Santificare l'eucaristia

Scritto da Francesco di Maria.

 

L’eucaristia, istituita da Cristo durante l’ultima cena, è un memoriale, quindi una ripresentazione o riattualizzazione della croce di Cristo, della sua morte sacrificale per la salvezza degli uomini. Essa, sacramento per eccellenza, fonte e culmine della vita spirituale e liturgica della Chiesa, ne è sempre stato anche un rito fondamentale e centrale sin dalle più antiche comunità cristiane. L’eucaristia nasce e si colloca all’interno di un originario contesto biblico, nel senso che in essa è ben presente l’antico significato ebraico di memoriale degli atti divini: i fedeli cioè, nell’invocare la presenza di Dio nelle specie del pane e del vino e nel ricordare che egli ci ha salvato dalla morte per sempre, rivivono tali atti come ancora presenti o come sempre attuali. Se Israele attraverso la celebrazione eucaristica ringraziava Dio per averlo liberato dalla schiavitù egiziana, per avergli consentito di giungere nella terra promessa e di coltivare «l’attesa escatologica della restaurazione di Gerusalemme», i cristiani ringraziano Dio per aver liberato tutti gli uomini dal peccato e dalla morte attraverso il sempre presente sacrificio salvifico di Cristo sulla croce. Che il sacrificio di Cristo sia perennemente presente significa che esso è stato fatto una volta per tutte, che vale per l’oggi non meno di come valeva duemila anni or sono, che è stato compiuto e continua a compiersi per l’umanità di tutte le epoche e di tutti i luoghi. Infatti, durante la Santa Messa, noi oggi “annunciamo la tua morte”, oggi “proclamiamo la tua resurrezione” e oggi siamo o restiamo “nell’attesa della tua venuta”.

 Non bisogna dimenticare, diversamente da come sembrerebbe evincersi dal comportamento troppo abitudinario o disinvolto di tanti di noi, che la prassi eucaristica non è solo prassi ecclesiale o comunitaria di condivisione della vita divina che ci viene offerta in e per mezzo di Cristo dal Padre per la nostra salvezza ma anche prassi di immolazione in e con Cristo per poterci porre nella condizione di condividere con lui la vita eterna. Per i credenti, quindi, il mistero eucaristico non è o non dovrebbe essere di poco conto e non dovrebbe mai rischiare di essere vissuto come una semplice pratica quotidiana o settimanale parzialmente o totalmente sganciata dal suo intrinseco e oggettivo significato religioso e sacramentale. Ed è un mistero che pertanto, come scriveva Giovanni Paolo II nella Mane nobiscum Domine, deve essere «ben celebrato», non tanto in senso esteriore o estetico (il mettere al proprio posto le rubriche e i libri liturgici, la cura della gestualità, la compostezza dei sacri paramenti e via dicendo) quanto soprattutto in termini di adeguata assimilazione interiore della Rivelazione di Cristo e del suo valore perenne. Ci si illude che tale mistero sia celebrato correttamente solo perché formalmente ogni cosa sia al suo posto e la funzione religiosa disponga magari di una qualche accattivante cornice musicale. Se non si vive il sacramento eucaristico con la coscienza sempre rinnovantesi del significato e del valore reali di esso, se non si è capaci di interiorizzare in modo rigoroso le vere radici storico-salvifiche da cui esso è venuto sviluppandosi e consolidandosi nella storia dell’umanità e della Chiesa, in realtà si finisce per accostarsi a quel mistero e a quel sacramento per un mero bisogno consolatorio, nel migliore dei casi, senza capire che santa comunione con Dio e con i fratelli si può ottenere solo a condizione di essere pronti ad attuare gli insegnamenti non edulcorati o travisati di Gesù e ad andare o a tornare nella ordinaria quotidianità per testimoniare il più fedelmente possibile la nostra fede in lui.

Bisogna capire che quello eucaristico non è un semplice banchetto di festa ma innanzitutto un banchetto di sacrificio perché la festa promessa da Cristo non esclude ma presuppone il suo e quindi il nostro sacrificio. Anzi, quando ci si avvicina a quel banchetto in realtà deve essere ricordato e riattualizzato nel nostro spirito il più tragico e prezioso olocausto della storia dell’umanità, perché nessun olocausto, nessuna shoah, fu e sarà mai più ingiusta e terribile, più catastrofica e disumana e al tempo stesso più gloriosa e salvifica di quella di nostro Signore Gesù Cristo. Cosí come quando ci si accosta all’altare per ricevere l’ostia consacrata, bisogna essere consapevoli del fatto che quella che riceviamo in quel momento non è una presenza “simbolica” ma una presenza “reale” di Cristo, resa tale dall’opera dello Spirito Santo invocata dal sacerdote, dove solo questa consapevolezza può evitare il rischio del ritualismo fine a se stesso e può garantire, quando si sia naturalmente nelle condizioni di comunicarsi, che il Cristo entri realmente, sacramentalmente e non fittiziamente in noi per operare in noi e stare con noi sino alla fine della nostra vita. Solo cosí si attua vera comunione con Dio e con i fratelli, con Dio perché sinceramente animati dal desiderio e dalla volontà di superare le nostre mancanze e i nostri persistenti limiti, con i fratelli perché cibandoci di lui con il giusto spirito ognuno di noi viene da lui fortificato e reso capace di unirsi agli altri fratelli aldilà di tutto ciò che divide o separa. Ed è in questo modo esattamente che nostro Signore Gesù si fa ogni volta «tutto in tutti».

Detto questo, l’eucaristia resta un mistero, un «mistero della fede», perché mentre gli occhi vedono il pane e il vino, la fede vede il corpo e il sangue di Cristo che vengono offerti per la redenzione di tutti gli esseri umani. Un mistero attraverso cui noi stessi, ognuno di noi esprime complementarmente il Cristo diventandone corpo e membra mistici, da portare, da immettere, da testimoniare personalmente e continuamente nel mondo e tra gli uomini. Ecco: la liturgia eucaristica, pure in sé dotata del più alto valore salvifico-sacramentale, è funzionale alla liturgia della vita, al servizio che, una volta finita la messa, dobbiamo rendere agli altri nelle circostanze più imprevedibili, all’opera di carità che ogni giorno dobbiamo assolvere in virtù della celebrazione eucaristica cui partecipiamo ma anche oltre la funzione religiosa in cui essa temporalmente si colloca. Ite missa est significa proprio questo: andate, il corpo e il sangue eucaristici di Cristo, nonché la sua parola e i suoi insegnamenti, vi sono stati dati, perché voi adesso, che già reciprocamente siete tenuti ad amarvi, li portiate agli altri che stanno fuori del tempio, che hanno bisogno della vostra testimonianza e del vostro amore. Se la liturgia eucaristica non si fa liturgia di vita, Dio non può continuare a farsi carne, sacrificio, donazione, amore, attraverso di noi. E, naturalmente, egli continuerà a salvare anche senza di noi o nostro malgrado, ma noi avremo mancato di collaborare fattivamente alla sua opera di salvezza e di questo forse non potremo non essere chiamati a rispondere al suo cospetto.  

Purtroppo, «troppo spesso si ha l’impressione che alla messa si assista soltanto. Il rito appare chiuso in se stesso. La comunità dei fedeli in quei tre quarti d’ora si raduna, si pente, ascolta la Parola, si converte, si dà la pace, si unisce a Dio, prega, è benedetta; quindi si scioglie per tornare alla vita di sempre, con gli stessi atteggiamenti di sempre, come se non fosse accaduto nulla. Eucaristie svuotate, messe senz’anima» (F. Nardi, Eucaristia mistero di amore, Associazione laicale eucaristica riparatrice, Loreto, 2004, p. 46). A ciò bisogna aggiungere che anche alcuni atteggiamenti dei ministri dell’altare concorrono non di rado a svilire e a mortificare la celebrazione eucaristica: il verbalismo saccente o la manifesta impreparazione, il moralismo, il protagonismo, persino talune incontrollate pulsioni istrioniche, sono tutti difetti reali ed evidenti che tendono a ridimensionare notevolmente la centralità di Cristo e ad attutirne la forza d’urto nella percezione dei fedeli. Non è per colpevolizzare i sacerdoti, perché fra essi non pochi sono certamente ben attrezzati teologicamente e spiritualmente e fanno del loro meglio per onorare la santa eucaristia, ma non c’è dubbio che i fedeli vorrebbero trovare e non sempre trovano tra essi «uomini di Dio che vedono con gli occhi di Gesù…., sacerdoti che in ogni loro parola e gesto mostrino la stessa passione di Cristo» (Ivi, p. 61).

Bisogna essere chiari e seri: la comunità cristiana non è autentica «se è fatta di gente che aiuta in chiesa» (ivi, p. 62) o in parrocchia (leggendo, suonando, apparecchiando l’altare o aiutando il ministro del culto durante la messa, bazzicando continuamente in sagrestia per passare un po’ di tempo o per fare compagnia al parroco o anche, orribile da dirsi, portando da semplici laici il Santissimo a malati o a semplici conoscenti apparentemente impossibilitati a recarsi in chiesa). Non è affatto cosí. Le esigenze di Cristo sono ben più impegnative e radicali. Un’eucaristia che non trasmetta ai fedeli il desiderio di lottare contro tutto ciò che è indegno di un uomo, la falsità o l’ipocrisia, l’egocentrismo o l’avidità, l’autosufficienza o la vanità, ma anche le iniquità del mondo, le prepotenze, lo sfruttamento, l’indigenza, la solitudine di diseredati, emarginati, malati, abbandonati in genere, «è un’eucaristia senz’anima, svuotata: non è l’Eucaristia istituita e voluta da Gesù di Nazareth» (Ivi, p. 82). Se nelle nostre chiese si continua a trattare Cristo «come uno di casa, uno di cui ormai sappiamo tutto», come uno che è «diventato nostro al punto da poterlo manipolare come vogliamo» (Ivi, p. 82), il futuro della Chiesa, almeno quello più prossimo, è destinato a farsi piuttosto cupo e preoccupante, anche se Dio non la abbandonerà.

Tuttavia, il credente serio e consapevole, che non può non notare certi difetti e certe anomalie della comunità ecclesiale, non dispera né recrimina, né tanto meno intende assumere il ruolo del satanico «accusatore», ma, pur senza rinunciare a quella parresia che rientra tra i suoi doveri religiosi, torna a pregare e ad adorare eucaristicamente Cristo, in modo da non sentirsi incompreso o trascurato, emarginato o sottostimato, o addirittura martire dell’altrui pochezza e insensibilità, ma capace di chiedere costantemente e fiduciosamente a lui la luce e la forza per sé e per gli altri, per la propria e l’altrui salvezza. Confidare sempre e comunque in Gesù significa anche chiedergli di poter continuare nel modo più degno possibile a mangiare il suo corpo, e quindi anche le sue idee, le sue scelte, la sua missione e insomma tutto ciò che ha forgiato la sua corporeità-psichicità, e a bere dal calice del suo sangue, che è la sua stessa vita e tutto ciò che egli stesso è stato e continua ad essere, ha fatto e continua a fare per tutte le creature. Preghiamo dunque il Signore che ci aiuti a fare tutto quello che ci chiede (“fate questo in memoria di me”) senza rimozioni o manipolazioni di sorta. Poiché l’eucaristia, che è uscita dal cuore e dalla volontà di Cristo, è in se stessa santa, preghiamolo di aiutarci a rendergli grazie rispettandola, onorandola, glorificandola e santificandola con la nostra vita.