Preti più o meno fedeli

Scritto da Clemente Siragusa on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Ci sono diversi “sacerdoti” che, quando si sentono chiamare con la parola “preti” se la prendono a male, quasi che il loro ruolo fosse diverso da quello che esercita il prete: diverso e naturalmente più nobile. Se poi chiami frate uno che si è fatto frate, noti che tende ad irrigidirsi e con una disinvoltura un po’ forzata ti propone di chiamarlo “padre”. Il massimo che i preti sono disposti solitamente a concedere è di essere chiamati con il “don”. I vescovi, invece, sembrano più modesti: a volte esprimono il desiderio di essere chiamati semplicemente “padri” ( padre Antonio, padre Roberto e cosí via). Ma non sempre la loro è una manifestazione di vera umiltà: talvolta la loro richiesta ha a che fare con una sorta di preventiva “captatio benevolentiae” presso i fedeli e i confratelli oppure con inconfessate esigenze di natura demagogica.

Anche se tutti questi titoli di “eminenza”, “eccellenza”, “padre” e via dicendo, all’inizio del terzo millennio dovrebbero essere ormai cancellati dal vocabolario cattolico, in quanto manifestamente antievangelici (e penso non sia il caso di citare), la situazione è questa: che difficilmente si trova un esponente del clero che accetti tranquillamente di essere chiamato con gli unici termini veramente legittimi che dovrebbero essere usati per definirne lo status: quello di prete o di presbitero. Infatti, il prete o presbitero può essere considerato un sacerdote ma non alla stessa stregua del sacerdozio di Cristo che è, in senso proprio, l’unico e sommo sacerdozio, al modo di Melchisedek, conferito da Dio. Il prete o presbitero sa benissimo che egli è sacerdote solo per analogia e in senso derivato, e anche questa consapevolezza dovrebbe aiutarlo a mitigare certi suoi comportamenti troppo autoritari o troppo disinvolti. Solo le suore accettano di essere chiamate cosí, senza pretendere il titolo di “madre”, e infatti generalmente esse sono più umili e meno presenzialiste dei preti.

Ma si sarà compreso che qui non si vuole sollevare una questione terminologica o nominalistica bensí semplicemente richiamare l’attenzione sul fatto che, rispetto ai tempi di Gesù, al quale si dava del “tu” ma con l’annesso e connesso appellativo di “signore” e ai cui discepoli ci si rivolgeva chiamandoli semplicemente per nome (Pietro, Giovanni, Giacomo), nel corso dei secoli le cose sono molto cambiate tanto che oggi, per l’appunto, gli uomini del clero hanno non di rado aspettative psicologiche molto diverse e allora inesistenti. E che queste aspettative ci siano realmente è confermato anche dal fatto che essi, a volte in buona fede ma molto spesso con aria di sufficienza, ti danno del “tu” per loro libera e gratuita iniziativa anche se sei medico, ingegnere, avvocato, professore, salvo naturalmente a ripristinare la capacità di darti del “lei” o del “voi” se sanno che sei un medico importante, un ingegnere famoso, un avvocato illustre e via dicendo o anche se si indispettiscono con qualcuno che a ragione o a torto non sia molto condiscendente nei loro confronti. D’altra parte è davvero raro che essi reagiscano con fermo e coerente spirito evangelico di indipendenza a gravi atti di prepotenza o di intimidazione, di sfrontatezza o di prevaricazione che vengono compiuti nell’ambito della comunità parrocchiale o diocesana: in questi casi hanno una reazione formale solo se certi fatti vanno a finire su giornali e televisioni, più che altro per giustificare se stessi o discolparsi di quanto potrebbe essere attribuito alla loro incuria. 

Non è che qui si voglia assolvere la funzione del terribile “accusatore” biblico che anziché pregare per le colpe proprie e dei propri fratelli tenta di aizzare il Signore contro i suoi figli peccatori. Non è questa la mia intenzione e prego il Signore di preservarmi dal confondere la mia doverosa volontà di testimonianza con un’inconfessata e gratuita tendenza a giudicare gli altri. Ma quel che, appunto per testimoniare, intendo segnalare è che il prete di oggi non è sempre una persona interiormente modesta ed equilibrata, davvero sensibile ed educata verso gli altri, e infine capace di interpretare fedelmente, con la condotta oltre che con la predica (anche questa non sempre brillante), gli stessi insegnamenti dell’unico Padre, dell’unico Signore, dell’unico Sacerdote e Maestro. A volte è tutto questo, naturalmente, ma non sempre e non prevalentemente. Ed è curioso vedere che la Chiesa non colga l’esistenza di questo problema, pur continuando a catechizzare periodicamente i suoi ministri – altro termine ambiguo che nella prassi ecclesiale finisce per significare non infrequentemente l’esatto contrario di ciò che significa etimologicamente (minus-ter, ovvero “tre volte meno” rispetto ad altri) – e a tracciare profili di prete ideale.

Ora, è evidente che qualcosa non va proprio nei meccanismi di reclutamento del personale presbiterale che, sia pure nel quadro di una vocazione sacerdotale dichiarata e non sempre effettiva, sono fondati essenzialmente sui requisiti del celibato e degli studi seminariali. Anzi, adesso pare che il vescovo debba stare particolarmente attento alle condizioni psichiche del candidato, ma su questo terreno, a meno di casi clamorosi di squilibrio psichico e nervoso, sarebbe forse opportuno non incamminarsi troppo per non rischiare di operare discriminazioni ingiustificate e dannose per le persone interessate e la Chiesa stessa.

Il celibato, che è un “dono” preziosissimo nei limiti in cui il prete celibe non sia semplicemente un uomo represso o comunque frustrato e di fatto incapace di avere rapporti umani sereni con le donne in genere o di trovare una collocazione professionale adeguata nella società, di per sé non può garantire alla Chiesa e alla comunità dei credenti né un prete onesto e credibile né tanto meno un prete santo: tant’è vero che le parrocchie brulicano di preti frettolosi e indaffarati in mille cose che di spiritualità sacerdotale contengono poco e impegnati in attività che li tengono non poco lontani dai bisogni reali di tanta gente sofferente e bisognosa di verità e d’amore. Quanto agli studi seminariali, servono per quel che possono servire: a dare qualche conoscenza in più e a trasmettere per cosí dire gli strumenti del “mestiere”, le nozioni basilari e i modi attraverso cui deve essere esercitato il ministero presbiterale. Ma essi, se i soggetti che vi si sottopongono non hanno sicure qualità umane di base e una capacità naturale di assimilazione e di elaborazione critica delle conoscenze in qualche modo acquisite, da soli non possono certo assicurare un’adeguata formazione spirituale dei discenti. Anzi, per alcuni candidati al sacerdozio di non giovane età che abbiano già una loro sicura e dimostrabile formazione culturale e spirituale, questi studi sono in gran parte inutili o superflui e la loro unica funzione, se non opportunamente e drasticamente ridotti o ridimensionati, è quella di ritardare l’ingresso di tali aspiranti nel ruolo presbiterale e il loro apporto di fede e di umanità alla comunità ecclesiale.

In effetti, a conferma del fatto che gli studi seminariali incidono relativamente sulla personalità e sull’operato dei preti, nelle chiese si sentono non di rado omelie molto approssimative quando non anche arbitrarie e soprattutto si ha a che fare con “ministri” che si ritengono autosufficienti e poco propensi a comportarsi come semplici fratelli tra fratelli, ad accettare il ruolo di chi è lí solo per servire. Certo, bisogna armarsi di tanta pazienza anche per accettare pastori non proprio irreprensibili; anzi il cristiano ha sempre il dovere spirituale di pregare Dio affinché renda innanzitutto se stesso più umile e generoso e poi anche gli altri migliori di come sono, ma non sembra ragionevole pensare che chi è stato in seminario per tanti anni  allo scopo di diventare o fare il prete più per motivi di calcolo e di convenienza che non per un’irrefrenabile e sincera esigenza di seguire Gesù sia all’interno della sua santa Chiesa sia al di là della Chiesa spesso peccatrice della nostra storia si possa improvvisare un santo apostolo di verità e d’amore.

Purtroppo, spesso le parrocchie (ma lo stesso discorso può estendersi ai vari ambiti della compagine ecclesiale) sono guidate da preti che invitano i fedeli alla partecipazione, alla collaborazione, alla progettazione e alla realizzazione di opere utili o necessarie per la comunità, non in funzione di una vera valorizzazione dei talenti di tutti e di ciascuno ma in funzione del loro stesso protagonismo e della loro conscia o inconscia vanità personale. E, infatti, non c’è da meravigliarsi che, a lasciare la comunità o ad allontanarsi da essa, siano talvolta le sorelle e i fratelli più “scomodi” non perché necessariamente presuntuosi o arroganti ma perché spiritualmente più preparati, onesti e franchi di altri che supportano più o meno passivamente la prassi magari non ineccepibile voluta dal loro parroco. Si capisce come in questo modo non ci si possa arricchire ma solo impoverire.

Però bisogna continuare a chiedere al Signore che ad ognuno di noi apra gli occhi per vedere: per vedere i nostri limiti personali e correggerli, per vedere le cose nella loro realtà, per trovare soluzioni positive senza mai stancarsi di cercarle in vero spirito di verità e carità. Ognuno di noi deve continuare a pregare perché, come disse il papa cui Cristo affidò direttamente la sua Chiesa, «ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli» (1Pt 4, 10-11), e perché chiunque nella Chiesa abbia ricevuto autorità la eserciti esclusivamente per servire in modo lineare e non generico o ambiguo e tenendo bene a mente che «a chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» (Lc 12, 48).