La fede non si impara sui libri. Note su alcune posizioni della Chiesa

Scritto da Lucio Torre on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Nel dedicare la sua catechesi ad un monaco orientale e asiatico del X secolo, noto come Simeone il Nuovo Teologo e molto rilevante per l’influsso da lui esercitato «sulla teologia e sulla spiritualità dell’Oriente», Benedetto XVI ha sottolineato che la sua principale lezione è che «la vera conoscenza di Dio non viene tanto dai libri quanto soprattutto da un’esperienza dello spirito» (La fede non si impara sui libri ma nasce dallo spirito, in “L’Osservatore Romano” del 17 settembre 2009): «la conoscenza di Dio», scrive il papa, «nasce da un cammino di purificazione interiore che ha inizio con la conversione del cuore, grazie alla forza della fede e dell'amore; passa attraverso un profondo pentimento e dolore sincero per i propri peccati, per giungere all'unione con Cristo, fonte di gioia e di pace, invasi dalla luce della sua presenza in noi. Per Simeone tale esperienza della grazia divina non costituisce un dono eccezionale per alcuni mistici, ma è il frutto del Battesimo nell'esistenza di ogni fedele seriamente impegnato» (Ivi). Se le cose stanno cosí, la fede più che di scienza, di teologia, di cultura religiosa è frutto di coscienza e di interiorità. Non che Simeone abbia inteso sottovalutare gli aspetti intellettuali della fede ma è certo che per lui a percepire intimamente la reale presenza di Dio nella propria vita si giunge non attraverso complicati studi dottrinari ed estenuanti sedute teologiche ma attraverso una naturale apertura del cuore a ciò che ci sovrasta infinitamente, a quel Dio di giustizia e di bontà incommensurabili che si è sacrificato per noi per sottrarci alla morte e restituirci alla vita.

Tuttavia, conclude il papa, «lo stesso giovane Simeone…aveva trovato un direttore spirituale, che ebbe ad aiutarlo molto e del quale conservò grandissima stima, tanto da riservargli, dopo la morte, una venerazione anche pubblica. E vorrei dire che rimane valido per tutti - sacerdoti, persone consacrate e laici, e specialmente per i giovani - l'invito a ricorrere ai consigli di un buon padre spirituale, capace di accompagnare ciascuno nella conoscenza profonda di se stesso, e condurlo all'unione con il Signore, affinché la sua esistenza si conformi sempre più al Vangelo. Per andare verso il Signore abbiamo sempre bisogno di una guida, di un dialogo. Non possiamo farlo solamente con le nostre riflessioni. E questo è anche il senso della ecclesialità della nostra fede, di trovare questa guida» (Ivi).

Non c’è dubbio: trovare un buon padre spirituale è molto importante, specialmente nell’attuale periodo storico in cui i confessionali si svuotano a vista d’occhio sia di penitenti sia di penitenzieri e in cui non è semplicissimo trovare sacerdoti abbastanza saggi e spiritualmente affidabili. Però, l’aspetto in un certo senso inedito che è stato evidenziato dal papa non è questo: è l’altro, quello che si riferisce appunto al concetto per cui non è affatto detto che il vero credente in Cristo, sia esso prete o laico, vecchio o giovane, debba essere un uomo che sappia abbastanza di teologia e di morale e legga libri di spiritualità o trattati religiosi. Non so se il papa ne sia cosciente, ma questo discorso non è o non può essere privo di conseguenze sull’analisi che può e deve essere fatta oggi di problematiche che riguardano direttamente la Chiesa e le sue posizioni, per cosí dire, di politica religiosa.

Intanto, lo dico da cattolico, non si comprende la pretesa ecclesiastica che nelle scuole non solo sia insegnata la religione cattolica ma le sia anche riconosciuta pari dignità rispetto alle altre discipline. Non si comprende perché, se si parla di religione cattolica come fatto culturale che in quanto tale non può essere disconosciuto dagli studenti, allora è facile osservare che la conoscenza del cristianesimo, dei suoi princípi e dei suoi sviluppi storici essenziali, della storia della Chiesa per linee generali, e via dicendo, viene già trasmessa e garantita da una disciplina come la storia (e che poi nelle scuole questa disciplina non sempre venga utilizzata anche a questo scopo, è un altro discorso ed è qualcosa di cui eventualmente i singoli docenti devono assumersi la responsabilità); non si comprende, perché la funzione educativa e formativa della religione cattolica non è che venga più concretamente riconosciuta ed affermata se essa sia oggetto o tema di uno specifico insegnamento religioso piuttosto che di una più complessiva formazione scolastico-culturale; non si comprende perché, se si parla di religione cattolica come fede e quindi come dimensione della vita spirituale personale, è evidente che una sua acquisizione non possa derivare da un insegnamento scolastico ma da fattori e circostanze esistenziali non determinabili aprioristicamente e non riducibili a un problema di mera natura intellettuale (la fede non è pura intellettualità, ha detto per l’appunto il papa); non si comprende anche perché è ben risaputo (e solo gli ipocriti possono negarlo) che generalmente a scuola gli studenti e gli stessi studenti cattolici non studiano la religione e per dire la verità trattano l’ora di religione come un’ora di puro svago (per non dire di peggio), e anche perché spesso i docenti scelti dalle curie vescovili non tanto per motivi di merito ma per motivi di convenienza o per semplice amicizia non sono affatto all’altezza del compito loro affidato.

La fede non si insegna né, come dice il papa pur forse non rendendosi perfettamente conto di tutte le possibili implicazioni del suo dire, si apprende dai libri ma da una esperienza spirituale ben diversa, che è al tempo stesso più profonda e semplice di un’esperienza culturale e teologica. Questo è per l’appunto il pensiero di quel grande monaco asiatico che, si badi, non era né uno sprovveduto né un rozzo popolano sprezzante verso l’istruzione e la cultura, in quanto proveniente da una nobile e colta famiglia di provincia. La fede in Cristo e nel suo regno si annuncia e si testimonia e può essere acquisita interiormente solo attraverso un annuncio e una testimonianza attendibili che trasmettano davvero serenità, entusiasmo, passione e desiderio di voler aderire ad essi con la vita. E queste due operazioni, l’annuncio e la testimonianza, benché possano essere attuate in qualunque ambito della vita civile e dunque anche in quello scolastico, hanno il loro luogo di elezione nella comunità ecclesiale, nella Chiesa stessa. Non si capisce pertanto perché il 5 maggio scorso la Santa Sede abbia mandato ai vescovi una lettera circolare nella quale si scrive che “la libertà religiosa esige l’insegnamento della religione nella scuola” (J. Colína, La libertà religiosa esige l’insegnamento della religione nella scuola, in “Zenit” dell’8 settembre 2009). La libertà religiosa è fatta salva se la Chiesa è libera, come è libera, di educare al suo credo religioso chiunque voglia ricevere la sua educazione. Per il resto, la libertà religiosa esige solo che a scuola come in qualunque altro posto le fedi religiose non siano discriminate e siano oggetto di studio nel quadro di tutte quelle discipline istituzionali e ampiamente “collaudate”, come la letteratura, la storia, la filosofia, che trattano largamente di temi e aspetti per niente marginali delle religioni e della stessa religione cattolica.

Ma c’è una questione ancora più interna alla Chiesa che andrebbe posta all’ordine del giorno: siamo sicuri che tutte quelle pontificie università, tutte quelle accademie cattoliche, tutta quell’erudizione traboccante, tutti quei rigorosissimi corsi teologici, siano veramente, utili, necessari, indispensabili ad una sana formazione religiosa di tanti presbiteri e di tanti laici? Siamo sicuri che quei giovani che si avviano al sacerdozio siano realmente aiutati da anni e anni di duro e spesso insignificante e noioso studio seminariale? Cinque, sei anni di seminario non rischiano di essere un inutile e dannoso gravame che rallenta in modo artificioso, senza che vi sia alcuna reale necessità, la vita e la pratica sacerdotali anche di chi, veramente mosso e animato da genuina vocazione sacerdotale, sia dotato di grande talento evangelico? Gesù, sia consentita quest’osservazione provocatoria ma non intenzionalmente polemica, non ha mai sottoposto i suoi discepoli ad alcun esame teologico, avendoli scelti principalmente in base alla loro umanità, alla vivacità del loro intelletto e del loro temperamento e alla profondità del loro sentimento religioso (requisiti che non so sino a che punto interessino oggi alle curie vescovili di tutto il mondo), né ha mai verificato se essi avessero una perfetta conoscenza della bibbia e della storia religiosa del popolo ebraico.

E’ peraltro molto dubbio che oggi i seminari teologici possano assolvere la stessa funzione formativa che assolvevano un tempo, quando non esisteva l’oggettiva possibilità, di cui si dispone nell’odierna epoca multimediale, di accedere agevolmente a tutta una serie di opportunità e strumenti formativi che, stante naturalmente l’obbligatorietà di sottoporsi ad un intelligente e misurato “controllo” ecclesiastico, possono senz’altro consentire ai chiamati da Dio di darsi, con l’aiuto di qualche ottimo padre spirituale, una formazione religiosa più che adeguata.

Se, come ha insegnato quel grande monaco orientale, né libri, né cultura, né insegnamento di sorta potranno minimamente concorrere a fare di un prete un uomo di fede più grande di quanto egli già non sia per effetto della sua continua conversione spirituale a Dio e della continua effusione della grazia divina su di lui, non si rischierà invece, nel difendere e perpetuare certe strutture formative cattoliche, utili più a interessi spiccioli degli uomini che ad una seria testimonianza della verità di Cristo, di sollecitare sempre più i sacerdoti, ivi compresi quelli che non sono dotati di particolari capacità intellettive, ad essere o meglio a sentirsi innanzitutto uomini di cultura, professori, accademici, studiosi, giornalisti, comunicatori multimediali, anziché servi non semplicemente dichiarati ma effettivi di Dio e degli uomini? E, purtroppo, anche a sentirsi importanti come sacerdoti (il che sarebbe già grave) perché in possesso di titoli accademici, di qualifiche culturali, di ruoli “istituzionali” ritenuti più o meno prestigiosi? 

Perché la Chiesa, se la fede non si apprende nelle scuole e sui libri, nelle università e dai trattati di teologia, ci tiene tanto a far sfoggio di intellettualità, di spirito critico e di rigore accademico, e a sottolineare il suo ruolo nel mondo della cultura? Forse per competere con il mondo e con la stessa vanità narcisistica del mondo o, realmente, per un legittimo e consapevole bisogno di approfondimento spirituale della fede? Bisogna pensarci con onestà e dare una risposta chiara e convincente. Perché, eventualmente, si possa cambiare in meglio le cose.