L’importante è che il potere violento di Cesare si eserciti contro i violenti, i malfattori, i prepotenti e non contro i miti e gli umili, i poveri e gli oppressi, gli onesti e gli innocenti, e che quindi non collida con la giustizia di Dio i cui seguaci, a seconda dei casi, hanno sia il dovere di difendere gli innocenti dalla oppressione gratuita usando ogni mezzo idoneo allo scopo, sia il dovere di versare il loro sangue di martiri ovvero di testimoni di Cristo senza opporre alcuna resistenza.

Anche il precetto evangelico del “porgere l’altra guancia” non si contrappone staticamente al precetto veterotestamentario dell’“occhio per occhio, dente per dente” ma va piuttosto ad integrarlo e a potenziarne il senso etico e spirituale. Come dire: non solo voi non dovete contraccambiare un’offesa ricevuta con un’offesa di entità superiore, ma dovete sforzarvi di rimanere al di sotto del livello di cattiveria, di malvagità e di violenza di coloro che vi offendono o vi perseguitano adoperando strumenti di difesa quanto più possibile pacifici e incruenti. Il senso dell’insegnamento cristiano è chiaro: non che, in presenza di eccidi di massa, i credenti in Cristo se ne debbano stare a pregare in disparte senza fare del loro meglio per evitarli o contrastarli; non che in presenza di totalitarismi violenti e disumani, pur avendone l’oggettiva possibilità, ci si debba astenere dall’impugnare le armi contro i suoi malvagi o folli rappresentanti; non che, in presenza di un dittatore sanguinario mediorientale, i paesi occidentali non debbano mobilitare immediatamente i loro eserciti e i loro armamenti per proteggere masse di popolo indifese che si oppongono coraggiosamente alla meno peggio alla sua malvagia e violenta persecuzione. Più semplicemente e realisticamente, si tratta di capire cristianamente che non bisogna rispondere a malvagità con pari malvagità, a violenza con identica violenza, al male ricevuto con la stessa mole di male e di odio, ma conservare nel cuore, persino nei momenti più duri di uno scontro o di una guerra, una riserva di umanità e di carità a tutto beneficio dei propri nemici o dei propri carnefici

Gesù non dice: “lasciatevi massacrare”, ma dice “resistete pure al male difendendovi però non in modo ignobile ma nobile e possibilmente generoso, resistete anche con le armi se la difesa di persone innocenti di cui dovrete rispondere al cospetto di Dio lo richieda necessariamente e urgentemente, ma soprattutto non esercitate violenza, ove proprio siate costretti da circostanze oggettive ad esercitarla, con l’odio nel cuore ma solo e sempre con e per amore. Ricordatevi infine, anche nei momenti più cruenti della lotta, di pregare, di confidare nel Signore, di non maledire i vostri nemici ma di perdonare e chiedere per essi oltre che per voi stessi ogni più ampia possibilità di salvezza”.

Perciò i cattolici avranno sempre mille ragioni per diffidare delle cosiddette “guerre giuste” o “umanitarie” o di tutte quelle azioni violente attraverso cui, sia pure in riferimento a taluni casi particolari (autodifesa o difesa di inermi), si tende a legittimare l’uso della forza, e la loro diffidenza sarà giustificata proprio in ragione del fatto che spesso dietro atti di violenza apparentemente plausibili e giusti si nascondono motivazioni e interessi inconfessati e inconfessabili, a condizione però che tale diffidenza non si trasformi a sua volta in ideologia astrattamente pacifista o quietistica, anch’essa in realtà originata da presunti interessi cattolici, e volta in effetti a salvaguardare illegittimi e disumani interessi di chi opprime e prevarica piuttosto che gli interessi umani ed etico-civili più che legittimi di chi lotta contro una violenza dispotica e per il conseguimento della propria e altrui libertà.

In questo senso, da una parte non ho difficoltà ad ammettere, con papa Ratzinger e secondo un’antica premonizione della tradizione cristiana, che spesso l’antiCristo possa ammantarsi nella vita e nella storia “di apparenze idealistiche o umanitarie per scatenare in realtà il male”, ma dall’altra non esito a considerare cristianamente sbagliata e fuorviante la tendenza a fare della violenza sempre e comunque un perfido spauracchio e una manifestazione di diabolica e disumana irrazionalità.

Nel caso odierno della Libia, per esempio, mi sento molto più vicino al cardinal Bagnasco che a mons. Martinelli, vescovo di Tripoli, e a taluni intellettuali cattolici. Né, più in generale, ritengo condivisibili le parole di quel giornalista cattolico secondo cui «la storia del Novecento» dimostrerebbe «che è possibile uscire dalle tirannie (di destra come di sinistra) senza stragi, guerre e spargimento di sangue. Questa, per la Chiesa, è la strada da percorrere» [A. Socci, Contro questa guerra (dis)umanitaria, in “Libero” del 26 marzo 2011], perché non mi pare proprio che dal nazifascismo, solo per citare uno dei più orribili eventi del XX secolo, fosse possibile uscire «attraverso la politica, gli accordi, i trattati, la cooperazione, il dialogo» (cit.), né credo per l’appunto che sia esclusivamente quest’ultima, per la Chiesa, «la strada da percorrere» (cit.), non potendosi essa limitare a trattare diplomaticamente con oppressori e tiranni di ogni genere ma dovendo profeticamente e coraggiosamente perorare, sempre e comunque, nel nome di Dio, la causa della liberazione degli umili e degli oppressi da ogni forma di schiavitù.