Compagni di viaggio, articoli e studi

Questa seconda sezione  è esplicitamente cristologica ed evangelica.

Una poesia religiosa di struggente bellezza

Scritto da Lambert Noben.

 

La seguente poesia viene attribuita a Lambert Noben, un religioso belga non meglio identificato, quindi pressoché un anonimo, e, interpretata come espressione di un umanitarismo cristianizzato più che come portato di esemplare spirito biblico, ha ricevuto da parte cattolica alcune critiche di natura teologica. Per esempio, quel verso che recita “Sono nato uomo perché tu possa essere Dio», è stato preso di mira perché un uomo, biblicamente parlando, non può essere reso Dio o simile a Dio da parte di Dio stesso ma, al più, “immagine di Dio”, e anche su quell’altro verso in cui si dice che Dio ha voluto nascere nella vita di ogni persona “per portare tutti alla casa del Padre”, si è eccepito che, da un punto di vista biblico, non tutti, indiscriminatamente, potranno entrare nella casa del Padre, ma solo coloro che avranno voluto convertirsi, con parole e opere, a Cristo. Senonché, i cattolici dovrebbero sapere che, come recita la prima lettera di Giovanni  (3.3), «sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è».

Ora, è evidente che essere simili a Dio non comporta ancora essere identici a Dio, come più chiaramente si evince dalle parole di Gesù, secondo le quali «i figli della risurrezione» saranno «figli di Dio» (Lc 20, 36): e, benché non figli unigeniti ma adottivi, e soprattutto adottivi in Cristo l’unigenito, del quale verosimilmente non potranno che condividere il potere, i beni e la gloria. Se poi si tien conto del fatto che tale concetto è stato espresso in versi, credo che il buon cattolico si potrebbe generosamente concedere un minimo di elasticità interpretativa e potrebbe riconoscere comunque che dalla narrazione biblica il disegno amorevole e lungimirante di Dio è proprio quello di farsi uomo, vivere e soffrire come uomo, morire come uomo, al fine di consentire all’uomo di ritornare nella sua casa e vivere analogicamente come Dio.

E così, anche per quel che si riferisce alla possibilità salvifica di entrare nella casa celeste, è di tutta evidenza che il verso in questione non alluda ad una possibilità indiscriminata, a prescindere cioè dalla fede, dalla volontà di convertirsi a Cristo e di seguirne il più fedelmente possibile gli insegnamenti e i comandi, ma dice semplicemente che Dio-Cristo nasce nella vita di ognuno di noi, perché ognuno di noi, conoscendolo, abbia piena facoltà di seguirne la via o di prendere una strada diversa, ma, per l’appunto, è biblicamente fuori discussione che il Padre e il Figlio compiono il loro atto sacrificale di amore al fine (per portare) di portare tutti alla loro casa, anche se non dovesse essere così, anche se anzi non sarà così, dal momento che il testo biblico originale, quale compare in Luca, Paolo, Marco e Matteo, della frase eucaristica pronunciata da Gesù recita esattamente:  “Questo è il mio sangue … versato per voi” e “per molti”, non “per tutti”. La parola “tutti” non compare in nessun altro testo biblico, e d’altra parte la Chiesa preconciliare e già bimillenaria diceva sempre: pro multis e non pro omnibus. Sarà poi anche vero, come molto cavillosamente e artificiosamente notava a suo tempo il cardinale Albert Vanhoye, che in lingua ebraica non si dà una contrapposizione frontale di significato tra “molti” e “tutti”, ma resta il fatto che la parola pronunciata da Gesù fu “molti” (polloi) e non “tutti” (pantes) (Si vedano su fronti contrapposti: F. di Maria, La salvezza di Cristo è per “tutti” o per “molti”, in questo stesso sito, e Intervista al cardinale A. Vanhoye, Non c’è contrapposizione dialettica tra pro multis e per tutti, in “30 Giorni”, aprile 2010). E un motivo deve pur esserci. Ecco, dunque, il bellissimo testo poetico in parola di Lambert Noben.

 

 F. di M.

Sono nato nudo, dice Dio, perché tu sappia spogliarti di te stesso.

 

Sono nato povero perché tu possa considerarmi l’unica ricchezza.

 

Sono nato in una stalla perché tu impari a santificare ogni ambiente.

 

Sono nato debole, dice Dio, perché tu non abbia paura di me.

 

Sono nato per amore perché tu non dubiti mai del mio amore.

 

Sono nato di notte perché tu creda che posso illuminare qualsiasi realtà.

 

Sono nato persona, dice Dio, perché tu non abbia mai a vergognarti di essere te stesso.

 

Sono nato uomo perché tu possa essere "dio".

 

Sono nato perseguitato perché tu sappia accettare le difficoltà.

 

Sono nato nella semplicità perché tu smetta di essere complicato.

 

Sono nato nella tua vita, dice Dio, per portare tutti alla casa del Padre.

Ite missa est*

Scritto da Emanuele Casalena.

Ite missa est: locuzione latina di commiato della messa di rito romano, cancellata nella lingua universale del cattolicesimo come l’etimo stesso della confessione religiosa e sostituita dalla formula:” La messa è finita, andate in pace”.

Papa Benedetto XVI, a suo tempo, offrì un’interpretazione missionaria di quell’antica locuzione (VII sec.) affermando: “Nell’antichità “missa” significava “dimissione”. Tuttavia essa ha trovato nell’uso cristiano un significato più profondo. L’espressione “dimissione”, in realtà, si trasforma in “missione. Questo salto esprime sinteticamente la natura missionaria della Chiesa”. Non un congedo dunque ma un’esortazione a farsi sale della terra, accendere la luce sotto il moggio perché rischiari la casa di speranza per il viandante. Est è ben altro da “è finita”, il commensale del sacrificio è nunzio della buona novella avendo Cristo in sé sotto le specie del pane e del vino, partecipa della sua missione di salvezza, ite è l’invito a dar seguito al mandato non la fine di un rito sacrificale, si mangia il mistero diventandone epifania, non ci si alza da tavola perché la cena è finita guadagnando l’uscio per essere digiuni quanto prima.

Noi pochi o tanti non importa siamo per l’appunto digiuni bel oltre i quaranta giorni nel deserto, fisicamente affamati di una particola azzima, pane della Pasqua, pasto di vita per l’animula vagula, blandula hospes comesque corporis come scriveva l’iberico Adriano, spaurita e soffocata nel sacco dell’umana paura d’un nemico invisibile eppure con gli occhi a mandorla. 

Dicevamo che dietro lo stato d’emergenza (non previsto dalla Costituzione) proclamato per arginare il diffondersi di un virus maligno, aggressivo già nello scorso ottobre, vendetta di pipistrelli mattati dicunt i servi scienziati o “scappatella” dolosa da un laboratorio, dietro il panico epidemico generato dal caos sull’esegesi dei D.p.c.m., l’anima s’è barricata nel suo guscio, catacomba di carne e mattoni.

Fuori gli sgherri fedeli agli ordini di Nerone nella versione Petrolini, perseguono gli untori fin dentro le chiese intimando ai sacerdoti ribelli di piantarla all’istante con la messa, multando e cacciando fuori dal tempio i pochi vecchi resistenti alla laicità dello Stato sovrano. La sonnacchiosa CEI torna un po’ arzilla, rivendica la libertà costituzionale di culto, il Concordato, i diritti della fede, ma il gaucho la sconfessa ossequiente al terzo Papa, Giuseppe Conte, sia mai una chiesa diventasse zona rossa, i cristiani finirebbero allo spiedo come ai tempi dell’anziate imperatore.

Il brontolio eretico dei cattolici praticanti (un participio ch’ è diventato religione) ha preso a ronzare fastidioso dai media non allineati a porzioni del Parlamento creando disagio al conducator pur difeso da una falange di selezionati scienziati, esperti, consiglieri e intellettuali concentrati sul cesso. Al fin del chiacchiericcio è giunta la concessione, l’ultima cena si rinnoverà con l’accordo tra il presidente della CEI Gualtiero Bassetti e il coach G. Conte, la data è il 18 maggio, con partecipazione contingentata dei fedeli (occorrerà la prenotazione?), sanificazione, mascherine col filtro, guanti,  distanziamento sociale, niente scambio della pace, eucarestia sulle mani, ecc. desta curiosità il protocollo della riconciliazione, ci si confesserà stando in auto come a Limoges o con videochiamata attenti all’origliare malizioso dei curiosi, toccheremo con l’anima la creatività dei parroci nel lavarla.

Prima dell’epidemia la statistica calcolava una percentuale di fedeli praticanti tra il 16 e il 22% secondo fasce d’età, numeri shock per la patria del cattolicesimo, numeri destinati a ulteriore forte limatura a ragione della sicurezza, del rispetto di procedure episcopali e perché no con la ”scusa” della salute meglio una prece domestica che prendersi dei rischi, tanto più che la falce COVID miete le spighe vecchie, le più numerose all’ombra delle antiche navate.

L’emergenza sanitaria ha certificato la sottomissione delle religioni al potere laico, la loro marginalizzazione come fossero superfetazioni di una civiltà progressista che ha costretto Dio alla ritirata, al confinamento nella riserva indiana dell’io, guai manifestarlo o peggio annunciarlo, sarebbe accolto con malcelata sufficienza, ospite non gradito al banchetto dell’oro.

La chiesa postconciliare ha scelto di immergersi nel mondo facendosi megafono di un umanitarismo  laico a buon mercato, trasformandosi in una Onlus utile all’impasto del pensiero unico, corretto col dolcificante dell’ecumenismo verso tutto e tutti, meno quei Barabba ribelli al nuovo ordine costituito. Ecco persino i praticanti avvertono d’essere devoti sopportati da questa chiesa in osmosi con la cultura contemporanea, un’Ecclesia debole, colma di ovvietà buoniste per essere accolta dai viventi il pensiero minimalista, lo scientismo profetico di un’umanità organica solo alla terra, il cielo lo si osserva per scrutare i buchi neri non certo per scoprirvi l’anima mundi.

Suscita scandalo il monito di Papa Ratzinger contro le nozze gay e l’aborto segni tangibili dell’Anticristo, servono adesso castori per costruire una diga contro il fluire del liquame, tempo dell’ ite missa est accolta col fuoco della missione, così detta in Apocalisse il testimone fedele e veritiero “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!  Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”.

*Pubblicato in "Il pensiero forte.it" del 13 maggio 2020.

Da sempre l'eucaristia si è presa direttamente in bocca*

Scritto da Corrado Gnerre.

“Dobbiamo badare con ogni premura a non attenuare alcuna dimensione o esigenza dell’Eucaristia. Così ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono. (…) Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero!”

(Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n.61)

 

Un edificante episodio …e ciò che insegna san Francesco

Si era nel 1871, in Francia. I Prussiani stavano per occupare il villaggio di Delors. Gli abitanti, buoni cristiani, si preoccuparono che all’arrivo dei nemici l’Eucaristia avrebbe rischiato di essere profanata. Avevano già sentito di casi simili operati dai Prussiani, ma non avevano però il sacerdote per poterla rimuovere dal tabernacolo. Allora pensarono di affidare ad un venerando anziano il compito di prendere le sacre Specie e di nasconderle. Ma l’anziano prescelto si rifiutò categoricamente: “Io non sono degno!”; poi lui stesso consigliò di servirsi di un bambino che era lì ed aveva appena quattro anni. Fu accettata la proposta. Si chiamò quel fanciullo innocente e ci si recò in chiesa. Il vecchio aprì il tabernacolo e il fanciullo prese nelle mani la Pisside con le Ostie e la portò, seguito dai fedeli, in un luogo sicuro. Un pio scrittore che riferisce questo episodio ha commentato: “Quei buoni abitanti mostrarono in qualche modo quale deve essere la purezza di chi riceve la Comunione! Poiché, se tanta deve essere l’innocenza e la purezza in colui che ha da portare semplicemente fra le sue mani Gesù Eucaristico, quanto dovrà essere maggiore l’innocenza e la purezza di chi deve riceverlo nel santuario del proprio cuore?”[1]

San Francesco d’Assisi vedeva nella Vergine Immacolata il modello della purezza con la quale i cristiani, e in particolare i Sacerdoti, dovrebbero accostarsi al Corpo santissimo del Signore. Egli scrive in una sua lettera: “Ascoltate, fratelli miei, se è tanto onorata la Vergine Maria, come è giusto, perché portò Gesù nel Suo seno santissimo, quanto non deve essere santo e giusto e degno di Lui chi lo può toccare con le sue mani, prendere nel cuore e nella bocca, o offrirlo agli altri perché lo ricevano?”[2]

 

Sono davvero credibili gli argomenti a favore dell’Eucaristia da ricevere in mano?

Veniamo adesso ad elencare alcuni argomenti che solitamente sostengono coloro che sono favorevoli a ricevere l’Eucaristia nella mano.

Il primo argomento è relativo a ciò che racconta il Vangelo, il secondo è di carattere storico.

 

Argomento evangelico

 

Si dice: Gesù nell’Ultima Cena non diede agli apostoli l’Eucaristia direttamente in bocca ma in mano.

Prima di tutto va detto che non è affatto scontata una cosa del genere. Anzi, è possibile supporre che Gesù abbia dato il pane direttamente in bocca a ciascun apostolo. In Medio Oriente, usanza del tempo di Gesù e che perdura tuttora, il padre di casa nutre i suoi ospiti con la propria mano, mettendo un pezzo simbolico di cibo nella bocca degli ospiti.[3]

Ma, ammesso e non concesso che sia andata davvero così, cioè che Gesù abbia dato l’Eucaristia nelle mani degli apostoli, va fatta una precisazione importante: in quel momento gli apostoli già erano stati ordinati sacerdoti, addirittura sacerdoti in pienezza, quindi vescovi.

 

Argomento storico

 

Il secondo argomento è di carattere storico ed è più complesso del primo, pertanto merita una risposta molto più lunga. Si dice: i primi cristiani non ricevevano la Comunione direttamente in bocca ma tra le mani.  Vediamo se realmente fu così.

Prima di tutto va fatta una premessa. Non è detto che ciò che vi era nell’antichità è sempre migliore di ciò che si è approfondito e si è istituzionalizzato in seguito. Liturgicamente, come è sbagliato il progressismo, per cui ciò che viene dopo sarebbe sempre migliore di ciò che è venuto prima; è altrettanto sbagliato l’archeologismo, ciò che è venuto prima sarebbe sempre migliore di ciò che viene dopo. A riguardo papa Pio XII è molto chiaro nella sua Mediator Dei (n.51): “(…) non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi, ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per mutate circostanze. Questo modo di pensare e di agire, difatti, fa rivivere l’eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall’illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono, con grande danno delle anime e che la Chiesa, vigilante custode del ‘Depositum Fidei’ affidatole dal suo divin Fondatore, a buon diritto condannò.”

Altra premessa importante. Nei primi secoli del Cristianesimo si facevano forti penitenze per l’Eucaristia, per esempio ci si asteneva da qualsiasi cibo e bevanda dalla vigilia fino al momento della Comunione. Ora, se valesse il principio archeologista, bisognerebbe chiedere a tanti sostenitori della Comunione nella mano: ma perché non si recuperano anche le rigide penitenze dei primi secoli? Se è giusto riprendere ciò che vi era all’inizio, allora si riprendano anche le dure penitenze dell’inizio… mi sa che molti si tirerebbero indietro.

Ma veniamo ai fatti. Davvero nei primi tempi della Chiesa l’Eucaristia si riceveva nella mano? E’ falso.

Ci sono testimonianze certe che attestano come sin dall’inizio era diffusa la consuetudine di deporre le sacre Specie sulle labbra dei comunicandi e anche della proibizione ai laici di toccare l’Eucaristia con le mani. Solo in caso di necessità e in tempo di persecuzione, assicura per esempio san Basilio, si poteva derogare da questa norma e quindi era concesso anche ai laici di comunicarsi con le proprie mani.[4]

Papa Sisto I fu sesto successore di Pietro e settimo papa, dal 115 al 125. Questi, per impedire gli abusi che già a quei tempi si verificavano, proibì ai laici di toccare i vasi sacri, per cui è ampiamente fondato supporre che vietasse agli stessi di toccare le Sacre Specie eucaristiche: “Statutum est ut sacra vasa non aliis quam a sacratis Dominoque dicatis contrctentur hominibus”[5].

Sant’Eutichiano, papa dal 275 al 283, affinché non toccassero l’Eucaristia con le mani, proibì ai laici di portare le sacre Specie agli ammalati: “Nessuno osi consegnare la comunione a un laico o ad una donna per portarla ad un infermo.”[6]

Il Concilio di Saragozza, nel 380, emanò la scomunica contro coloro che si fossero permessi di trattare la santissima Eucaristia come in tempo di persecuzione, tempo nel quale –come abbiamo già detto- anche i laici potevano trovarsi nella necessità di toccarla con le proprie mani.[7]

Sant’Innocenzo I, dal 404, impose il rito della Comunione solo sulla lingua.[8]

Papa Sant’Innocenzo I (401-417), nel 416, nella Lettera a Decenzio, Vescovo di Gubbio, che gli chiedeva direttive riguardo alla liturgia romana che intendeva adottare, rispose affermando per tutti l’obbligo di rispettare al riguardo la Tradizione della Chiesa di Roma, perché essa discende dallo stesso Pietro, primo Papa. Ebbene, lo stesso Sant’Innocenzo –come abbiamo detto prima- dal 404 aveva imposto il rito della Comunione solo sulla lingua.[9]

San Leone Magno (440-461) scrisse nel Sermo VDe jeunio, decimi mensi: “Hoc ore sumitur”,ovvero: “Questo Cibo si riceve con la bocca.”[10]

San Gregorio Magno narra che sant’Agapito, papa dal 535 al 536, durante i pochi mesi del suo pontificato, recatosi a Costantinopoli, guarì un sordomuto all’atto in cui “gli metteva in bocca il Corpo del Signore”[11]dunque l’Eucaristia si dava direttamente in bocca.

Il Concilio di Rouen, verso il 650, proibì al ministro dell’Eucaristia di deporre le sacre Specie sulla mano del comunicando laico: “(Il sacerdote) badi a comunicarli (i fedeli) di propria mano, non ponga l’Eucaristia in mano a nessun laico o donna, ma la deponga solo sulle labbra con queste parole: ‘Il Corpo e il Sangue del Signore, ti giovi in remissione dei peccati e per la vita eterna. Se qualcuno trasgredirà queste norme, sia rimosso dall’altare, perché disprezza Dio Onnipotente e per quanto sta in lui lo disonora.”[12]

Sulla medesima linea il Concilio Costantinopolitano III (680-681), sotto i pontefici Agatone e Leone II, vietò ai fedeli di comunicarsi con le proprie mani e minacciò la scomunica a chi avesse avuto la temerarietà di farlo.

Il Sinodo di Cordoba dell’anno 839 condannò la setta dei “casiani” a causa del loro rifiuto di ricevere la sacra Comunione direttamente in bocca.[13]

In Occidente, il gesto di prostrarsi e inginocchiarsi prima di ricevere il Corpo del Signore si osservava negli ambienti monastici già a partire dal VI secolo (per esempio nei monasteri di san Colombano)[14] Più tardi nei secoli X e XI questo gesto si diffuse ancora di più.[15]

Quando san Tommaso d’Aquino espose i motivi che vietavano ai laici di toccare le sacre Specie, non parlò di un rito di recente invenzione, ma di consuetudine liturgica antica come la Chiesa.[16]

Ecco perché il Concilio di Trento poté affermare che non solo nella Chiesa di Dio fu una consuetudine costante che i laici ricevessero la Comunione dai sacerdoti, mentre i sacerdoti si comunicassero da sé, ma anche che tale consuetudine è di origine apostolica: Nell’assunzione di questo Sacramento (l’Eucaristia) fu sempre costume nella Chiesa di Dio che i laici ricevessero la comunione dai Sacerdoti e i Sacerdoti celebranti invece comunicassero se stessi, costume che con ogni ragione deve ritenersi come proveniente dalla Tradizione apostolica.”[17]

Abbiamo iniziato con papa Giovanni Paolo II, concludiamo con lui. Sempre nella Ecclesia de Eucharistia, al n.49, scrive:

“Sull’onda dell’elevato senso del mistero si comprende come la fede della Chiesa nel mistero eucaristico si sia espressa nella storia non solo attraverso l’istanza di un interiore atteggiamento di devozione, ma anche attraverso una serie di espressioni esterne.”

 

* Pubblicato in "Confederazione Triarii" in data non precisata

Omelia su Mt 5, 17-37, Una responsabilità liberante*

Scritto da Luciano Manicardi.

In quel tempo vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:17Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. 18In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. 19Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
20Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.21Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: «Stupido», dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: «Pazzo», sarà destinato al fuoco della Geènna.
23Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono.
25Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. 26In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all'ultimo spicciolo! 27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. 28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna.
31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all'adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio. 33Avete anche inteso che fu detto agli antichi: «Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti». 34Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, 35né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. 36Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37Sia invece il vostro parlare: «Sì, sì», «No, no»; il di più viene dal Maligno.


Dopo aver enunciato, con le beatitudini, le condizioni che consentono l’ingresso nel Regno dei cieli, ora Gesù approfondisce il senso di quella giustizia che, già presente tra le beatitudini (Mt 5,6.10), designa la fedeltà obbediente alla volontà di Dio espressa nella Torah. Questa parola – giustizia – che ritornerà alcune volte nel discorso della montagna (Mt 5,20; 6,1.33), invita l’ascoltatore di Gesù a una fedeltà più radicale alle esigenze richieste dalla Torah stessa. Più radicale, cioè più autentica, più integrale, rispetto a interpretazioni correnti all’epoca di Gesù: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei cieli” (Mt 5,20). Per questo Gesù subito specifica di non essere venuto per abrogare la Torah, ma per darle pienezza e compimento, quindi fornisce alcuni esempi di tale comprensione più radicale della Torah.

Anzitutto Gesù afferma il senso della sua missione: egli non è venuto per abrogare, per dissolvere la Torah, ma per darle compimento. Questa dichiarazione di fondo impedisce di intendere le frasi successive come antitesi in cui Gesù si opporrebbe alla Torah. In realtà, il secondo elemento della frase (introdotto da: “ma io vi dico”) svela il senso racchiuso nel primo (“Avete udito che fu detto”): dunque non sopprime, ma esplica. Gesù non si oppone alla Scrittura, ma a interpretazioni e spiegazioni della Scrittura date dagli scribi. Dunque il testo non autorizza alcuna posizione sostituzionista. “Dare pieno compimento” significa poi sia realizzare, mettere in pratica, sia riempire, colmare, completare, manifestare il vero significato. Come scrive Ireneo di Lione: “Il Signore non ha abolito, ma ampliato e completato i precetti naturali della Legge, quei precetti per mezzo dei quali l’uomo è giustificato” (Adversus Haereses IV,13,1). È talmente vero che Gesù non intende abrogare la Torah che specifica che neppure un iota, la lettera più piccola dell’alfabeto ebraico, e neppure il segno apparentemente meno significativo della stessa Torah – un trattino –, passeranno senza che “tutto sia avvenuto”, ovvero senza che ogni parola dello “sta scritto” abbia trovato compimento. Questo “tutto” si riassume, per Matteo, nel vangelo del Regno: “Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine” (Mt 24,14). Gesù poi riprende la distinzione rabbinica fra comandi piccoli e grandi, leggeri e gravi, ed esorta a non trascurare nemmeno i comandi più piccoli (Mt 5,19), anche se, certo, chiede di custodire una gerarchia e di non anteporre i comandi più piccoli alle esigenze più rilevanti e decisive della Torah: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’aneto e sul cimino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà” (Mt 23,23).

Quanto poi alla sovrabbondanza della giustizia dei discepoli di Gesù rispetto a quella di scribi e farisei (Mt 5,20), si tratta evidentemente di un superamento qualitativo, non quantitativo, un superamento che va nella direzione della completezza, della perfezione a cui Gesù esorta i suoi discepoli: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). E di tale giustizia superiore vengono ora dati diversi esempi (Mt 5,21-48). Da questi esempi si può dedurre che l’approfondimento e la radicalizzazione del senso dei comandi operati da Gesù sia anche approfondimento e radicalizzazione della libertà umana che trova nel cuore la sua sede invisibile e nelle relazioni con gli altri il luogo del suo manifestarsi come responsabilità liberante.

Lo schema ricorrente è composto di due parti di cui la prima (“Avete udito che fu detto agli antichi”) introduce una citazione della Torah e di un suo commento tradizionale; la seconda esprime l’interpretazione di Gesù (“Ma io vi dico”). Per esempio, nei vv. 21-22, Gesù cita il comando del decalogo “Non ucciderai” (Es 20,13; Dt 5,17) e la sua interpretazione normativa trasmessa oralmente: “Chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. L’interpretazione di Gesù da un lato radicalizza ed estende l’azione di uccidere, dall’altro corregge l’interpretazione tradizionale specificando le diverse istanze giudicanti a cui saranno sottoposti anche coloro che, pur non avendo fisicamente ucciso nessuno, si sono resi responsabili di azioni altrettanto gravi. Ovviamente, Gesù non si muove su un piano giuridico stabilendo istanze di giudizio ulteriori per altri reati, ma vuole sottolineare la gravità estrema del peccato verso il prossimo anche se non si giunge a togliergli materialmente la vita. Se la vita, come sottolinea la Bibbia, è nel sangue (Lv 17,11), allora anche il far arrossire una persona svergognandola diventa omicida: anche lì si assiste a un versare il sangue dell’altro. La pratica dell’umiliazione attraverso la violenza verbale con cui si diminuisce l’umanità di una persona qualificandola come “stupida” o “pazza”, è già un atto omicida. E anche chi si adira contro il fratello compie un atto che può menomare l’umanità dell’altro.

Dietro queste parole di Gesù si coglie il problema della collera. Collera che, essendo un’emozione, di per sé non è né buona né cattiva. Il problema è l’uso che ne viene fatto e il modo in cui viene gestita. Si tratta di riconoscere i segni fisici precursori della collera e di esprimerla in modo non violento, cioè alla prima persona (“Sono molto arrabbiato con te”, “Mi hai fatto star male con il tuo comportamento”) piuttosto che alla seconda (“Tu sei pazzo”, “Sei una nullità”, “Non capisci niente”), che è già omicida. La collera è rivelatrice e ci aiuta a conoscerci: “Nella nostra dottrina non si chiede all’anima credente se va in collera, ma perché” (Agostino, De Civitate Dei IX,5). Se è omicida la collera che definisce l’altro riducendolo a ciò che ha commesso oppure ingiuriandolo, tuttavia questa emozione, se non espressa, può essere più mortifera di quando viene espressa: “In certi casi l’ira impone all’animo agitato di non parlare e quanto meno si esprime fuori, tanto più brucia dentro … Spesso l’ira chiusa nell’animo col silenzio ribolle con più veemenza e, pur senza parlare, forma voci violente” (Gregorio Magno, Moralia V,82). L’ira che Gesù stesso ha provato (cf. Mc 3,5) ed espresso (Mc 10,14; Gv 2,15) mostra poi che vi è anche una santa collera che traduce lo sdegno divino di fronte alle ingiustizie e ai peccati degli uomini.

I vv. 23-24 attestano il primato della relazione sul rito: il rito può essere interrotto per cercare e attuare la riconciliazione con il fratello. Le relazioni umane sono il luogo del vero culto a Dio. Per questo la riconciliazione con il fratello è elemento essenziale per l’autentica celebrazione eucaristica. Meglio non partecipare all’Eucaristia che parteciparvi smentendo nella prassi ciò che si celebra con il rito: “Chi è in lite con il suo amico, non si riunisca con voi finché non si siano riconciliati, in modo che non sia profanato il vostro sacrificio” (Didaché XIV,2). Nella Didascalia Apostolorum si ordina: “O vescovi, affinché le vostre preghiere e i vostri sacrifici siano graditi, quando vi trovate in chiesa per pregare, il diacono deve dire ad alta voce: ‘C’è qualcuno che è in lite con il suo prossimo?’, in modo che, se ci sono persone che sono in lite tra loro, tu li possa convincere a stabilire la pace tra loro” (II,54,1).

Anche le parole dei vv. 25-26 sottolineano l’urgenza della riconciliazione. Il “presto” (Mt 5,25) nasce dalla coscienza che ormai “il Regno dei cieli si è avvicinato” (Mt 4,17) e il tempo dell’oggi è l’occasione della conversione e della riconciliazione prima della venuta gloriosa del Figlio dell’uomo.

Nei vv. 27-32 Gesù radicalizza la proibizione dell’adulterio estendendolo anche al solo desiderio di possedere un’altra donna. Prima che nel gesto, il peccato giace nel cuore e l’occhio rivela ciò che vi è nel cuore. Gesù mette in guardia dalla concupiscenza, dallo sguardo che rende la donna oggetto di possesso per l’uomo. Quindi Gesù denuncia lo scandalo e chiede la rinuncia a ciò che vi conduce (vv. 29-30). Cavare l’occhio, tagliare la mano e gettarli, se sono occasioni di scandalo, non sono disumane direttive da applicarsi letteralmente, ma indicazioni realistiche – espresse con linguaggio paradossale e volutamente caricato – di una lotta da combattere ogni giorno per purificare il proprio cuore e vivere il vangelo con maggiore libertà. Viene qui espressa l’esigenza di una lotta, di un duro combattimento contro le tendenze che portano l’uomo a un agire e a una relazionalità antievangelici. Nei vv. 31-32 Gesù (riprendendo Dt 24,1) restringe la possibilità del ripudio della moglie da parte del marito al solo caso di porneía (impudicizia, atto sessuale immorale: cf. Mt 19,9) e afferma che chi – al di fuori di questo caso – ripudia la propria moglie, la espone all’adulterio, quasi la “costringe” all’adulterio.

Infine, l’ammonimento di Gesù sul giuramento (vv. 33-37) è un invito alla responsabilità della parola. Gesù radicalizza il divieto divino a giurare il falso e dice di “non giurare affatto”. Gesù opera una desacralizzazione e chiede al credente una laica adesione alla parola pronunciata senza chiamare in causa elementi sacri come testimoni della veridicità del proprio dire. Il nostro parlare dev’essere talmente vero da non aver bisogno di giuramenti.

*Pubblicato da Luciano Manicardi sul sito del Monastero di Bose il 16 febbraio 2020

Una Chiesa prona al mondo*

Scritto da Cristina Siccardi.

(Cristina Siccardi) «Valutare con i responsabili delle altre Chiese la possibilità di organizzare insieme giornate di studi biblici, pellegrinaggi/processioni ecumenici, gesti simbolici congiunti o eventuali scambi di reliquie e di immagini sacre», così recita, nella sezione dedicata alle Raccomandazioni pratiche, il documento del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei cristiani, dal titolo “Il Vescovo e l’unità dei cristiani: Vademecum ecumenico”, approvato da papa Francesco il 5 giugno u.s. e pubblicato in questi giorni, il 4 dicembre. Lo scontro fra i cattolici rimasti tali ed una Chiesa sempre più svenduta al mondo, sia laico che protestante, è ogni giorno più evidente. Con la gioia dei cattolici il Papa, a sorpresa, nel giorno della Solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria e alle prime luci dell’alba, sotto la pioggia, ha deposto un mazzo di rose bianche alla base della colonna dove si trova la statua della Madonna, in piazza di Spagna a Roma e ha pregato, invocandola perché interceda su Roma e su tutti coloro che nel mondo soffrono a causa della pandemia e ne sono scoraggiati. Un atto di venerazione in forma privata prima che i vigili del fuoco salissero con l’autoscala su, fino a 27 metri d’altezza, per donare alla Madonna la tradizionale corona di candidi fiori a Maria Vergine.

È incredibile come papa Francesco riesca a mettere insieme atti di devozione mariana, come è accaduto questo 8 dicembre 2020, con affermazioni come queste: «Maria è meticcia, donna dei nostri popoli, ma che ha meticciato Dio». Scrive Andrea Cionci: «Secondo le dichiarazioni di Francesco, poi, “Maria ha educato male Gesù” e “se lo avesse educato meglio non sarebbe finito in croce”. Anzi, di fronte al Figlio morto, Maria si sarebbe così rivolta a Dio: “Mi hai detto bugie, mi hai ingannata! Dicevi che gli avresti dato il trono di Davide e adesso lo vedo lì!» (Libero Quotidiano).

La Chiesa è prona ai dettami dello Stato e del pensiero globalista dominante ed è disposta, per un insensato e insano spirito masochistico e suicida, a considerare ciò che non è cattolico valido, apprezzabile, positivo, da includere, da imitare, arrivando a contraddizioni e paradossi così grossolani da divenire ridicoli. Per esempio, nel Vademecum viene detto ai Vescovi di organizzare pellegrinaggi, processioni, scambi di reliquie e di immagini sacre con i protestanti, che non credono né ai dogmi mariani, né alla devozione e alla comunione dei Santi (quindi alla perfezione cristiana a cui si giunge con la santificazione dell’anima), né all’iconografia sacra. I cattolici che conoscono la loro Fede, a questo punto, vengono ingannevolmente presi in giro e traditi senza rispetto; tuttavia, questi cattolici hanno il diritto di ricordare a se stessi e agli altri le verità di Fede, quindi i principi fermi e indissolubili che costituiscono il loro Credo e che nessuno, ma proprio nessuno, può evolvere o rivoluzionare: sono le verità in cui sono stati battezzati e cresimati e che, con la perseveranza, porteranno avanti fino all’estrema unzione.

Come i dogmi dell’Immacolata concezione e dell’Assunzione non possono essere mercanteggiati, allo stesso tempo non si può ignorare ciò che dicono i protestanti con le loro false concezioni. Ecco quel che sostengono, per esempio, i metodisti, in merito alla Madre Dio: «la sua perpetua verginità, la sua immacolata concezione, la sua assunzione in cielo non avendo nessun fondamento nella Scrittura non possono essere oggetto di fede. Per lo stesso motivo gli evangelici non recitano l’Ave Maria, che mischia il saluto dell’angelo (“ti saluto Maria a cui il Signore ha fatto grazia…”) con una preghiera “santa Maria prega per noi peccatori”…». Per gli evangelici Maria è soltanto un esempio di obbedienza a Dio e «questo è vero di lei, ma anche di tutti i cristiani». Che dire poi circa l’Eucaristia? I protestanti non solo non riconoscono l’autorità gerarchica della Chiesa di Roma, ma non credono alla presenza reale di Nostro Signore Gesù Cristo nell’Ostia consacrata dal sacerdote, nella quale la Seconda Persona della Santissima Trinità è presente in Corpo, Sangue, Anima e Divinità; secondo loro si tratta solo di una memoria dell’ultima Cena e proprio per questo la figura del ministro di Dio è inutile.

Assente il Santo Sacrificio dell’Altare, assente il culto alla Madonna concepita senza peccato e perpetuamente Vergine, Tota pulchra e Regina degli Angeli come dei Santi; assente la devozione peri Santi e perciò assente il culto per le reliquie, che essi inglobano nella galassia dei feticci o dei talismani, come si legge qui a chiare lettere: «Noi evangelici non abbiamo santi o beati a cui rivolgere preghiere, ma invochiamo solo Cristo Signore. E per motivi analoghi è del tutto assente, ovviamente, anche il culto delle reliquie (anche se questo è presente in molti aspetti della vita sociale: la maglia di un giocatore dopo la partita e un oggetto di un celebre attore sono oggi una sorta di “reliquie”), in quanto queste nel cristianesimo hanno in genere relazione con un santo: il sangue di San Gennaro, per esempio. Pure la Sindone di Torino appartiene a questo tipo di religiosità […] Questo mondo di religiosità popolare è però del tutto estraneo al mondo evangelico» e viene considerato «magico» perché non ha un «nesso con il messaggio evangelico» (Chiesa Evangelica Metodista). Liberi di dire le loro opinioni e le loro teorie, ma liberi noi di credere in ciò che per duemila anni Santa Romana Chiesa ha sostenuto, trasmesso, insegnato, difeso – fino a testimoniare la propria Fede con il martirio più cruento per mano dei persecutori – attraverso i suoi Apostoli, i suoi Padri della Chiesa, i suoi Santi, i suoi Sommi Pontefici. Se la Chiesa, oggi, non chiede più la conversione delle anime a Cristo, come insegnò il Figlio di Dio in terra, ma la conversione alle altre mille religioni e ai mille rivoli del protestantesimo, millantando tutto ciò ancora per “cattolico”, noi non siamo disposti a vendere, sia per un piatto di lenticchie che per una miniera d’oro, la nostra anima, il cui padrone è solo Nostro Signore Gesù Cristo.

Come non si può tacere di fronte alle assurde esortazioni, alle plateali contraddizioni, agli errori, alle menzogne, agli scandali dottrinali che hanno un valore ben più grande e grave di quelli morali, così non si può tacere nei confronti di sacerdoti che (come ha fatto in questi giorni don Valerio Mugnaini) propongono sul proprio profilo facebook, nell’ottavo giorno della Novena all’Immacolata, l’«Ave Maria» di Renato Zero. Occorre riflettere prima di commettere tali sbagli: anche se questo improprio invito orante fosse stato fatto in buona fede, senza piena avvertenza e deliberato consenso, rimane comunque il negativo gesto pubblico di seminare il liberalismo e il relativismo nella Fede, mischiando, in una sorta di bulimia contemporanea senza freno, ciò che è sacro con ciò che è profano. 

*Pubblicato in "Corrispondenza Romana.it" il 9 dicembre 2020