Il papa e Nietzsche

Scritto da Ernesto Paci.

 

Papa Benedetto XVI prima di Pasqua ha detto: «Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero sta­ti repressi. Ha messo al loro posto la fierez­za e la libertà assoluta dell’uomo. Orbene, esistono caricature di un’umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata, che non vo­gliamo imitare. Ma esiste anche la superbia distruttiva e la presunzione, che disgrègano ogni comunità e finiscono nella violenza. Sappiamo noi imparare da Cristo la retta u­miltà, che corrisponde alla verità del nostro essere, e quell’obbedienza, che si sottomet­te alla verità, alla volontà di Dio?» (Santa Messa del Crisma, Omelia di Benedetto XVI, giovedì santo 9 aprile 2009). Queste parole hanno provocato reazioni molto polemiche tra gli estimatori di Nietzsche che anche in ambienti cattolici sono piuttosto numerosi. In realtà il papa, non nuovo ad incursioni di tipo filosofico, almeno in questo caso non può essere accusato di aver frainteso o deformato il pensiero di Nietzsche, perché anzi si è mostrato consapevole di quanto quest’ultimo abbia colto nel segno nell’indicare alcuni modi distorti, nel quadro della storia del cristianesimo, di intendere e attuare l’umiltà e l’obbedienza che pertanto non si sono potute affermare come nobili virtù capaci di elevare spiritualmente gli uomini ma appunto come “virtù servili” con cui essi sono stati spesso “repressi”.

Il papa non ha negato la legittimità della critica nietzscheana perché ha ammesso che «esistono caricature di un’umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata, che non vo­gliamo imitare», ma ha ritenuto giustamente e implicitamente di segnalarne la parzialità non solo perché quella critica non si preoccupa di rilevare che la contestazione dell’uso maldestro o puramente strumentale delle suddette virtù possa anche sfociare in un uso altrettanto mistificante della libertas philosophandi, e cioè in quella “superbia distruttiva” e in quella «presunzione, che disgregano ogni comunità e finiscono nella violenza», ma anche e soprattutto perché, proprio sulla scia della sollecitazione polemica di Nietzsche, egli si è chiesto limpidamente se i sacerdoti oggi siano capaci di interiorizzare correttamente i valori dell’umiltà e dell’ubbidienza: «Sappiamo noi imparare da Cristo la retta u­miltà, che corrisponde alla verità del nostro essere, e quell’obbedienza, che si sottomet­te alla verità, alla volontà di Dio?».

Dunque non mi pare che il papa abbia inteso “demonizzare” Nietzsche o ridimensionarne il valore filosofico. Ciò detto, resta indubbiamente il problema di rendersi conto che la critica demolitrice di Nietzsche, che non fu cristiano e non fu (tanto per chiarire) neppure un vero estimatore o simpatizzante di Gesù (di cui nega il dato centrale ovvero la sua divinità), può essere utile a capire meglio quali siano i difetti, le anomalie, le distorsioni, le malattie della fede cristiana, sia da un punto di vista storico che psicologico, all’interno della Chiesa e della stessa comunità cristiano-cattolica. E cosí la denuncia nietzscheana della “morte di Dio”, lungi dal dover essere ridotta ad una blasfema e sciocca provocazione anticristiana, potrà essere più saggiamente adoperata per capire le effettive ambiguità o la reale inconsistenza di certa moderna spiritualità cristiana, al cui centro è ormai un Dio puramente nominale, sempre più ipotetico o scaramantico, sempre più lontano dagli affetti concreti e dalla vita reale e sempre più ininfluente sul destino dell’umanità. Dio è morto, questo è il nocciolo della riflessione nietzscheana, perché è morto innanzitutto nella coscienza dei cristiani, nella quale conta come oggetto di un anelito vago e velleitario ed è vissuto ipocritamente. Che Dio è morto significa che sono morti tutti quei valori di sincera e schietta umanità, di libertà non conformista e massificata, di eroica ricerca individuale e comunitaria di finalità alte e non mediocri di vita. Che Dio è morto significa che il cristiano conserva al più una fede passiva nella redenzione ad opera di Cristo lasciandone cadere però il principale insegnamento: che bisogna imparare a vivere, non solo o non tanto a pensare, in un modo radicalmente diverso; che l’uomo diventa suo seguace non ancora per la sua fede o il suo “credere” ma per il suo “fare”, il suo “agire”, il suo “essere diverso”. 

Bisogna approfittare della diagnosi nietzscheana per comprendere che il cosiddetto nichilismo non è tanto un dato soggettivo di colui che interpreta la realtà ma l’elemento oggettivo di una realtà e di una civiltà che oltre le loro sfolgoranti apparenze sembrano essere avviate verso un irreversibile declino morale, culturale, spirituale, verso una frantumazione di valori e di ideali al di là della quale sembra scorgersi nient’altro che il nulla. I cattolici non possono essere indifferenti ad un’opera demistificante cosí lucida e tagliente. I cattolici possono e devono ammettere persino che, sia pure entro certi limiti, come ha scritto una volta Mario Perniola, «il cristianesimo è stato una gigantesca mistificazione per la quale i più nichilisti, i più impotenti, i meno capaci di creare, sono diventati i padroni del mondo in nome di entità metafisiche che essi stessi gestiscono e amministrano». Per quanto Perniola sia tra quegli incomprensibili e sconclusionati fautori di “un cattolicesimo senza Cristo”, e quindi molto più nietzscheano che cristiano, il suo commento deve essere tenuto presente da chi ama veramente la Chiesa di Cristo per verificare se e in che misura sia il caso di cambiare qualcosa nella mentalità cristiana e in quelle stesse pratiche di reclutamento del clero o del personale sacerdotale che hanno una ricaduta importantissima nei processi di formazione della coscienza cristiana e cattolica, specialmente per ciò che concerne la giusta focalizzazione di quei concetti, tanto dileggiati da Nietzsche, di umiltà e di obbedienza senza cui la Chiesa stessa non ha futuro se non nelle tenebre.   

Si deve fare in modo che la parola umiltà non suoni più come sinonimo di debolezza, di viltà, di resa, di rassegnazione, di servilismo, ma come sinonimo di forza spirituale, di coraggioso spirito di verità, di indomita resistenza al peccato e alle iniquità, di capacità di accettare le mortificazioni e le umiliazioni della vita senza rinunciare a lottare sommessamente contro storture e soprusi di varia natura, di servizio non pubblicizzato e non esibito ai semplici, ai deboli, agli oppressi e agli indifesi. Si deve fare in modo che, anche nell’ambito della vita sacerdotale o consacrata, l’umile non sia necessariamente solo chi sappia rendere omaggio al ceto sacerdotale e vescovile. E’ chiaro? L’umile è innanzitutto colui che, costi quel che costi, è capace di rendere sempre e comunque omaggio alla verità, a cominciare naturalmente da quella che prescrive l’obbligo di un sincero spirito caritatevole. E anche l’obbedienza deve cessare di risolversi in un semplice “signor sí”, in una ratifica acritica e passiva di decisioni prese dall’alto a meno che l’alto non coincida con le tradizioni più vive e vitali della storia della Chiesa e con una sapienza evangelica veramente puntuale e ispirata. Obbedire viene da ob-audio che significa ascoltare avendo di fronte qualcuno e operare di conseguenza, ma il presupposto è pur sempre che quel qualcuno sia una persona saggia e avveduta, autorevole ma non autoritaria e intollerante, capace di mantenere al di là dei possibili dissensi un rapporto affettivo con i suoi interlocutori senza privilegiare magari fra essi i più servili e impreparati o i più arroganti ed opportunisti.

Gesù non ha mai detto che occorra chinare il capo senza discutere al cospetto di un apostolo intrattabile o manifestamente stolto. D’altra parte egli, ponendosi al servizio di tutti e dei suoi stessi discepoli, benché sempre autorevolissimo non avrebbe mai allontanato nessuno da sé, non Giuda che lo avrebbe persino tradito, non Pietro che lo avrebbe rinnegato, non Tommaso che avrebbe dubitato della sua resurrezione, non la madre di Giovanni e Giacomo figli di Zebedeo che gli avrebbe rivolto richieste piuttosto inopportune e pretenziose, non la donna siro-fenicia che pur disturbandolo e addirittura intralciando la sua missione divina alla fine lo avrebbe commosso e conquistato. Tutti costoro, pur da lui rimproverati, sempre lo avrebbero ascoltato e sarebbero stati ben felici di obbedire alla sua parola esigente, tranne Giuda che però suicidandosi avrebbe manifestato tragicamente il suo rimpianto per non aver prestato ascolto al Maestro.         

Nietzsche ha dileggiato l’obbedienza? Diciamo pure, nonostante la sua generalizzazione prettamente provocatoria, un certo tipo di obbedienza  che il filosofo tedesco riteneva molto radicato nella mentalità cristiana. Ed è quel che papa Benedetto ha ben compreso, perché altrimenti non avrebbe parlato dell’esistenza di “caricature di un’umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata, che non vogliamo imitare”. E’ chiaro peraltro che tutto ciò che può stimolare la fede cristiana a risalire alle sue radici, a riacquistare il suo originario ed essenziale significato, a tornare ad essere genuino fermento di trasformazione in un mondo assai logoro e appesantito, non può che essere accolto e valorizzato, senza però dimenticare, come a volte capita persino a certi disinvolti teologi cattolici (o sedicenti tali), che Nietzsche non è solo il filosofo dell’oltreuomo, dell’uomo chiamato a superare continuamente e creativamente se stesso e i propri limiti esistenziali, a fondare una scala radicalmente nuova di valori e ad immettere fresche e vitali energie nei processi della vita, ma è anche, come ha sottolineato soprattutto Renè Girard, «un sostenitore dell'eugenetica e dell'uccisione dei deboli, dei malati, del ritardati, degli infermi, in favore di una “purificazione” della razza umana» (G. Samek Lodovici, Meglio Nietzsche o il cristianesimo?, in “Il Timone”). Che è una di quelle cose che anche nelle forme più malate di cristianesimo ha trovato e troverà sempre un baluardo provvidenziale ed invalicabile.