Ancora sul rapporto ebraico-cattolico

Scritto da Antonello Severini.

 

Si può sempre sperare che il rapporto con gli ebrei, di cui questo sito si è già occupato e continuerà ad occuparsi, progredisca sulla via della pacificazione e dell’amicizia, ma per il momento esso sembra oltremodo sgangherato e improduttivo: sia dal punto di vista teologico, perché gli ebrei ostentano una certezza sempre più sfrontata sulla non divinità di Cristo, sia dal punto di vista politico perché il rapporto bilaterale tra Vaticano e Stato d’Israele langue su questioni di vitale importanza per la fede cattolica e la pace nel mondo. Resta in piedi solo l’aspetto diplomatico di questo rapporto, aspetto di cui soprattutto la Chiesa cattolica sembra a ragione o a torto volersi fare carico, anche se molti cattolici si mostrano fortemente perplessi e non meno perplessi dei fratelli ebrei, i quali non perdono occasione per pretendere che la Chiesa chiarisca, precisi, rettifichi, puntualizzi, dimostri buona fede e onestà e via dicendo. Beninteso, gli stessi cattolici, in quanto non solo parte della Chiesa ma Chiesa essi stessi, hanno l’esigenza che la loro Chiesa sia sempre avveduta, obiettiva e chiara nelle sue posizioni, coraggiosa nelle sue iniziative. La differenza è però, volendo usare termini poco diplomatici, che la loro esigenza è mossa dall’amore verso Cristo mentre le pretese ebraiche sono mosse dall’amore per se stessi nel nome di un Dio ancora lontano dal messaggio universalistico e integralmente umano di Gesù.      

Accade cosí che ci tocchi assistere ancora una volta a qualcosa di sconveniente e di sconcio alla vigilia della visita di Benedetto XVI alla Sinagoga Maggiore di Roma, essendo noto come il mondo ebraico italiano, e probabilmente non solo italiano, si sia diviso proprio nell’imminenza di questa visita non ritenendo esso unanimemente che, anche a causa della recente decisione del papa di beatificare Pio XII per le sue “virtù eroiche”, vi fossero le condizioni perché la visita avesse luogo. Si pensi per esempio al rabbino Laras, presidente dell’Assemblea dei rabbini italiani, che ha fatto sapere con toni accesamente polemici che egli non avrebbe partecipato all’incontro reso peraltro possibile unilateralmente dalla comunità ebraica romana e dal suo capo il rabbino Riccardo Di Segni, dichiarando che da questo incontro non potrà derivare niente di buono «né per il dialogo ebraico-cattolico, né per il mondo ebraico in genere. L'unica che potrà trarne vantaggio sarà la Chiesa, in particolare nelle sue correnti più retrive. Qualora si verificasse un nuovo motivo di attrito con il mondo ebraico, potrà servirsi di questo evento per ribadire ed esibire la sua sincera amicizia nei nostri confronti» (Ancora polemiche su Pio XII: «avrei preteso un chiarimento sui suoi presunti eroismi», in “Il Corriere della Sera” del 14 gennaio 2010).

Di Segni ha risposto dicendo di essere convinto, pur nel rispetto delle posizioni espresse da Laras, che il tempo darà ragione alla sua scelta e alla sua decisione di incontrare il papa nella Sinagoga, ma, date le osservazioni critiche precedentemente e in più occasioni da lui mosse su talune posizioni della Chiesa, non è affatto azzardato ritenere che Di Segni, Pacifici e altri vogliano  l’incontro solo perché, al contrario di Laras e altri esponenti del mondo ebraico, giudicano vantaggioso per una maggiore visibilità internazionale di se stessi e della causa ebraica e israeliana l’avvenimento in parola.

Infatti, basta vedere quello che ha scritto Giacomo Kahn, in linea con Di Segni e direttore della rivista ebraica “Shalom”, nel numero speciale di questa (gennaio 2010). Egli precisa che l’incontro è in ogni caso importante perché, «proprio alla luce del precedente del 13 aprile 1986 (con Giovanni Paolo II), l’incontro del 2010 ha la forza di trasformare l’evento da ‘unico’ in una consuetudine, in un gesto di rispettoso vicinato che nessun successore da ambo le rive del Tevere potrà in futuro ignorare e dal quale non potrà esimersi» (Giorno storico ma non unico, straordinario ma ripetibile, p. 3). Qui l’interesse che emerge è che si possa perpetuare nel tempo il “gesto di rispettoso vicinato” che formalmente viene riferito ad ambo le parti in causa ma che evidentemente, sotto il profilo dell’immagine e della notorietà e anche della maggior sicurezza per ciò che concerne gli ebrei residenti in Italia, non può e non potrebbe anche in futuro che tornare di maggiore utilità pratica alla comunità ebraica e più segnatamente alla sua parte più esposta dal punto di vista “politico”.

Il problema è essenzialmente questo: che la Chiesa persegue obiettivi di natura pratica ma subordinatamente ad obiettivi di natura religiosa e spirituale, mentre gli ebrei perseguono obiettivi religiosi e spirituali ma subordinatamente al loro obiettivo primario che è quello di poter contare sempre di più nella pubblica opinione internazionale pur senza cedere di un millimetro sul piano biblico-teologico ovvero sul piano della loro antica identità religiosa. E, siccome alla Chiesa potrebbe essere rinfacciata la stessa cosa che qui si sta contestando agli ebrei, sarà bene che la Chiesa rifletta sempre meglio sul da farsi e sui modi più opportuni di rapportarsi con il mondo ebraico.  

Kahn significativamente non si preoccupa di scrivere che la visita del papa debba rinsaldare un rapporto ormai sicuro di amicizia tra ebrei e cattolici ma che essa «deve essere in grado…di non allargare ulteriormente la distanza che esiste tra il mondo ebraico e quello cattolico» (Ivi). E’ chiaro? Perché purtroppo di cose che dividono cattolici ed ebrei ce ne sono già parecchie come per esempio quella definizione degli ebrei di “fratelli maggiori” data nell’86 da Giovanni Paolo II, che non fu molto gradita dal mondo ebraico in quanto nel vecchio testamento ricorrono figure sanguinarie, per cui dare del ‘fratello maggiore’ ad un ebreo potrebbe significare anche considerarlo come persona immorale (!), oppure «la santificazione della convertita e suora Edith Stein; il tentativo di attribuire al nazismo un carattere di ideologia pagana e anticattolica, con la conseguenza di stemperare la finalità totalmente ebraica che ha avuto la Scioà; la reintroduzione dell’antico messale latino “pro judaeis” del Venerdí Santo; il caso del vescovo negazionista lefevriano Williamson; ed in ultimo l’annuncio della beatificazione di Pio XII» (Ivi).

Peraltro, proprio nell’imminenza dell’incontro, il presidente del Congresso ebraico mondiale Ronald Lauer ha ritenuto di dover precisare esplicitamente che, «quando il Papa consente di ripristinare la preghiera del Venerdí Santo della vecchia liturgia tridentina, che invita gli ebrei a riconoscere in Gesù Cristo il redentore di tutta l’umanità, alcuni di noi si sentono profondamente offesi» (Benedetto XVI in Sinagoga tra memorie e polemiche, in “Corriere della Sera” del 16 gennaio 2010).

Capite? Gli ebrei si sentono “offesi” dal fatto che i cattolici li esortino fraternamente a riconsiderare il loro atteggiamento e il loro giudizio negativo e sprezzante su nostro Signore Gesù Cristo che i loro antenati, per riprendere le parole di san Pietro, appesero su una croce trattandolo come un criminale. Non si rendono minimamente conto che, forse ancora oggi accecati dall’odio verso “il re dei re” e verso colui che è e rimane principio di eterna salvezza, i cattolici non possono e non vogliono nascondere la loro fede in Cristo solo per quieto vivere ma devono e vogliono annunciare il Vangelo di Cristo a tutto il mondo affinché tutto il mondo, a cominciare dagli ebrei che lo respinsero e lo inchiodarono a morte per mezzo dei loro sacerdoti, si convertano all’unico e vero Dio. Essi sperano, e c’è da augurarsi con tutto il cuore che la loro speranza continui a rivelarsi assolutamente infondata e vana, che di visita in visita e tra un passo d’amicizia e l’altro sia possibile cancellare, come ha scritto sul numero speciale sopra citato di “Shalom” Arrigo Levi, il «millenario pregiudizio antigiudaico, presente perfino nei Vangeli» (p. 4), senza riflettere sul fatto che i Vangeli sono la fonte primaria della fede cattolica e che per i cattolici non contengono affatto pregiudizi ma solo giudizi basati su una diretta testimonianza di fatti realmente o oggettivamente accaduti. Peraltro, sono pregiudizialmente indisposti ad ammettere che i cattolici stessi non nutrono oggi pregiudizi di sorta né verso di loro né verso chiunque si sforzi di ascoltare la verità facendo cadere ogni pregiudizio sulla divinità quanto meno possibile di Cristo.

Noi cattolici in questo mondo non ci siamo per mercanteggiare e per barattare né con gli ebrei né con altri la nostra fede con la concessione di qualche vantaggio politico ed economico-finanziario. Se gli ebrei vogliono rimanere orgogliosamente attaccati alla loro tradizione religiosa, per quanto errata sui punti decisivi della fede in Dio, sono liberi di farlo, ma non saranno i cattolici a doversi un giorno rimproverare di aver vanificato ogni reale possibilità d’incontro e di comprensione. Se poi, a seguito di un eventuale e sostanziale fallimento dei rapporti ebraico-cattolici, intendessero persino irrigidirsi, in virtù della loro forza militare, su questioni essenziali che attendono da decenni di essere risolte per favorire la pace in Medio Oriente e nel mondo, essi e solo essi dovranno rispondere davanti a Dio non solo del loro reiterato rifiuto di riconoscere in Cristo il Dio dei loro stessi padri ma di tutte le iniquità che avranno commesso a motivo della loro superbia e della loro presunta invincibilità militare.

E’ bene tuttavia che i cattolici, pur non potendo e non dovendo proprio pensare con la testa degli ebrei, restino aperti con molta pazienza a questo difficile e anzi tormentato dialogo pregando il Signore di dare loro soprattutto quel di più di credibilità che possa renderli più miti, più sinceri e più affidabili, agli occhi dei fratelli ebrei.