Quale Francesco d'Assisi?

Scritto da Martino Innocenti on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Si dice che Francesco non fosse né sacerdote né diacono ma un semplice chierico honoris causa semplicemente per la sua sconfinata umiltà personale, non ritenendosi degno di esercitare la funzione sacerdotale per la quale egli aveva una vera e propria venerazione. Formalmente può darsi che ciò sia vero ma in realtà, e senza minimamente dubitare della sincerità delle sue parole, poiché per volere di Cristo stesso il suo compito era quello di risollevare le sorti di una Chiesa caduta in miseria e spiritualmente diroccata, è molto più logico pensare che il vero e più profondo motivo della sua scelta fosse quello di non rendersi istituzionalmente funzionale ad un ordine sacerdotale largamente corrotto e inaffidabile ma di riservarsi un qualche margine di autonomia rispetto ad esso al fine di poterlo meglio spronare criticamente con la vita più che con le parole e riportarlo su posizioni spirituali più confacenti a quella dignità evangelica di cui era stato chiamato ad essere portatore e fondamentale vettore storico e sacramentale. In ciò fu a ben vedere abbastanza coerente con il suo proposito e con la sua missione di rilanciare la fede salvifica in Cristo non immediatamente attraverso la Chiesa ovvero “il sistema ecclesiastico” che andava profondamente riformato ma proprio attraverso un diretto richiamo a colui che quella fede salvifica aveva originariamente introdotto nel mondo e nella Chiesa da lui fondata.

Senza commettere l’errore ereticale di vagheggiare un Cristo senza Chiesa o al di fuori di essa, ma rivolgendosi sommessamente alla Chiesa per ottenere il permesso di praticare il vangelo di cui essa si riteneva a pieno titolo gelosa custode e inappellabile interprete, Francesco riuscí ad operare nella Chiesa e a trasformarla dall’interno, pur in mezzo a tante contraddizioni e a tanti limiti, senza mai farne parte organicamente sotto il profilo storico-politico ma condividendone pienamente solo le enormi potenzialità evangeliche e spirituali. Egli cosí non sarebbe mai stato “Vicario di Cristo”, a differenza di Innocenzo III che tale si era autoproclamato e di tutti gli altri pontefici che ne avrebbero in buona fede ereditato il titolo, ma curiosamente sarebbe stato chiamato addirittura “Alter Christus” dal popolo cristiano che avrebbe compreso sempre meglio come per Francesco la storia fosse «il luogo della fratellanza da costruire col martirio, con la rinuncia, con la testimonianza e non con la crociata o con il rogo» (Padre Aldo Bergamaschi, francescano, Associazione culturale Aletheia).

Non è che Francesco non amasse la Chiesa: non l’amava però ciecamente, considerandola sia nella sua dimensione trascendente e quindi santa, in quanto voluta da Dio per la salvezza degli uomini, sia nella sua dimensione storico-fattuale, gerarchico-istituzionale, ecclesiastico-normativa, e quindi anche in tutti gli abusi e le degenerazioni che in questi ambiti o all’ombra di questi ambiti formalmente preposti all’esercizio del servizio pastorale erano venuti nei secoli determinandosi. Francesco amava la Chiesa pur conoscendo le sue malattie mondane e la sua propensione storica ad esercitare potere più per il potere stesso che non per servire la comunità religiosa e civile. Francesco aveva una percezione molto nitida delle tentazioni (il lusso, lo sfarzo, l’autoritarismo repressivo, la compromissione con i falsi valori del mondo) cui ancora nel suo tempo era soggetta la Chiesa, ma proprio quella Chiesa sofferente divenne, per comando di Cristo Gesù, oggetto del suo amore e della sua umile e silenziosa opera di risanamento spirituale. Fu cosí che egli contrappose anche alla mentalità imperialistica della Chiesa del tempo, che coltivava ideali guerreschi di tipo veterotestamentario contro i popoli infedeli non meno che propositi punitivi nei confronti di chiunque intendesse interloquire criticamente con le sue autorità gerarchiche, una mentalità di mitezza, di accoglienza, di dialogo con il “diverso”, di pacificazione con il nemico, pur nella ferma fedeltà ai princípi e agli insegnamenti originali di Cristo.

Nel suo scritto “Il sogno di Spoleto” del 1205 Francesco racconta di aver sentito una voce prima che ripartisse per la guerra, una voce celeste che gli chiede se voglia servire Dio o voglia continuare a servire gli uomini. Gli avvenne allora di capire che Cristo non poteva continuare ad essere considerato “capitano di eserciti” e ispiratore di violenze mai evangelicamente giustificabili ma doveva essere ripensato e rivissuto nel suo unico e vero ruolo di Dio misericordioso e compassionevole. Ma questo non fa di Francesco un “pacifista” ingenuo e velleitario, giacché egli, pur contestando gli eccessi e le violenze gratuite ed inutili, non contesta aprioristicamente l’uso della forza e la stessa crociata, in quanto per lui la difesa della fede poteva giustificare talvolta un intervento vigoroso e risoluto o, come nel caso delle minacce islamiche portate contro la civiltà cristiana, la stessa azione crociata. Gesù, per difendere la casa del Padre suo, aveva forse esitato ad usare lo scudiscio contro i profanatori del tempio?

Dunque bisogna capirsi: Francesco avrebbe fatto senz’altro a meno delle crociate e a Spoleto, come scrive bene ancora una volta padre Bergamaschi, «riemerge contestualmente alla caduta dell'etnocentrismo, l'universalismo cristiano che non prevede né patrie, né popoli, né nazioni; ma soltanto dei “fratelli”, annullando così le cause “teologiche” della guerra» (Ivi). Tuttavia, in Francesco non si trova una condanna in blocco della forza e della crociata, bensí la condanna di un uso indiscriminato o sproporzionato dell’una e dell’altra, di un uso gratuito e spregiudicato della violenza e quindi privo di misura e di regole. Il che, in ogni caso, nulla toglie al fatto che Francesco sia stato uno dei pochi uomini della sua epoca in grado di concepire vie nuove per il rapporto tra stati, popoli e individui, al di là di soluzioni puramente conflittuali e all’apparenza prive di alternativa. L’incontro con il lupo di Gubbio, che contiene la lettura cristiana del “conflitto sociale”, è molto significativo: con il lupo vorace si può parlare, si deve parlare prima di abbatterlo, per vedere se e in che modo, con l’aiuto di Dio, sia possibile istituire anche con lui un rapporto di convivenza pacifica o almeno accettabile. 

Ma «il vertice della filosofia sociale di Francesco è tutto nello sposalizio con Madonna povertà. E tuttavia la sua povertà non si identifica con la povertà dei “poveri storici”, né la sua mendicità è dovuta a emarginazione sociale. In altre parole: la povertà sanfrancescana è un volontario e gioioso limite al consumo dopo aver distribuito, secondo la legge dei vasi comunicanti, il prodotto del lavoro svolto in riga - non in piramide - e secondo i talenti ricevuti. Francesco è l'unico santo della Chiesa cattolica che rifiuta l'uso del danaro per assimilarsi totalmente ai discepoli mandati da Cristo in missione. Mammona resta il male supremo perché rappresenta la trasformazione di un mezzo - il danaro - in una divinità. E tuttavia Francesco non rifiuta né l'uso della Porziuncola né l'uso della Verna; a significare che l'uso della proprietà - e quindi la sua funzione sociale - è coessenziale allo sviluppo della persona e deve eo ipso essere estesa a tutti» (Ivi).

E’ stato sempre molto agevole proporre di un uomo come san Francesco delle interpretazioni di comodo o strumentali o comunque scorrette. Francesco in realtà, quando parla di Madonna povertà, non è un teorico del pauperismo e del rivoluzionarismo sociale allo stesso modo di come non è un padre dell’ecologismo, del pacifismo o del relativismo religioso inteso quest’ultimo come posizione che esprime un’equivalenza tra le varie fedi religiose.

Per ciò che concerne il pensiero francescano sulla povertà come scelta privilegiata di vita, si è già detto sopra. Quanto all’ecologismo, è evidente che Francesco non possa essere trasformato in un iscritto di Green Peace dal momento che per lui la lode al creato non è assolutamente separabile dalla lode al Creatore, e anzi il santo di Assisi ama la natura, gli uccelli e gli animali in genere solo in quanto essi sono una manifestazione visibile dell’invisibile e amorevole sapienza divina; non meno erronea è la tendenza a fare di Francesco un pacifista ante litteram, giacché la pace perseguita dal santo non è una pace gridata o reclamata polemicamente come qualcosa di cui sia possibile disporre a buon mercato ma è una pace nella giustizia e nella misericordia che richiede un enorme impegno quotidiano non solo collettivo ma anche personale, per cui Francesco è da collocare semmai nel ristretto novero di coloro che «coltivando la virtù della prudenza…si sforzano ogni volta di calare i propri princípi in una realtà complessa e mutevole», al fine di trasformare tali princípi in valori quanto più possibile condivisi; e infine, anche per quanto riguarda l’atteggiamento di Francesco di fronte alle diverse fedi religiose (si pensi al particolare ma spesso frainteso rapporto che egli ebbe con l’Islam), è totalmente sbagliato vedervi una sorta di indifferentismo religioso giacché il rispetto francescano per tutti gli uomini e tutte le fedi nulla ha a che fare con un preteso disconoscimento di Cristo come unica fonte di salvezza degli uomini e dei popoli: anche Francesco infatti ritiene che, in linea di principio, chiunque scientemente si rifiuti di convertirsi a Cristo unico Dio e Signore, pur nel quadro della sua misteriosa realtà trinitaria, sia destinato alla dannazione eterna.

D’altra parte, san francesco d’Assisi non ebbe la presunzione di essere depositario unico ed esclusivo dell’insegnamento di Cristo, benché in lui tale insegnamento trovi oggettivamente un vero campione della fede cristiana. Proprio in punto di morte, infatti, egli ebbe a dire: “Io ho fatto la mia parte, la vostra ve la insegni Cristo”. Dove Cristo qui «rappresenta ancora una volta il magistero vivo che trascende l’Istituzione stessa da lui fondata: la novità viene da Cristo, non dalla Chiesa» o da qualche ordine religioso «che lo porta» (ivi), per quanto preziosa e necessaria possa essere l’opera di testimonianza e di apostolato svolta dalla Chiesa o dagli ordini religiosi che in essa sono collocati.