Il "caso" Israele

Scritto da Andrea Cafaro.

 

La guerra di Gaza sembrava aver acuito la tensione tra Israele e la Chiesa cattolica sebbene il successivo viaggio del papa Benedetto XVI in Terra Santa mitigasse in parte le divergenze tra i due stati. Ma, in realtà, tensione e divergenze erano e sono dovute a tutta una serie di fattori religiosi che non sono certo riducibili a particolari contingenze storico-politiche. Non c’è solo il pessimo rapporto di Israele con i palestinesi o quella sua intransigenza che ostacola i negoziati relativi all’attuazione degli accordi del 1993 fra la Chiesa e Israele oppure la sua proterva indisponibilità a rivedere il giudizio su Pio XII che nel museo della Shoah a Gerusalemme viene fatto passare come un complice dei criminali nazisti. Ci sono anche difficoltà di caratere specificamente religioso: la nuova preghiera per gli ebrei voluta dal papa e l’antichissima aspettativa cattolica di un ritorno del popolo di Israele nel popolo di Dio e quindi nella Chiesa di Cristo. L’ebreo Giorgio Israel ha detto che «la premessa per un dialogo senza diffidenza» tra cattolici ed ebrei di Israele «è dire alto e chiaro che la vita di Israele non è materia di trattative» (La Chiesa, Israele e gli ebrei, in  “Il Foglio” dell’11 gennaio 2009). Come dire: la Chiesa cattolica non deve pensare che Israele abbia bisogno del suo aiuto per ciò che concerne il suo diritto all’esistenza e di poter ottenere da Israele concessioni e vantaggi di carattere religioso e politico-economico che si inscrivano in questa ottica perché ogni trattativa, da questo punto di vista, è destinata a fallire.

Per dire la verità, la Chiesa è tenuta a dare evangelicamente il suo aiuto a tutti i popoli e a riconoscere il diritto di tutti i popoli all’esistenza: ma probabilmente è proprio questa posizione che viene mal digerita da Israele che si aspetterebbe un appoggio incondizionato della Chiesa a tutti quei suoi atti di guerra e di rappresaglia che venga ritenendo ogni volta necessari a garantire la sua stessa esistenza. D’altra parte, anche se domani mattina la Chiesa dicesse ad Israele che può fare tutto quello che vuole, sarebbe irrealistico pensare che esso possa minimamente pensare alla possibilità di una sua conversione al cattolicesimo. Ma probabilmente le due cose non sono staccate, nel senso che, nel caso al momento insperabile in cui il popolo israeliano ed ebraico decidesse di convertirsi alla Chiesa di Cristo (la quale ha peraltro non già il diritto ma il dovere di pregare per la conversione di questo popolo), anche il suo atteggiamento verso i popoli del medioriente e più specificamente verso quello palestinese sarebbe verosimilmente suscettibile di significativi cambiamenti.   

Quindi è inevitabile che la Chiesa debba sostenere e proteggere almeno moralmente i fratelli palestinesi che sono in evidente stato di inferiorità militare nei confronti del Golia israeliano. Come ha osservato giustamente Edward W. Said nel suo libro La questione palestinese. La tragedia di essere vittima delle vittime (Gamberetti, 2004), il “peccato originale” dello Stato israeliano è il suo carattere strutturalmente sionista che comporta il suo rifiuto di convivere pacificamente con il popolo palestinese  e persino di gestire la propria egemonia in modi non violenti, non coloniali e non razzisti. Ma il popolo palestinese esisteva in Palestina prima della nascita e della formazione dello Stato d’Israele ed esso continua ad esistere nonostante Israele e sarà sempre intenzionato a sopravvivere allo Stato israeliano nonostante stragi, sconfitte, persecuzioni, umiliazioni di ogni genere.

Però, quello che è successo a Gaza recentemente non solo non ha alcuna plausibile giustificazione ma non è più umanamente e civilmente sopportabile. Ormai persino quei paesi occidentali che in passato fingevano di non vedere e non capire i crimini compiuti da Israele sono stati costretti ad aprire gli occhi dinanzi alla ostentata spavalderia e all’innegabile barbarie israeliane, anche perché il disinvolto e incontrollato uso della forza fatto da Israele non può non essere interpretato anche come un segno della crescente potenza distruttiva che gli israeliani giorno per giorno accrescono nei loro arsenali militari. Persino l’Onu non può fare a meno di stigmatizzare fermamente il comportamento israeliano mentre l’Agenzia internazionale per l’energia atomica  è stata costretta a chiedere ad Israele di aderire al trattato di non proliferazione nucleare e di aprire tutti i suoi siti nucleari alle ispezioni (18 settembre 2009): lo stesso capo della delegazione della Santa Sede, arcivescovo Marcelo Sanchez Sorondo, intervenendo appunto alla 53ª conferenza generale dell’Aiea, ha invitato gli Stati ad utilizzare conoscenze e progressi nucleari per «perseguire come scopo ultimo il bene comune dei popoli e non il potere nazionale, sia esso economico o militare» (La Santa Sede chiede passi concreti verso il disarmo nucleare, in “Zenit” del 20 settembre 2009).

Tutto ciò mentre gli Stati Uniti del presidente Obama, la cui apparente determinazione iniziale sembra convertirsi gradualmente in un sostanziale  velleitarismo politico che è tipico della politica USA su tutto ciò che riguarda i concreti interessi di Israele, non riescono a convincere i dirigenti politici israeliani a rivedere le proprie posizioni oltranzistiche nei confronti dei palestinesi rispettando gli accordi internazionali precedentemente assunti e rilanciando cosí concretamente e risolutivamente i negoziati al fine di pervenire ad una stabile pace in Medio Oriente.

Cosa ha risposto Israele? Che si ritiene offeso da queste condanne e da queste richieste, che non collaborerà assolutamente, che anche gli amici americani devono comprendere maggiormente le sue esigenze difensive, che l’Occidente in questo modo incoraggia il vero terrorismo che è quello islamico di Hamas e soci. In realtà, che Israele sia da sempre impegnata a realizzare un suo pericolosissimo programma nucleare è noto almeno dal 1986 quando un tecnico nucleare israeliano, il cui vero nome è John Crossman e che è noto come Mordechai Vanunu, rivelò al Sunday Times che già allora gli israeliani «avevano ben 200 bombe atomiche. Avevano cominciato a produrre bombe all’idrogeno molto potenti. Per questo decisi di far sapere al mondo intero ciò che tramavano nel più grande segreto. E inoltre volevo anche impedire che gli israeliani utilizzassero le bombe atomiche, al fine di evitare una guerra nucleare in Medioriente. Volevo dare un contributo per portare la pace in questa regione. Dal momento che Israele deteneva già armi superpotenti, esso poteva fare la pace: non doveva più temere una qualche minaccia palestinese, né araba, perché possedeva tutto l’armamento necessario alla propria sopravvivenza» (intervista di Silvia Cattori a Mordechai Vanunu in www.voltairenet.org, 13 gennaio 2006). Per aver rivelato il “segreto” di Israele, questo onesto e coraggioso scienziato israeliano fu processato a porte chiuse e condannato da un tribunale israeliano a 18 anni di carcere per “alto tradimento”.

Ecco perché l’atteggiamento degli ebrei, dentro e fuori Israele, tranne ovviamente i casi personali di molti ebrei onesti che non possono essere confusi col grosso del popolo ebraico, non può non apparire manifestamente menzognero e arrogante a tutto quel mondo “libero” che non può essere comprato e asservito dal denaro delle potenti lobbies israelo-americane. Ed ecco perché è giunto il tempo che si cominci a dire a quel paese che non può più fare quel che vuole e che, anche al fine di evitare nuovi e immani olocausti, è tenuto a render conto in modo preciso e dettagliato, al cospetto dell’opinione pubblica mondiale e di tutti gli altri Stati, del proprio operato. Ma, nonostante i dati depongano oggettivamente a netto sfavore del popolo israeliano (non si tratta infatti solo dello Stato ma della grandissima parte del popolo israeliano), c’è ancora chi, in Europa e in Italia, si ostina a difendere da perfetto fanatico non solo l’antica causa di Israele che è giustamente quella di avere una terra e una patria ma l’attuale aggressiva politica israeliana che non può che preludere a sviluppi politici internazionali sempre più preoccupanti e ingarbugliati. E’ il caso di una giornalista ebrea italiana che, reagendo alle prese di posizione internazionali e a quella dell’ONU in particolare, liquida sprezzantemente la questione affermando che l’ONU sarebbe malato di “palestinismo” (Fiamma Nirestein, E’ il “palestinismo” la vera malattia dell’Onu, in “Il Giornale” del 17 settembre 2009).

Ma la politica israeliana si porta dietro naturalmente tutta la storia, la cultura, la mentalità di un popolo che, sebbene non sia più religioso come un tempo, continua a sentirsi come un “popolo eletto”, orgogliosissimo della propria identità, sempre odiato da altri popoli e sempre pronto a confliggere con altri popoli. Israele, nonostante i rapporti internazionali di pace che può vantare con molti Stati del mondo, ivi compreso il Vaticano, si sente ancora virtualmente accerchiato da tutti, da tutti coloro che non potranno mai ammettere naturalmente, con evidenti ragioni di principio e di fatto, che la sua diversità sia anche un elemento certo di una sua qualche pur asserita “superiorità”.

Gli ebrei continuano ad avere un loro Dio, una loro fede, una loro spiritualità, un loro modo, piuttosto formale e non di rado ipocrita, di concepire i rapporti umani. Sono tutte cose rimaste esterne ed estranee, completamente  impermeabili alle vicende di tutti gli altri popoli, alle altre storie o culture, alle altre fedi o religioni. La stessa democrazia israeliana, peraltro fortemente autoritaria e condizionata dal potere delle alte gerarchie militari, è, se si considerano certe pratiche di governo arbitrarie e certe leggi manifestamente razziste dello Stato d’Israele, qualcosa di molto diverso dai pur imperfetti sistemi democratici occidentali: com’è stato ben detto da qualcuno (di cui ora non ricordo il nome) la democrazia israeliana è «una democrazia fraudolenta» in quanto «il concetto dell'identita' ebraica di Israele scardina del tutto la retorica di democrazia ed uguaglianza, dal momento che democrazia e razzismo non vanno d'accordo».

Gli ebrei non amano il vero Dio perché non vogliono ancora rinunciare ad averne uno tutto per loro e, benché la loro fede sia oggi molto meno sentita rispetto a quella dei loro lontani antenati, essi non sono disposti a cambiarla con quella cristiana perché questo significherebbe riconoscere che anche loro, come tutti, hanno sbagliato e anche loro, come tutti, devono chiedere perdono a Cristo. Se di conseguenza essi ancora una volta siano o non siano “perfidi”, solo il Dio di nostro Signore Gesù Cristo lo sa, ma la Chiesa, nel continuare ad avere rapporti con Israele, deve essere consapevole del loro complicato complesso di superiorità senza troppo preoccuparsi degli umori spesso variabili di questi fratelli e delle loro irragionevoli impennate polemiche e cercando unicamente di lavorare affinché anche gli ebrei un giorno possano riconoscere l’assoluta sovranità di Cristo e possano lasciarsi finalmente salvare da Lui. 

Intanto però gli ebrei che, sotto la Germania nazista, furono ingiustamente e malvagiamente considerati “un caso” da risolvere con l’annientamento di massa, oggi vengono di nuovo percepiti da un’opinione pubblica mondiale attenta e sensibile come “un caso” di insubordinazione politica e umana da non perdere di vista e da trattare non solo con le preghiere e la diplomazia ma anche con responsabili ed energiche misure coattive volte a segnalare oggettivamente che essi cominciano a costituire un problema per una civile ed ordinata convivenza internazionale.