L'antica preghiera degli ebrei

Scritto da Francesco di Maria.

 

Gli ebrei, prima del grande esodo dall’Egitto, non avevano preghiere particolari da rivolgere a Dio, anche perché per troppo tempo avevano vissuto in quella nazione egiziana segnata da credenze politeistiche di ogni genere, per cui essi erano come disorientati e non sapevano più a quale dio rivolgersi, quale fosse il nome di Dio. Abramo, certo, aveva parlato con l’unico Dio ma dopo di lui quell’esperienza del divino era stata variamente interpretata e accolta dai suoi discendenti e alla fine dimenticata. In effetti, è Mosé che nel roveto ardente chiede a Dio il suo nome proprio per comunicarlo al suo popolo. In un certo senso, dunque, sino a quel momento essi non pregavano. Ma, in una sua interessante recensione del 13 dicembre 2004, Paolo De Benedetti, noto studioso e docente universitario di giudaismo, ha ben spiegato che gli ebrei non pregavano secondo gli schemi o i modelli di preghiera da noi oggi conosciuti e tuttavia la loro preghiera era probabilmente una forma ancor più genuina ed universale di preghiera. La loro preghiera era infatti la sofferenza stessa della loro esistenza, ovvero il grido della creatura, come si può leggere all’inizio dell’Esodo, il grido che sale a Dio anche se la creatura non sappia bene chi sia e dove sia Dio: «nellaTradizione rabbinica, infatti, una delle definizioni di Dio è Colui che ascolta il grido» (La preghiera nelle Scritture ebraiche in www.diaconia.it/assoc/Debenedetti_01_05.rtf).

La preghiera ebraica dunque in origine era un parlare non concettuale ma affettivo a Dio (non di Dio) e nell’ascoltare Dio che parla e quindi un attendere o un ricevere la parola di Dio ovvero la sua risposta. Ed è una preghiera non formalizzata, non destinata a questo o a quel momento della giornata, non recitata in un luogo piuttosto che in un altro, perché essa è un libero e continuo rivolgersi a Dio per ascoltare le sue risposte nei momenti più diversi ed imprevedibili della giornata. Interessante è qui quel che scrive De Benedetti: «Bisogna dire che nella liturgia ebraica c’è una cosa abbastanza importante: non esiste, come invece accade nel cristianesimo, una differenza sostanziale tra gli atti liturgici formali – diremmo la liturgia nella chiesa, nella sinagoga – e la devozione individuale. Ogni ebreo pio – mattino, pomeriggio e sera o almeno mattina e sera – dice per conto suo le cose che si dicono nella sinagoga. Non ci sono le preghiere dell’officiante e le preghiere di casa: è la stessa comunità di preghiera che si manifesta sia dove c’è una comunità concreta sia dove c’è invece il singolo. Questa identità fa sì che, in fondo, non ci sia un'enorme differenza tra la sinagoga e la casa, tra la comunità orante e la famiglia».

A dire il vero, anche se la celebrazione eucaristica che generalmente si svolge in chiesa, è per i cristiani la preghiera per eccellenza, in realtà questa differenza sostanziale che nella prassi liturgica cristiana e cattolica può manifestarsi in via di fatto non sussiste in linea di principio, come non sussisteva anche in via di fatto nella Chiesa nascente le cui celebrazioni si tenevano in abitazioni private (chiese domestiche) e in cui confluivano naturalmente seppur non esplicitati tutti i vissuti e tutte le necessità sia di coloro che vi partecipavano sia anche degli assenti. Per cui nessuna vera separazione, indipendentemente da quel che si è venuto determinando dal punto di vista fattuale, tra cosiddetti atti liturgici formali e preghiera personale e/o familiare. L’assemblea eucaristica dovrebbe mantenere gli stessi tratti del raccoglimento personale e della stessa attività di preghiera che si svolge in casa: la serietà nel concentrarsi spiritualmente, la semplicità e una educata familiarità nei rapporti umani e con il Signore, una naturale disponibilità ad ascoltare e ad aiutare come anche a correggersi reciprocamente, una sincera e incondizionata volontà di servire Dio unitamente ad una spontanea lode di ringraziamento per la sua presenza tra noi. Sta ai fedeli riempire della loro sincerità e della loro gioia, del loro pentimento e del loro spirito di servizio quegli atti liturgici che vengono compiuti in chiesa, ma da sempre è noto che l’assemblea eucaristica dev’essere punto di raccordo e di sintesi spirituale di tutte le esperienze, i bisogni, le aspettative individuali e familiari di una parrocchia, di una diocesi o di strutture umane ed ecclesiali ancora più ampie ed estese.

Per cui anche oggi dobbiamo ricordarci del modo di pregare degli antichi ebrei, come degli antichi cristiani che su questo punto sarebbero rimasti molto vicini ai fratelli ebrei, per evitare che la differenza più o meno strisciante tra chiesa e casa, tra comunità orante e famiglia vada accentuandosi e mortificando di conseguenza il vero spirito della preghiera, perché la preghiera non ha a che fare solo con momenti particolari o straordinari della nostra vita ma con tutti gli atti ordinari che in essa veniamo compiendo. Non ha forse detto l’ebreo Gesù che bisogna «pregare sempre, senza stancarsi mai?» (Lc 18, 1)? E non scriveva l’ebreo Paolo di Tarso: «Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1 Cor 10,31)? E’ molto utile allora sottolineare, con uno studioso ebreo come Abraham Heschel, che «il giudaismo è una teologia degli atti comuni, delle banalità della vita perché si occupa non tanto dell’educazione all’eccezionale quanto del modo di trattare il banale. Lo scopo sembra essere quello di nobilitare il comune». E’ proprio cosí.

In quanto poi anche lo studio delle sacre scritture è un modo essenziale di ricercare le risposte di Dio, fondamentalmente esso ha lo stesso valore della preghiera, non nel senso che possa farsi a meno di essa ma nel senso che tra l’una e l’altro è difficile stabilire una differenza gerarchica, sebbene  la preghiera del tutto istintiva e spontanea del soggetto intellettualmente o culturalmente limitato e di colui che più in generale non ha l’opportunità di leggere e di ascoltare la parola biblica è ugualmente gradita al Signore, il quale, osserva De Benedetti, prega a sua volta, perché anche Dio cerca. E chi cerca se non l’uomo? Egli, creando l’uomo, ha creato un “tu”. Prima era solo ma dopo averlo creato non può far finta che non ci sia e cerca la compagnia dell’uomo, un dialogo con lui, un rapporto di familiarità e di confidenza con lui, uno scambio di risposte affettive. Anche Dio è alla continua ricerca dell’uomo, sia che questi lo ami già sia che non lo ami ancora sia che non lo ami affatto: ha «bisogno … quanto noi, che ci sia questo scambio, che noi chiamiamo preghiera, tra Dio e noi; noi e Dio». E come si manifesta la preghiera di Dio? I profeti lo sanno bene. Si pensi ad Elia che percepisce la preghiera di Dio in un mormorio o sussurro di brezza leggera (o di vento leggero) o come altri traducono in una voce di silenzio sottile. Allora, da una parte abbiamo la preghiera come grido esistenziale che sale a Dio, dall’altra la preghiera come mormorio o sussurro divino o voce divina che, materializzandosi in un soffio quasi impercettibile di vento oppure in un silenzio che non appesantisce ma alleggerisce lo spirito umano, scende verso l’uomo per fargli capire che Dio e in che modo Dio vuole sentirsi amato da lui. 

Nel Talmud c’è una preghiera che Dio recita spesso: possa la mia misericordia prevalere sulla mia giustizia. Possa io alzarmi dal trono della giustizia e sedermi su quello della misericordia. Quando a pregare siamo noi, chiediamo la giustizia e la misericordia di Dio ma soprattutto la sua misericordia; quando a pregare e a cercare è Dio, egli ci sollecita soprattutto per via di misericordia posponendo ad essa la sua giustizia che esercita nel modo più mite e misurato possibile. La preghiera che Dio rivolge a noi ci può cambiare positivamente la vita, ma anche la nostra preghiera può far cambiare idea a Dio. Si pensi alle parole di Mosé quando litiga con il Signore che vorrebbe distruggere il popolo di Israele per aver pervertito la sua condotta: “No, piuttosto cancella me dal libro della vita”, e il Signore cambia idea e recede dal suo proposito. Questo tipo di preghiera, che è una lotta spirituale con Dio (come quella di Giacobbe), era molto sentita presso gli ebrei. Non è che Dio debba cedere necessariamente dinanzi a preghiere particolarmente intense e appassionate, ma egli ama sentirsi pregare dalle sue creature con tutto il loro cuore e tutte le loro forze e tiene in particolare considerazione le preghiere di coloro che per il bene altrui giungono ad offrirgli in sacrificio la propria vita.

In altri termini, se vogliamo che Dio sia Dio dobbiamo aiutarlo, per fare ricorso ad un concetto paradossale usato dallo stesso De Benedetti, ad essere sempre più Dio, sempre più potenza paterna, potenza amorevole e misericordiosa. Dio ha sempre bisogno di noi  e ci offre continuamente il suo amore ma se noi non vogliamo né lui né il suo amore, neppure come semplice nostalgia, egli non ci costringe ad una condivisione forzata. La realtà divina non si esaurisce naturalmente in questi suoi aspetti, che restano tuttavia aspetti centrali di essa. Queste cose bellissime, insieme ad altre che non è possibile ora considerare, si trovano nell’antica preghiera degli ebrei.