CEI e catechesi per la vita cristiana

Scritto da Ivan Rogato on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Merita di essere analizzata la recente Lettera (Annuncio e catechesi per la vita cristiana del 4 aprile 2010) della Conferenza Episcopale Italiana alle comunità, ai presbiteri e ai catechisti nel quarantesimo anniversario della pubblicazione del Documento di base (2 febbraio 1970) Il rinnovamento della catechesi. Premesso che il «Concilio Vaticano II è stato come il “grembo materno” del DB», favorendo «il nascere e l’impiantarsi di una nuova sensibilità missionaria» e introducendo «nuove tematiche, un nuovo linguaggio, un nuovo metodo di lavoro», si osserva che il DB, quanto ai contenuti di fede, «ha offerto una visione rinnovata della rivelazione», della quale non devono farsi annunciatori solo taluni importanti organi della Chiesa  essendo tutta la Chiesa, nell’insieme delle sue componenti e «attraverso molteplici espressioni», «chiamata a farsi annunciatrice…perché tutta la Chiesa è missionaria». Il valore permanente del DB, si nota nella Lettera del 4 aprile 2010, risiede nel fatto che esso, per quanto talvolta non sia stato recepito in modo del tutto corretto dalle chiese locali o da una parte di esse, ci aiuta ad intendere: a) la fede non solo come adesione intellettuale alle verità del messaggio cristiano ma innanzitutto come adesione interiore alla persona di Cristo, come comunione e intimità con Dio in Cristo; b) la natura e il carattere ecclesiali della fede, per cui ogni cristiano nella Chiesa è Chiesa, ovvero ogni cristiano, pur affidando la Chiesa istituzionale dei compiti particolari ad alcuni, come i catechisti o i presbiteri, «è responsabile, in forza del battesimo e della cresima, dell’evangelizzazione», donde «una responsabilità differenziata ma comune», in virtù della quale le persone «non sono semplici destinatari della catechesi, ma protagonisti del proprio cammino di fede»; c) l’importanza delle fonti della fede, e quindi Sacra Scrittura, tradizione, luogo di trasmissione e di incontro con la Parola di Dio, liturgia, celebrazione eucaristica e opere del creato, in quanto strumenti attraverso cui la catechesi viene ad acquisire «una dimensione di annuncio e di contemplazione della storia della salvezza»; d) l’importanza e la funzione dei catechisti e della loro formazione, poiché «la vitalità della comunità cristiana dipende in maniera decisiva dalla presenza e dal valore dei catechisti».    

Nel frattempo, però, sono sorti nuovi scenari culturali e religiosi che, se da una parte richiedono fedeltà alle indicazioni del DB, esigono dall’altra «scelte pastorali e catechistiche» altrettanto nuove. La secolarizzazione avanza determinando una certa regressione della tradizione cristiana nella società italiana e favorendo il diffondersi di una concezione tendenzialmente areligiosa o irreligiosa della vita. Questo, scrivono i vescovi, dipenderebbe da influssi culturali quali il razionalismo, lo scientismo, il relativismo e il materialismo consumista, anche se qui essi trascurano il fatto che, mutatis mutandis, certe tendenze culturali apparentemente contrarie alla fede sono sempre esistite e sono esistite anche in periodi storici in cui la fede e la tradizione religiosa sembravano più radicate nelle masse sociali del nostro paese. E’ vero in ogni caso, come rilevano i vescovi, che oggi tende a diffondersi enormemente un’indifferenza religiosa che porta molti, specialmente tra i giovani, a non porsi affatto il problema di Dio o meglio domande su Dio e sul loro rapporto con Dio. A ciò poi si deve aggiungere una sorta di soggettivismo religioso «che induce molti cristiani a selezionare in maniera arbitraria i contenuti della fede e della morale cristiana, a relativizzare l’appartenenza ecclesiale e a vivere l’esperienza religiosa in forma individualistica», per cui tende ad affermarsi al tempo stesso una concezione religiosa di tipo privatistico e sempre meno capace di incidere sui rapporti interpersonali e comunitari persino talvolta all’interno della propria comunità religiosa di appartenenza (parrocchia, diocesi ecc.). Non si può infine tacere sulla «pervasività della comunicazione multimediale» che per la Chiesa è un rischio di ulteriore impoverimento spirituale ma al tempo stesso una grande opportunità «per un nuovo annuncio del Vangelo e una piena umanizzazione della società».

A quali esigenze dunque esattamente la Chiesa italiana è oggi chiamata a rispondere? Viene ribadita nel documento la necessità, per le stesse comunità cristiane, che «si ponga mano a un impegno di primo annuncio del Vangelo, sia perché cresce il numero delle persone non battezzate o che debbono completare l’iniziazione cristiana, sia perché molti battezzati vivono come se Cristo non esistesse; inoltre anche in quanti ripetono i segni della fede, non sempre alle parole e ai gesti corrisponde un’autentica e concreta adesione alla persona di Gesù Salvatore» ("Questa è la nostra fede" - Nota pastorale sul primo annuncio del Vangelo, 15 maggio 2005, Solennità di Pentecoste).

La catechesi naturalmente resta centrale nell’azione pastorale ed evangelizzatrice della Chiesa, non nel senso che la catechesi sia tutto ma nel senso che «tutto nella Chiesa ha bisogno di catechesi: la liturgia, i sacramenti, la testimonianza, il servizio, la carità» (Consiglio Episcopale Permanente, L’iniziazione cristiana. 1. Orientamenti per il catecumenato degli adulti, 31 marzo 1997, n. 40). La catechesi poi è sia per la comunità, sia per la singola persona: e qui la responsabilità delle chiese locali è molto grande, perché non è pensabile una vera crescita pastorale e spirituale di una determinata comunità a prescindere dal fatto che ci si preoccupi, a cominciare dal vescovo e dal parroco, di dotarla di una buona catechesi che tale è solo se vale ad un tempo per tutti e per ciascuno. E’ infatti indispensabile, contrariamente a quanto non poche chiese locali hanno mostrato nei precedenti decenni e mostrano ancora di recepire, che la comunità viva anche al di là dei suoi schemi e delle sue abitudini, che non si chiuda in se stessa e nelle sue mere pratiche ritualistiche, ma si apra a chi ancora non ne fa parte o proviene da esperienze particolari e difformi da quelle degli altri parrocchiani, arricchendosi anzi concretamente del contributo di tutti nel rispetto e nell’obiettiva ed adeguata valorizzazione delle specifiche capacità (doni, carismi) di ciascuno.

Spesso disatteso dalle comunità cattoliche italiane, viene sottolineato, è in particolare l’«obiettivo primario di formare cristiani adulti, capaci di rendere ragione esplicitamente della loro fede con la vita e con la parola», anche se i vescovi un po’ ingenuamente propendono a ritenere che le loro “indicazioni” e le loro “proposte” periodiche al riguardo dovrebbero essere sufficienti a mettere tutte le comunità nelle condizioni di testimoniare al meglio la propria fede collettiva e personale. Purtroppo, c’è bisogno di ben altro: di vescovi che, nella concreta e quotidiana realtà, non si limitino ad ascoltare i parroci o le persone “socialmente” più influenti o accreditate della loro diocesi ma tutti, proprio tutti senza alcuna discriminazione e senza pregiudizi di sorta; di vescovi e di parroci intellettualmente preparati e spiritualmente liberi ed integri che sappiano conferire, tra i religiosi e i laici, incarichi di natura catechetica non solo e non soprattutto per amicizia ma principalmente per l’effettiva competenza o capacità (intellettuale e spirituale) di coloro che vengono designati quali “educatori” comunitari.

C’è bisogno quindi di una nuova mentalità, di un nuovo spirito, di nuovi criteri di selezione dello stesso personale presbiterale, in modo che le gerarchie della Chiesa siano sempre meno gerarchie di parassitismo burocratico (che è altro dal sano impegno burocratico dell’ufficio ecclesiastico) e di carrierismo o opportunismo ecclesiastico e sempre più gerarchie di coraggioso e coerente impegno evangelico e di meriti spirituali indiscutibili e sganciati da logiche servili o di potere. Senza questa volontà di cambiamento, senza questa nuova tensione spirituale che, ben al di là dei documenti e delle direttive ufficiali, punti ad una trasformazione non superficiale o esteriore ma profonda e permanente delle coscienze dei fedeli e più in generale di ogni essere umano, sarà molto difficile che le nostre parrocchie, come pure auspicano i vescovi, servano «la fede delle persone in tutti i momenti e i luoghi in cui si esprime», giacché l’«adulto oggi si lascia coinvolgere in un processo di formazione e in un cambiamento di vita soltanto dove si sente accolto e ascoltato negli interrogativi che toccano le strutture portanti della sua esistenza: gli affetti, il lavoro, il riposo» (Commissione Episcopale, Lettera ai cercatori di Dio, 12 aprile 2009).

Purtroppo, nella nostra Chiesa, dietro parole d’ordine quali servizio, umiltà, carità, si nascondono ancora troppi interessi a comandare e a celebrare se stessi, troppe inclinazioni ad andare a braccetto con le vanità ed i compromessi del mondo, e, nel clero e fuori del clero, rischiano di essere sempre troppo pochi quelli che onestamente fanno di tutto per corrispondere alle esigenze evangelizzatrici più radicali della Parola di Dio. Giacché probabilmente non si tratta solo di «leggere i “segni dei tempi”» e di «aiutare le persone a leggere la storia come storia di salvezza», o di «valorizzare il rapporto tra fede e ragione» o ancora di «educare i cristiani a dialogare con tutti gli uomini», ma è invece necessario farsi carico anche di quella severa intransigenza evangelica che prima o poi conduce inevitabilmente chi ne sia capace a creare o a provocare, suo malgrado e sia pure in un sincero desiderio di pace e di concordia con tutti, rapporti profondamente e dolorosamente conflittuali persino con le persone più amate. Il fatto è che in Occidente la fede in Cristo non è più scandalo per il mondo o, se lo è, lo è in misura cosí esigua ed insignificante da non suscitare alcuna attenzione o sorpresa e da essere scambiato anzi per qualcosa di anomalo o di bizzarro.

Si ricorda altresí che «la Chiesa, nell’esercizio della sua missione profetica, deve lasciarsi guidare dalla pedagogia di Dio». E’ giustissimo, ma chi si sente di affermare che la Chiesa, nella maggior parte delle sue componenti istituzionali e/o carismatiche, oggi si lascia guidare effettivamente o irreprensibilmente dalla pedagogia di Dio? Non c’è ancora molto da capire e da fare, molto da apprendere ed assimilare, molto da pazientare e da soffrire per poter essere degni di quella salvezza che ci ha messo e ci mette a disposizione Gesù con la sua stessa vita? Certo, «il cristiano è un testimone che, per rendere ragione della sua fede, non può limitarsi a compiere le opere dell’amore, ma deve anche narrare ciò che Dio ha fatto e sta facendo nella sua vita, e cosí suscitare negli altri la speranza e il desiderio di Gesù», ma, a scanso di equivoci o fraintendimenti, non è anche lecito e opportuno invertire i termini per dire che il cristiano, per rendere ragione della sua fede, non può limitarsi a narrare le “grandi cose” che l’Onnipotente ha fatto in lui e per lui ma deve anche impegnarsi concretamente in silenziose opere di onestà, di carità e di giustizia e cosí rendere davvero credibile negli altri, in quelli ovviamente che sono disposti a giudicarne gli atti in buona fede, la propria testimonianza di fede?