Contributi e testimonianze

Sentenza Cassazione. Crocefissi appesi ai muri o piuttosto i nostri muri e noi appesi al Crocifisso?*

Scritto da Antonio Socci.

Il caso fu sollevato da un docente di un istituto professionale che a lezione non voleva il crocifisso sul muro dell’aula. Gli studenti decisero invece a maggioranza di tenerlo.

Ieri la Corte di Cassazione ha dato il suo responso: il Crocifisso in aula “non costituisce un atto di discriminazione del docente dissenziente per causa di religione” in quanto “ad esso si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo”.

Il Centro Livatino rileva l’importanza del pronunciamento: significa che “non esiste un divieto di affissione costituzionalmente fondato”. Tuttavia c’è un “ma”.

Secondo la Cassazione la circolare del dirigente scolastico, che decreta il “puro e semplice ordine di affissione del simbolo religioso”, non è “conforme al modello e al metodo di una comunità scolastica dialogante che ricerca una soluzione condivisa nel rispetto delle diverse sensibilità”.

È tale comunità a dover decidere “in autonomia di esporlo”, magari “accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe” e comunque cercando un “ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi”.

Così però – secondo il Centro Livatino – la Cassazione “si fa creatrice di una norma più che interprete di quelle esistenti”, dunque occorre un intervento del Parlamento.

Del resto mettere ai voti i simboli religiosi può aprire la strada a situazione surreali. Il calendario scolastico, per esempio, prevede la chiusura ogni domenica (festività cristiana) e poi vacanze scolastiche da Natale all’Epifania e a Pasqua. Domani si metteranno ai voti? Pure il computo degli anni adottato dalla scuola (e dalla comunità civile) parte dalla nascita di Gesù. Islam e altre religioni hanno computi diversi. Va tutto ai voti? Anche i programmi scolastici?

Nella sentenza della Cassazione sembra esserci una contraddizione: la seconda parte considera il crocifisso un simbolo confessionale (così si arriva alle conclusioni che abbiamo visto). Invece nella prima parte si sottolinea il significato della presenza del crocifisso in un’aula scolastica rimandando alla nostra tradizione culturale e alla nostra identità nazionale.

Infatti quel simbolo nelle aule non riguarda tanto la fede dei cristianiche comunque il crocifisso lo portano nel cuore o al collo, quanto la nostra cultura, l’identità del nostro popolo, quindi tutti.

Non sono i crocifissi a stare appesi ai muri. C’è una canzone di Gianna Nannini che parla di “muri appesi ai crocifissi”. In effetti sono i muri della nostra civiltà ad essere appesi al Crocifisso. Senza di lui viene giù tutto, non sappiamo più chi siamo.

La nostra storia e la nostra identità sono impregnate di cristianesimoLa letteratura, l’arte, la filosofia, la storia, la musica che studiamo e pure la scienza fioriscono nell’alveo cristiano. Università e ospedali nascono dalla storia cristiana e così pure il concetto di Europa. Addirittura la lingua italiana ha come origine e paradigma un poema che celebra il cattolicesimo: la Divina Commedia.

La stessa laicità dello Stato e l’idea di democrazia hanno alla base il concetto di Regno di Dio e di persona umana portati da Gesù Cristo.

Il vate della cultura laica, Benedetto Croce, nella nota opera

“Perché non possiamo non dirci cristiani” scriveva: “Il Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta… E le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni… non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il primato perché l’impulso originario fu e perdura il suo”.

Un altro simbolo della cultura laica, Federico Chabod, nella Storia dell’idea d’Europa”, scriveva:

Non possiamo non essere cristiani, anche se non seguiamo più le pratiche di culto, perché il Cristianesimo ha modellato il nostro modo di sentire e di pensare in guisa incancellabile; e la diversità profonda che c’è fra noi e gli Antichi, fra il nostro modo di sentire la vita e quello di un contemporaneo di Pericle e di Augusto è proprio dovuta a questo gran fatto, il maggior fatto senza dubbio della storia universale, cioè il verbo cristiano. Anche i cosiddetti ‘liberi pensatori’, anche gli ‘anticlericali’ non possono sfuggire a questa sorte comune dello spirito europeo”.

Il più bell’articolo in difesa del Crocifisso nelle aule scolastiche, apparve sull’“Unità” sotto il titolo “Non togliete quel Crocifisso”, e fu scritto da una scrittrice ebrea, la bravissima Natalia Ginzburg:

il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. E’ l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino allora assente… Il crocifisso è simbolo del dolore umano. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destinoIl crocifisso fa parte della storia del mondo”

Paradossalmente, il filosofo più anticristianoNietzsche, lo confermava con rancore:

L’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare… questo pseudoumanesimo che si chiama cristianesimo vuole giungere appunto a far sì che nessuno venga sacrificato”.

Dunque siamo tutti appesi al Crocifisso.

*Pubblicato su "Libero" il 10 settembre 2021

E' crollato un mondo*

Scritto da Corrado Gnerre.

In merito a ciò che sta accadendo e a come “cattolicamente” bisogna interpretare ciò che sta accadendo è opportuno partire dal rapporto tra Provvidenza e Storia umana. Rapporto che richiama l’essenza di quella disciplina molto importante, ma -ahinoi- assai dimenticata qual è la Teologia della Storia.

La Teologia della Storia ci dice che la Storia è una sorta di campo di battaglia tra il Bene e il Male, tra l’azione della Provvidenza e l’azione di una sorta di Anti-Provvidenza, qual è la presenza del Demonio. Il padre della Teologia della Storia è sant’Agostino, il quale, con la sua famosa opera De Civitate Dei, dice appunto che due ideali “città” si fronteggiano nella Storia, la Città di Dio (il Bene) e la Città dell’Uomo (il Male). Questa concezione agostiniana costituì al tempo una significativa novità, esito a sua volta di un’altra novità, quella cristiana, in merito alla libertà umana. Infatti, nella concezione pagana, l’uomo non figurava come essere libero nella Storia, anzi la Storia stessa di fatto non esisteva. L’uomo veniva inteso come una sorta di “burattino” vittima del capriccio degli Dei e del Fato. La stessa definizione di persona veniva da “maschera dell’attore” per far capire che come l’attore s’illude di essere libero ma non fa altro che riprodurre sul palcoscenico un canovaccio che qualcun altro ha scritto per lui, così l’uomo s’illude di essere libero sul “palcoscenico” della Storia, ma in realtà è sempre vittima di qualcos’altro. Sant’Agostino, invece, dice sì che la Storia è lotta tra due forze che sovrastano l’uomo (Dio e il Demonio), ma che l’uomo stesso ha la libertà di decidere da quale parte stare, per quale “città” combattere. Da qui la sua libertà. E così la Storia diventa una risultante tra due componenti. Da una parte l’azione della Provvidenza, dall’altra la libera corrispondenza umana che può decidere tra il Bene e il Male. Un famoso pensatore cattolico del XIX secolo, Juan Donoso Cortes, così scrive: «La storia, considerata in generale, è la narrazione degli avvenimenti che manifestano i disegni di Dio sull’umanità e la loro realizzazione nel tempo, sia come intervento divino diretto e miracoloso, sia per mezzo della libertà dell’uomo». Questa premessa è importante per poter rispondere dalla questione da cui siamo partiti, ovvero da un punto di vista sanamente cattolico come ci si deve rapportare a ciò che sta accadendo in questi giorni, ovvero alla pandemia in atto?

A riguardo dominano fondamentalmente due posizioni.

La prima è quella tipica della teologia neomodernista contemporanea: Dio in ciò che sta accadendo non c’entra. Guai a pensare a castighi di sorta. Molti nella Chiesa si sono premurati a smentire qualsiasi ipotesi di “lezione” di Dio. Padre Raniero Cantalamessa nell’omelia del Venerdì Santoha detto così: «Se questi flagelli fossero castighi di Dio, non si spiegherebbe perché essi colpiscono ugualmente buoni e cattivi, e perché, di solito, sono i poveri a portarne le conseguenze maggiori».

La seconda posizione è quella che possiamo definire “complottista” nei casi più esagerati o,in quelli più soft, “cripto-complottistica”: ciò che sta accadendo è dovuto chissà a quale mano nascosta e chissà per quali fini. Posizione logicamente debole, perché non ci sembrano ci siano spiegazioni coerenti che possano spiegare tanto cause previe quanto sfruttamenti successivi a ciò che sta avvenendo. Per esempio, le terribili conseguenze economiche e finanziarie le stanno pagando tutti a “360 gradi”, facendo, per esempio, saltare qualsiasi interpretazione geopolitica. A riguardo però va detto un’altra cosa che è ancora più importante. Se ci si riflette queste due posizioni (neomodernista e complottista), pur essendo lontane fra loro nell’origine, sono perfettamente uguali negli esiti. Dio, infatti, sparisce tanto nella prima quanto nella seconda. La Provvidenza di Dio non c’è più. È dissolta la Storia come risultante dell’azione della Provvidenza e della libera corrispondenza umana.

C’è invece una terza posizione che ci sembra perfettamente coerente con l’autentica Teologia cattolica della Storia. È quella di ritenere possibile anche l’eventuale complotto e azione di forze occulte, ma che è dovere primario di onestà intellettuale non solo trattare tutto questo come semplice ipotesi, ma anche evidenziare ciò di cui si ha unica certezza, ovvero il fatto che ciò che sta avvenendo, sta avvenendo perché Dio lo sta permettendo. E se Dio sta permettendo, significa che tutto si configura anche come castigo.

Il Cristianesimo è sano realismo, e realisticamente non ci vuole molto a capire che nel giro di pochissimo è cambiato tutto. È imploso un mondo certamente non conforme alla Verità Cattolica. Un mondo che con ogni probabilità tornerà come prima perché non sempre l’uomo è capace di capire e far tesoro delle “lezioni” della Provvidenza, ma che allo stato attuale è cambiato.

Nel giro di un paio di mesi sono crollati tanti “miti”. Dalle piazze in cui l’emblema era quello di sentirsi stretti-stretti (il movimento delle Sardine), si è passati all’obbligo delle distanze gli uni dagli altri. Dalla disinibizione di baciarsi dinanzi a tutti o con chiunque (i baci omosessuali del Festival di Sanremo), si è passati all’auspicio di non incontrarsi fisicamente: bandite finanche le strette di mano! Dal che bello la globalizzazione e un mondo-nazione senza confini, si è passati all’auspicio che tutti rimangano nei propri Paesi e perfino nelle proprie case. Dal mantra ossessivo dei porti aperti, si è passati all’auspicio che i porti vengano chiusi per evitare l’arrivo di possibili contagiati.

Dalla preoccupazione “gretina” di salvare la natura, si è passati all’auspicio di salvarsi dalla natura (il Covid-19 è natura!)Dall’ideologia di emancipare quanto più presto i bambini dalla famiglia (asili obbligatori), si è passati all’auspicio di far restare i bambini quanto più tempo a casa. Dall’impegno di bandire quanto più possibile la plastica, si è passati all’auspicio che s’intensifichi quanto più la produzione di materiale plastico per fabbricare mascherine e respiratori. Dalla paura dell’innalzamento climatico come spauracchio dell’inquinamento climatico antropico, si è passati all’auspicio che il caldo arrivi quanto prima con la speranza che inibisca la forza del virus. Dal mito dei genitori entrambi in carriera, si è passati all’auspicio di ottenere dal governo sussidi economici perché almeno un genitore possa rimanere a casa per accudire i figli privati della scuola.

Insomma, come dicevamo, è crollato un “mondo”. 

 

* Pubblicato in "Corrispondenza Romana" del 29 aprile 2020

 

Contro la barbarie del XXI secolo

Scritto da Antonio Brandi.

Poco prima di Natale si e' svolto un incontro alla Camera dei deputati con tutti i principali promotori della legge sull'omofobia e sulla transfobia: c'era la senatrice Cirinna', la Boldrini, la Maiorino e i principali esponenti delle associazioni LGBT. C'era anche il segretario PD Nicola Zingaretti il quale ha espresso l'intenzione di andare avanti in fretta con l'approvazione della legge anti omotransfobia: "Bisogna aprire una finestra e chiuderla in fretta - ha detto - Una legge contro l'omotransfobia e' importante perche' assumera' un punto di svolta, l'apertura di una nuova fase".

In effetti, diversi disegni di legge sull'omotransfobia sono in fase di esame alla Camera e - se non reagiamo - saranno presto approvati... Questi disegni di legge intendono punire con la reclusione anche semplici atti di "discriminazione fondati sull'identita' di genere" oppure sull'omofobia o sulla transfobia. Ora, secondo i promotori della legge, "discriminazione omotransfobica" sarebbe anche affermare il diritto dei bambini ad avere una mamma e un papa', oppure sostenere che la sessualita' non e' "fluida", oppure opporsi ai progetti gender nelle scuole...

Ma c'e' di piu'. Alcune proposte (A.C. 107, della Boldrini) prevedono che insieme alla condanna, il "colpevole" possa essere obbligato a prestare lavoro non retribuito in favore di associazioni LGBT. Un'altra proposta (A.C. 2171) prevede che il 17 maggio diventi, riconosciuta dalla legge, la Giornata nazionale contro l'omofobia, la bifobia e la transfobia, durante la quale le amministrazioni pubbliche promuoverebbero "cerimonie commemorative e celebrative", anche nelle "scuole di ogni ordine e grado", sulle tematiche LGBT e gender. Certe donne e certi uomini sono così ottusi e irresponsabili da non percepire le oggettive nefandezze che vorrebbero imporre sul piano legislativo (Fogli Mariani).

Capito, fratelli e sorelle? Se passasse una legge del genere, chiunque manifesti pubblicamente sostegno per la famiglia naturale, o promuova una sana visione della sessualita' potrebbe essere non solo condannato alla reclusione, ma anche obbligato a lavorare senza retribuzione per l'Arcigay o per il Circolo Mario Mieli, magari per preparare le celebrazioni della Giornata contro l'omofobia, la bifobia e la transfobia nella scuola dei propri figli!

Per questo è necessaria una grande campagna di sensibilizzazione e di mobilitazione popolare contro queste proposte di legge liberticide, una campagna di testimonianza cristiana contro l’incipiente o imminente barbarie del XXI secolo.

La teologia politica della destra religiosa*

Scritto da Massimo Borghesi.

Una risposta a Rodolfo Casadei ipoteticamente reo di aver strumentalizzato la grazia cristiana. Anche oggi bisogna scegliere, per Massimo Borghesi, tra Agostino ed Eusebio.

Rodolfo Casadei non me ne vorrà se prendo il suo recente articolo apparso su Tempi, Religione e politica non saranno mai separate, come esempio del modello teologico-politico che caratterizza in questo momento la destra religiosa in Occidente e in America Latina. È lo stesso modello che soggiace alle critiche verso papa Francesco accusato di essere un papa “rosso”, modernista, relativista. Ciò che non può essere perdonato al pontefice, secondo i suoi critici, è l’abbandono del terreno del conflitto, della lotta per i principi non negoziabili, della necessaria alleanza con le forze conservatrici per arginare, con l’ausilio del potere, le tendenze dissolutrici del mondo contemporaneo. Il papa viene combattuto perché rifiuta di legittimare religiosamente la destra che si oppone al movimento della globalizzazione. Il problema infatti, come è evidente nell’articolo di Casadei, è quello della legittimazione religiosa delle forze secolari. Al movimento di neutralizzazione dei simboli religiosi, proprio della globalizzazione, la destra religiosa oppone una teologia politica, una reazione identitaria e particolarista che individua nel potere la via di salvezza rispetto al nichilismo contemporaneo. Donde la tesi espressa con chiarezza da Casadei per il quale “religione e politica non potranno mai essere interamente separate”. E questo per due motivi.

“Il primo è che la religione ha da sempre svolto anche la funzione sociale di tenere insieme una comunità umana: religione viene dal latino ‘res ligare’, cioè legare insieme le cose, e la cosa pubblica, la repubblica, è la prima delle cose che hanno bisogno di coesione. I re dei sumeri, la più antica civiltà che si ricordi, erano allo stesso tempo sacerdoti, e fra le cariche di cui fu insignito Caio Giulio Cesare c’era anche quella di Pontifex maximus, la più alta autorità religiosa romana. Che abbia davvero visto nel cielo notturno una croce luminosa con la scritta ‘in hoc signo vinces’ oppure no, Costantino sapeva perfettamente che il potere politico ha bisogno di una sanzione sacrale per funzionare, e che la legittimità che viene dalla forza delle armi o da qualche altro principio secolare non è sufficiente”.

La politica ha bisogno di una legittimazione religiosa e, per converso, la religione ha bisogno di una incarnazione politica. Ogni altra prospettiva viene liquidata come angelismo, spiritualismo, disincarnazione, mancanza di realismo. In realtà, potremmo osservare, un’altra politica modulata dalla fede esiste, solo che non obbedisce al modello teologico-politico teorizzato da Carl Schmitt e  accolto acriticamente da Casadei. V’è infatti, nella storia del pensiero cristiano, una teologia politica e una teologia della politica. Il passaggio dalla seconda alla prima prospettiva è impercettibile e, tuttavia, sostanziale. Come osserva Joseph Ratzinger in Chiesa, ecumenismo e politica (Cinisello Balsamo 1987): “Il cristianesimo, in contrasto con le sue deformazioni, non ha fissato il messianismo nel politico. Si è sempre invece impegnato, fin dall’inizio, a lasciare il politico nella sfera della razionalità e dell’etica. Ha insegnato l’accettazione dell’imperfetto e l’ha resa possibile. In altri termini il nuovo Testamento conosce un ethos politico, ma nessuna teologia politica” (p. 201).

Prendendo sul serio questa asserzione scrivevo, nel mio volume Critica della teologia politica (Milano 2013): “Nella sua concezione propria la fede cristiana è essenzialmente metapolitica; è politica nelle sue conseguenze. È politica in quanto la civitas Dei, secondo l’immagine suggerita dalla Lettera a Diogneto, è anima della polis, vive in essa pur senza identificarvisi, si prende cura del suo bene, non realizza se stessa, però, attraverso la politica. La sua è una teologia della politica, non una teologia politica. Ciò significa che non raggiunge il politico direttamente ma attraverso la mediazione etico-giuridica. Non realizza l’identità con il politico. Lo impedisce la riserva escatologica, lo scarto tra grazia e natura. La teologia politica, al contrario, è ‘dialettica’. Per essa il momento teologico si realizza attraverso il politico e il politico tramite il teologico. Nel passare ‘attraverso’, nel realizzarsi attraverso altro-da-sé, i due momenti vanno incontro ad una metamorfosi. È in questo senso che la teologia politica rappresenta una formula della secolarizzazione: del teologico, che identifica la civitas Dei con la civitas mundi; del politico allorché, nel senso di Löwith o di Voegelin, diviene religione politica” (pp. 12-13).

Questa distinzione fra “teologia politica” e “teologia della politica” è ciò che difetta al pensiero cristiano contemporaneo, a quello della destra religiosa in particolare. Da qui una serie di omissioni e di errori presenti anche nell’articolo di Casadei.

Il primo è dato dalla mancata distinzione dei Regni, di Dio e di Cesare, che pure è al centro del drammatico confronto tra Cristo e Pilato. Casadei scrive, giustamente, che per il periodo antico (e non solo) religione e politica sono unite ed indissolubili. Questo è vero: la religione antica è essenzialmente religione “pubblica”, teologia politica, cioè teologia della polis. Atene è la dea Atena, Roma si identifica con la dea Roma a cui Adriano dedicherà il più grande tempio della capitale. Templi e sacrifici sono in funzione della prosperità e della potenza della città e dell’impero. Religione e politica sono due momenti di un’unica totalità. Questa unità viene infranta dal cristianesimo per il quale, come dirà Agostino, le città diventano due, la Città di Dio e la città del mondo. Una duplicazione rivoluzionaria che spezza il modello teologico-politico imperiale e spiega le accuse di ateismo ai cristiani. Di questa “rivoluzione” nell’articolo di Casadei non vi è cenno. Si cita, al contrario, il modello di Cesare, il dominus di Roma che accorpa nella sua persona anche la carica di Pontifex maximus e ci si dimentica di ricordare che fu proprio un imperatore cristiano, Graziano, che deporrà nel 376 d.C. tale carica che da allora passa, come denominazione, al vescovo di Roma. Proseguendo la sua riflessione Casadei passa poi a valutazioni nettamente positive sulla Polonia e sull’Ungheria attuali, nazioni in cui si afferma “la coincidenza fra identità nazionale, indipendenza politica e tradizione religiosa cristiana”. Questa coincidenza rappresenta il paradigma da opporre al mondo globalizzato. Le critiche ad esso, secondo l’autore, sarebbero ideologiche e mancherebbero di realismo. Lo dimostrerebbe la storia del cristianesimo sotto l’impero romano.

“Se non avesse incontrato sulla sua strada un Costantino che ha gettato le basi perché diventasse religione di Stato (sotto Teodosio), il cristianesimo sarebbe rimasto un culto minoritario e i cristiani una comunità residuale alla stregua degli zoroastriani, degli yazidi, dei drusi, dei mandei, ecc. Il suo posto nella storia lo avrebbe preso il culto di Mitra, molto diffuso fra i legionari romani, e noi non avremmo avuto non solo gli splendori della civiltà cristiana insieme alle ambiguità dell’alleanza fra trono e altare, ma nemmeno i santi cristiani. Non solo non avremmo avuto Michelangelo, ma nemmeno san Francesco; non solo nessun Dante Alighieri, ma nemmeno un Benedetto da Norcia, una Teresa d’Avila, un Giovanni Bosco, ecc. Piuttosto che teorizzare un cristianesimo spirituale e universalista che ha orrore di ogni eventuale recupero politico, e condannare alla ‘damnatio memoriae’ quindici secoli di storia europea, sarebbe meglio ragionare in termini di saggezza della Provvidenza: il cristianesimo religione civile degli Stati europei è stato l’alveo necessario dentro a cui il cristianesimo genuino dei santi (mistici,  sociali, martiri, ecc.) e più in generale l’esperienza autentica offerta a ogni credente della vicinanza misericordiosa di Dio all’uomo in Cristo, si è potuto realizzare. È stato lo strumento storico che ha creato le condizioni sociali, politiche e culturali per il perseguimento della santità possibile per i piccoli come per i grandi”.

Ho riportato il lungo brano perché esso documenta come per una parte dell’intellighenzia cattolica il Concilio Vaticano II sia passato invano. Il ritorno del modello patristico dei primi secoli, di contro a quello medievale privilegiato dalla neoscolastica del ’900, aveva infatti permesso al Concilio di valorizzare la distinzione tra Chiesa e Stato e i principi delle libertà moderne, di quella religiosa in primis. Questo non significa un’accettazione acritica della storia e, tuttavia, come scrive Joseph Ratzinger: “ciò non deve assolutamente portare ad una negazione dell’età moderna, tentazione che si poteva cogliere, sia nel romanticismo dell’Ottocento nostalgico del Medioevo, sia in ambienti cattolici tra le due guerre mondiali. Quale caratteristica positiva dell’età moderna annovero il fatto che in essa viene coerentemente realizzata la separazione di fede e di legge, che era piuttosto nascosta nella res publica christiana medioevale. In tal modo prende a poco a poco forma e struttura chiara la libertà della fede nella sua distinzione dall’ordine giuridico borghese, e le intime pretese della fede vengono distinte dalle esigenze fondamentali dell’ethos, su cui si fonda il diritto. I valori umani, fondamentali per la visione cristiana del mondo, rendono possibile, in un fecondo dualismo di Stato e Chiesa, la libera società umana, in cui vengono garantiti il diritto alla coscienza e con esso i diritti umani fondamentali” (op. cit., pp. 216-217).

Di questo lavoro di assimilazione critica della modernità non v’è traccia nell’articolo di Casadei. La sua tesi ricorda, nella sua radicalità, la versione laico-ottocentesca sulla diffusione del cristianesimo nel mondo antico. Si tratta di quel filone di pensiero per cui la fede avrebbe trionfato non grazie a Cristo, idealista ed utopista, ma grazie a San Paolo dal quale deriverebbe la Chiesa ben radicata nella realtà del mondo. Ne troviamo eco nella “Leggenda del grande Inquisitore” di Dostoevskij. Questa tesi, palesemente eterodossa, è più o meno consapevolmente sostenuta da Casadei laddove ritiene che il cristianesimo non si sarebbe mai diffuso – “sarebbe rimasto un culto minoritario e i cristiani una comunità residuale alla stregua degli zoroastriani, degli yazidi, dei drusi, dei mande” – se non fosse stato sostenuto dai poteri del mondo. Non ci sarebbero stati i santi, “nemmeno san Francesco”, se non ci fosse stato il Sacro Romano Impero. Questa tesi è errata sotto un duplice profilo, teologico e storico.

Sul piano teologico perché contrasta con il principio per cui  la grazia soprannaturale non necessita di nulla per accadere. Richiede solo il consenso del cuore umano. In qualsiasi luogo e sotto le condizioni più avverse Dio può incontrare l’uomo.

E questo ci porta al secondo errore. Sul piano storico la diffusione del cristianesimo nell’impero romano, fino all’Editto di Milano del 313 d.C. che garantisce la libertà religiosa per tutti, non è dipesa dal potere ma dalla libera testimonianza spinta fino al sacrificio. Il connubio “provvidenziale”, che Casadei stabilisce tra cristianesimo e impero romano obbedisce, in realtà, ad un preciso modello teologico-politico: quello del vescovo Eusebio di Cesarea il quale, dopo Costantino, saluta l’unità di Roma come precondizione dell’universalismo cristiano. È il modello criticato da Erik Peterson nel suo Il monoteismo come problema politico, del 1935, volto contro Carl Schmitt e i “cristiani tedeschi” filonazisti. Con Eusebio di Cesarea siamo di fronte, secondo Ratzinger, ad “una linea secondo la quale l’unificazione escatologica dei linguaggi è stata creata nell’unità della lingua imperiale della nuova Roma, quindi sulla via verso la teocrazia politica. Ciò caratterizza la teologia di questa cerchia in genere, che equivoca l’universalismo cristiano con quello romano, abbassa quindi il primo al livello politico e così gli toglie la sua vera e propria grandezza. La breccia attraverso il nazionalismo è ormai solo apparente: è fissata di nuovo a un’entità politica. All’opposto presso Agostino l’elemento di novità cristiana è mantenuto: la sua dottrina delle due civitates non mira né ad una “ecclesializzazione” (Verkirchclichung) dello Stato né a una “statalizzazione (Verstaatlichung) della Chiesa, ma, in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che questa storia abbia raggiunto il suo fine” (L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, Brescia 2009, pp. 110-111).

Con Eusebio “la breccia attraverso il nazionalismo è ormai solo apparente: è fissata di nuovo a un’entità politica”. Questo è esattamente quanto accade con il paradigma teologico-politico di Casadei il quale, nella sua polemica con l’universalismo cosmopolita ed illuminista, torna ad un particolarismo territoriale neopagano nelle sue motivazioni religiose. Qui starebbe, infatti, la seconda ragione della connessione essenziale tra religione e politica. “Il secondo motivo del legame irriducibile fra religione e politica è che la politica si fonda sul governo di entità che sono necessariamente territoriali, i territori hanno confini e i confini, per essere preservati, hanno bisogno di essere sacralizzati. L’esempio ungherese dimostra che non serve un politico cristiano conservatore alla Viktor Orbán per afferrare il concetto, ci arrivavano benissimo i dignitari comunisti del genere di Janos Kadar. Che un esponente sovranista come Matteo Salvini avrebbe a un dato momento fatto ricorso alle simbologie religiose per caratterizzare la sua posizione, era del tutto prevedibile. I sovranisti rivendicano la sovranità nazionale contro le dinamiche della globalizzazione e contro la devoluzione dei poteri nazionali all’Unione Europea: è assolutamente ovvio che debbano sacralizzare i confini degli Stati la cui sovranità intendono riaffermare, ed è inevitabile che per fare questo ricorrano al religioso”.

Le conclusioni di Casadei indicano la forza di un modello ideologico: di per sé non è né “ovvio”, né “inevitabile” che si pervenga alla sacralizzazione dei confini. È singolare che l’autore, così critico verso la secolarizzazione illuminista, non si avveda della secolarizzazione romantica, quella che procede verso il sangue e il suolo, verso una Heimat vista come terra madre, comunità mistica. È ragionevole avere motivazioni religiose a sostegno delle decisioni etiche e politiche. Ciò che non è ragionevole è utilizzarle come metallo fuso per la sacralizzazione del mondo. Ogni struttura è ambigua, può aprire e può chiudere. Questo vale per l’Europa, i cui esiti burocratici non possono far disconoscere, però, la sua fondamentale funzione di pace tra popoli che si sono massacrati in due guerre mondiali, e vale per gli Stati nazionali che, fuori da ogni nazionalismo e settarismo, mantengono la loro utilità anche in un quadro europeo.

Casadei, studioso di scenari storici, dovrebbe essere attento alle ricadute ideologiche della sua posizione. Un certo mondo intellettuale cattolico si è formato negli anni ’70-’80 del secolo scorso avendo come avversario principale il marxismo allora egemone. Nel frattempo la storia è profondamente mutata e dopo la crisi provocata dal modello tecnocratico-relativista dell’era della globalizzazione il ritorno alla politica ha assunto, nei critici, un tono reattivo, di contestazione difensiva, un bisogno di “radici” e di identità perdute. Si tratta di una reazione, subalterna al proprio avversario, che usa della religione per legittimarsi. Dopo l’11 settembre 2001 il mondo vede la radicalizzazione di posizioni religiose esposte al vento del Dio degli eserciti: la verità della fede si decide in battaglia. Non è questa la via cristiana. Dovrebbe essere evidente ma, come dimostrano le reiterate critiche al papa, non lo è. Un’ideologia cupa, radicata nella dialettica amico-nemico, attraversa la scena di un mondo in crisi. Come negli anni ’70, dominati dal marxismo, anche oggi i credenti non sono insensibili al fascino delle nuove correnti che irrompono nella storia.

* Pubblicato in IlSussidiario.net il 9 settembre 2019

Papa Francesco idolo di Repubblica*

Scritto da Giovanni Sallusti.

Si sono svegliati particolarmente preoccupati per le sorti del cattolicesimo, ieri a Repubblica. Uno stato di ansia che ha trovato sfogo surrealista nel titolone "Cattolici a un bivio: il Papa o Salvini". Chi riuscisse a superare l' effetto comico involontario e si chiedesse quale sia il punto, trattasi del seguente: l'intollerabile adesione dell'«elettorato cattolico» al «format propagandistico salviniano», che esercita su di esso «un effetto ipnotico». I gonzi cattolici, secondo la severa lezione teologica impartita dai laicisti di Repubblica, non si rendono conto che la Lega è ormai un «partito anti-cristiano».   

Il perché è lampante: si oppone alla dottrina di Papa Francesco in materia di immigrazione. O meglio: in materia di deflagrazione incontrollata dei flussi. Ieri Bergoglio ha celebrato (l' ennesima) messa dedicata ai migranti e agli operatori dell' accoglienza. Nella redazione di Rep avranno stappato lo champagne, visto che con l' articolo di Alberto Melloni si erano spinti perfino a reclamare un sinodo ad hoc contro Salvini, in nome dell'«obbedienza al Vangelo» (un testo diventato di moda da quelle parti da quando il Fondatore Scalfari s' inventa più o meno a capocchia interviste con l' attuale Papa). Ecco, non vorremmo rovinare il brindisi, ma non possono non venirci in mente due uomini, d' intelletto e di Chiesa, che una lievissima infarinatura del testo evangelico ce l' avevano, o ce l' hanno. Trattasi di tali Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger.

Il primo, Giovanni Paolo II il grande, scriveva nell'enciclica Ecclesia in Europa (2003) parole che certo oggi gli varrebbero la scomunica dell'Inquisizone politicamente corretta. «Il crescente fenomeno delle immigrazioni stimola l'intera società europea e le sue istituzioni alla ricerca di un giusto ordine e di modi di convivenza rispettosi di tutti, come pure della legalità, in un processo d' una integrazione possibile». Ordine e legalità, integrazione possibile e non apertura aprioristica, siamo già semanticamente in tutt' altro campo rispetto alla riduzione caricaturale della Chiesa a portavoce delle ong, che gratta gratta è la visione di Repubblica. Ma Wojtyla rincara: «È responsabilità delle autorità pubbliche esercitare il controllo dei flussi migratori in considerazione delle esigenze del bene comune. L' accoglienza deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi». Per essere chiari: la forzatura del porto di Lampedusa e di ogni autorità statuale da parte dell' invasata Carola Rackete sarebbe stata per il Papa polacco un «abuso», da perseguire con «ferma repressione».

Poi c' è Benedetto, certo. C' è quel pensiero folgorante proprio in occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, dieci anni dopo le riflessioni del predecessore: «Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra». Questo perché «molte migrazioni sono conseguenza di precarietà economica, di mancanza dei beni essenziali, di calamità naturali, di guerre e disordini sociali. Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa allora un "calvario" per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria». C' è una gigantesca ferita nella coscienza mondiale chiamata Africa, ed è su quella che scafisti e trafficanti di uomini speculano.

Il punto sarebbe affrontare la prima, non agevolare il lavoro dei secondi. In ogni caso, per Ratzinger «il cammino di integrazione comprende diritti e doveri, attenzione e cura verso i migranti perché abbiano una vita decorosa, ma anche attenzione da parte dei migranti verso i valori che offre la società in cui si inseriscono». Anzitutto, la sacralità della vita umana e l' uguale dignità di ogni persona. «Non si tace sul Vangelo», intima Repubblica. E né Giovanni Paolo II né Benedetto XVI tacevano. Ma forse avevano letto un' edizione diversa. Oppure erano due biechi criptosovranisti anticristiani.

Si sono svegliati particolarmente preoccupati per le sorti del cattolicesimo, ieri a Repubblica. Uno stato di ansia che ha trovato sfogo surrealista nel titolone "Cattolici a un bivio: il Papa o Salvini". Chi riuscisse a superare l' effetto comico involontario e si chiedesse quale sia il punto, trattasi del seguente: l'intollerabile adesione dell'«elettorato cattolico» al «format propagandistico salviniano», che esercita su di esso «un effetto ipnotico». I gonzi cattolici, secondo la severa lezione teologica impartita dai laicisti di Repubblica, non si rendono conto che la Lega è ormai un «partito anti-cristiano».

Il perché è lampante: si oppone alla dottrina di Papa Francesco in materia di immigrazione. O meglio: in materia di deflagrazione incontrollata dei flussi. Ieri Bergoglio ha celebrato (l' ennesima) messa dedicata ai migranti e agli operatori dell' accoglienza. Nella redazione di Rep avranno stappato lo champagne, visto che con l' articolo di Alberto Melloni si erano spinti perfino a reclamare un sinodo ad hoc contro Salvini, in nome dell'«obbedienza al Vangelo» (un testo diventato di moda da quelle parti da quando il Fondatore Scalfari s' inventa più o meno a capocchia interviste con l' attuale Papa). Ecco, non vorremmo rovinare il brindisi, ma non possono non venirci in mente due uomini, d' intelletto e di Chiesa, che una lievissima infarinatura del testo evangelico ce l' avevano, o ce l' hanno. Trattasi di tali Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger.

Il primo, Giovanni Paolo II il grande, scriveva nell'enciclica Ecclesia in Europa (2003) parole che certo oggi gli varrebbero la scomunica dell'Inquisizone politicamente corretta. «Il crescente fenomeno delle immigrazioni stimola l'intera società europea e le sue istituzioni alla ricerca di un giusto ordine e di modi di convivenza rispettosi di tutti, come pure della legalità, in un processo d' una integrazione possibile». Ordine e legalità, integrazione possibile e non apertura aprioristica, siamo già semanticamente in tutt' altro campo rispetto alla riduzione caricaturale della Chiesa a portavoce delle ong, che gratta gratta è la visione di Repubblica. Ma Wojtyla rincara: «È responsabilità delle autorità pubbliche esercitare il controllo dei flussi migratori in considerazione delle esigenze del bene comune. L' accoglienza deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi». Per essere chiari: la forzatura del porto di Lampedusa e di ogni autorità statuale da parte dell' invasata Carola Rackete sarebbe stata per il Papa polacco un «abuso», da perseguire con «ferma repressione».

Poi c' è Benedetto, certo. C' è quel pensiero folgorante proprio in occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, dieci anni dopo le riflessioni del predecessore: «Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra». Questo perché «molte migrazioni sono conseguenza di precarietà economica, di mancanza dei beni essenziali, di calamità naturali, di guerre e disordini sociali. Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa allora un "calvario" per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria». C' è una gigantesca ferita nella coscienza mondiale chiamata Africa, ed è su quella che scafisti e trafficanti di uomini speculano.

Il punto sarebbe affrontare la prima, non agevolare il lavoro dei secondi. In ogni caso, per Ratzinger «il cammino di integrazione comprende diritti e doveri, attenzione e cura verso i migranti perché abbiano una vita decorosa, ma anche attenzione da parte dei migranti verso i valori che offre la società in cui si inseriscono». Anzitutto, la sacralità della vita umana e l' uguale dignità di ogni persona. «Non si tace sul Vangelo», intima Repubblica. E né Giovanni Paolo II né Benedetto XVI tacevano. Ma forse avevano letto un' edizione diversa. Oppure erano due biechi criptosovranisti anticristiani.

 

* Pubblicato in "Libero" del 10 luglio 2019. Il titolo completo dell'articolo è: Papa Francesco idolo di Repubblica, la vergogna: in cosa hanno trasformato Jospeh Ratzinger