L'inferno o della morte definitiva

Scritto da Francesco di Maria.

 

La fede cattolica sta evolvendosi verso forme molto diverse da quelle in cui generalmente si esprimeva sino alla metà del secolo scorso. Da una parte è un bene perché la fede è un lievito destinato a non lasciare imbalsamato il proprio rapporto con Dio ma a renderlo vivo e dinamico, secondo un processo non già di snaturamento ma di graduale e sempre più genuino inveramento della fede stessa; ma dall’altra, sotto il pesante influsso della cosiddetta “secolarizzazione”, è un rischio molto serio perché sussiste sempre la possibilità che la fede venga assumendo posizioni arbitrarie o difformi dai testi biblico-evangelici. Cosí se da un lato si assiste al delinearsi di un’esigenza legittima di personalizzazione o meglio di interiorizzazione sempre più marcata e profonda della fede che, senza scivolare verso esiti gratuitamente soggettivistici, comporti un nuovo rapporto con la Chiesa istituzionale e gerarchica e diverso da quello piuttosto passivo e remissivo del passato, dall’altro la fede contemporanea viene articolandosi talvolta, anche all’interno della comunità ecclesiale, in aspettative psicologiche puramente illusorie e teologicamente discutibili o palesemente sbagliate, come nel caso dei tradizionali concetti teologici di inferno e paradiso che sono nella sostanza immodificabili perché saldamente radicati nei vangeli e nella parola di Cristo.

Infatti, sia in taluni ambienti teologici, sia tra le masse cattoliche serpeggia ormai non infrequentemente il convincimento che solo il paradiso esista (se esiste!) e che l’inferno sia al più una punizione provvisoria, magari più dura di quelle che bisogna scontare nel purgatorio, inflitta da Dio ai malvagi prima di consentire loro di ascendere comunque in cielo. Quindi, in un certo senso si tende a ritenere che l’inferno come condizione di pena eterna sia sostanzialmente non già quella verità di fede insegnata da Gesù, dal Nuovo Testamento, dalla Sacra Tradizione e da un certo numero di Concili, ma, chissà per quale recondito motivo, una semplice invenzione clericale finalizzata a terrorizzare i fedeli e ad indurli quindi a più facilmente sottoporsi alla disciplina della Chiesa. Ma non è affatto cosí, perché come è stato ben sottolineato, l’inferno è «un dato della divina rivelazione, che la Chiesa ha il compito di custodire e di insegnare» (Esistono davvero inferno e paradiso? Intervista di Antonio Gaspari a padre Giovanni Cavalcoli, docente di metafisica e teologia sistematica, in “Zenit” del 29 marzo 2010), per cui tale nozione ha un valore dogmatico che non è suscettibile di essere alterato o “aggiornato” in alcun modo quanto alla sostanza della verità teologica che essa esprime. Evangelicamente parlando, non siamo in grado di raffigurarci esattamente lo stato e il luogo che vengono designati dalla parola “inferno”, ma siamo certamente tenuti a credere che l’inferno sia una condizione e un luogo di inestinguibile sofferenza.  

Personalmente, dal momento che sono peccatore tra peccatori e probabilmente peccatore più di tanti altri peccatori, sarei tentato di non insistere su questo punto e di rimuovere anch’io questo terribile articolo di fede dalla mia mente. Ma si tratta per l’appunto di un articolo non secondario della nostra fede in Cristo e non riconoscerlo o svuotarlo di significato equivarrebbe a porsi al di fuori della comunione con Cristo medesimo, il quale «non si limita ad annunciare la semplice possibilità della dannazione, ma semplicemente prevede il fatto dell’esistenza dei dannati» (Ivi): i malvagi o i peccatori sino alla fine impenitenti «se ne andranno…al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna» (Mt 25, 46). Persino tra i cattolici spesso non si capisce che, se esistesse solo il paradiso, la vita dell’uomo non avrebbe molto senso perché ciò vorrebbe dire che nella mente di Dio non si fa alcuna differenza tra una vita spesa in una continua ricerca di cose belle e giuste, sia pure tra molteplici contraddizioni e cadute spirituali, ed una vita di sostanziale e ininterrotto torpore morale e spirituale. E invece questa differenza non solo è ben presente al Signore ma è anche il principale criterio della sua infinita misericordia che viene sempre esercitata nei confronti di tutte le creature nel pieno rispetto della loro libertà, e specialmente nei confronti delle creature più lontane, ma che al tempo stesso si arresta dinanzi a coloro che liberamente e sino alla fine della loro esistenza terrena non intendano confidare in nessun modo e con nessun atto concreto nel perdono, nel soccorso e nell’amore di Dio né per questa vita né per la vita ultraterrena.

La misericordia di Dio è certo sorprendente, nel senso che spesso si discosta da certi correnti criteri morali degli uomini, ma è pur sempre tutt’uno con la giustizia di Dio e la giustizia di Dio prevede biblicamente ed evangelicamente che l’uomo avverta almeno il bisogno di Dio, del suo perdono e del suo amore. In tal senso, l’inferno è ciò cui va inevitabilmente incontro chi non ha mai realmente coltivato il desiderio di Dio, della sua giustizia, della sua misericordia, della sua pace. Chi non ha mai desiderato sinceramente una felicità che vada oltre le effimere o transitorie forme terrene di soddisfazione e di felicità, perché mai un giorno dovrebbe abitare e vivere nella casa celeste di Dio? Gli angeli ribelli, in origine splendenti della stessa luce di Dio, furono precipitati nell’inferno, ovvero in una condizione e in un luogo non di luce ma di tenebra, non di gioia ma di amara solitudine. E anche gli uomini che deliberatamente e sfrontatamente rifiutino di lasciarsi salvare da Cristo e in Cristo non potranno che condividere lo stesso destino. E i cristiani che non credono nell’inferno? E’ inspiegabile che un cristiano non creda in tutto ciò che è stato detto in modo inequivoco da Cristo ma se ciò accade non accade per un qualche motivo innocente; perciò anche questo tipo di cristiano, quale che sia il suo ruolo nella comunità ecclesiale, si espone a seri rischi di dannazione. 

La misericordia di Dio è misteriosa ma non irrazionale, è gratuita ma non indiscriminata e certi nostri giudizi che danno per scontato che alla fine tutti saranno perdonati, con o senza sincero pentimento, con o senza reale conversione, e che escludono conseguentemente che qualcuno possa andare a finire all’inferno, sono risibili oltre che presuntuosi perché esprimono la nostra forse inconscia pretesa di essere più misericordiosi di Dio stesso. Peraltro bisogna ben intendersi su un punto: non è che chi accede in paradiso sia molto più meritevole di chi ne resta escluso, ma è comunque una persona che non ha respinto la grazia di Dio e si è sforzato di utilizzarla al meglio delle sue possibilità umane e spirituali. Al cospetto di Dio, nessun essere umano può vantare meriti, e tuttavia è Dio che dall’alto della sua misericordia concede ai suoi figli più volenterosi, più onesti e più obbedienti, indipendentemente dalla qualità delle loro capacità naturali e dalla loro specifica condizione umana e sociale, di poter acquisire in Cristo e per mezzo di Cristo dei meriti in grado di assicurare loro la vita eterna.

D’altra parte, l’inferno come il demonio, è stato ben rilevato, «si collocano nel disegno divino in quanto costituiscono un deterrente che ci aiuta ad evitare il peccato…Per quanto riguarda il demonio, anch’egli va visto come uno strumento della divina Provvidenza per due finalità: per rafforzarci nella virtù e per richiamarci paternamente quando commettiamo il male. Il diavolo di per sé vorrebbe solo il nostro male, solo che la Provvidenza divina lo utilizza secondo i suoi sapientissimi disegni per il nostro bene» (Ivi).

Tuttavia, l’essere consapevoli di tutto ciò non garantisce a nessuno il paradiso, anche se chi cerca di attenersi concretamente alla parola e agli insegnamenti di Gesù può ben sperare di potervi ascendere. Nessun essere umano e nessuna istituzione, ivi compresa la Chiesa, può stabilire esattamente chi si salva e chi si danna, e questo perché né noi né la Chiesa conosciamo al pari del Signore il più recondito sentire dei nostri fratelli. Come facciamo a sapere che un terrorista irriducibile nel momento estremo della sua vita si rivolga al Signore senza parole per chiedergli solo con lo sguardo di ricordarsi di lui in paradiso? E’ possibile stabilire solo la direzione della salvezza e del paradiso e quella dell’inferno e della morte eterna. Ma, in ultima analisi, chi poi vada realmente da una parte o dall’altra, potremo saperlo solo dopo.

L’inferno è la seconda morte, è la vera morte, la morte definitiva, quella in cui, a differenza della prima morte, non può più giungere l’amore salvifico di Dio perché l’uomo che vi si trova confinato ha scelto in modo definitivo di separarsi da Dio. E, pertanto, esso giustamente non può non essere temuto, temuto, non già rimosso e negato. Anche se la speranza di ottenere il premio dell’immortalità nel regno di Dio resta molto grande, a ragion veduta, per tutti coloro che senza fariseismi di sorta si sforzano «di mettere in opera tutti i precetti della vita cristiana, a cominciare dall’odio per il peccato, dalla consapevolezza delle sue conseguenze, per passare al dovere di obbedire con tutte le nostre forze ai comandi del Signore, di vivere in grazia, nella pratica continua della conversione e della vita cristiana, in una illimitata fiducia nella misericordia divina, frequentando i sacramenti nella comunione con la Chiesa, nella devozione ai Santi e soprattutto alla Santa Vergine Maria, coltivando un forte desiderio del Paradiso e della santità e combattendo coraggiosamente giorno per giorno contro le insidie del tentatore» (Ivi).