San Cottolengo tra Ratzinger e Gramsci

Scritto da Francesco di Maria.

 

Papa Ratzinger, il 28 aprile scorso, ha ricordato due sacerdoti piemontesi, don Giuseppe Benedetto Cottolengo e don Leonardo Murialdo, entrambi proclamati santi dalla Chiesa, additandoli quali modelli esemplari di vita sacerdotale: «due santi sacerdoti esemplari nella loro donazione a Dio e nella testimonianza di carità, vissuta nella Chiesa e per la Chiesa, verso i fratelli più bisognosi» (In Cristo e nella Chiesa il prete vive la carità, in “L’Osservatore Romano” del 29 aprile 2010). Per quanto riguarda in particolare il Cottolengo, il papa ne ha posto in evidenza anche le grandi doti di predicatore e di conferenziere soprattutto presso gli studenti universitari, «dove riscuoteva sempre un notevole successo», e ne ha sottolineato i meriti principali: «tutte le sue capacità, specialmente la sua abilità economica e organizzativa, furono utilizzate per dare vita ad iniziative a sostegno dei più bisognosi. Egli seppe coinvolgere nella sua impresa decine e decine di collaboratori e volontari. Spostandosi verso la periferia di Torino per espandere la sua opera, creò una sorta di villaggio, nel quale ad ogni edificio che riuscì a costruire assegnò un nome significativo:  "casa della fede", "casa della speranza", "casa della carità". Mise in atto lo stile delle "famiglie", costituendo delle vere e proprie comunità di persone, volontari e volontarie, uomini e donne, religiosi e laici, uniti per affrontare e superare insieme le difficoltà che si presentavano. Ognuno in quella Piccola Casa della Divina Provvidenza aveva un compito preciso:  chi lavorava, chi pregava, chi serviva, chi istruiva, chi amministrava. Sani e ammalati condividevano tutti lo stesso peso del quotidiano. Anche la vita religiosa si specificò nel tempo, secondo i bisogni e le esigenze particolari. Pensò anche ad un proprio seminario, per una formazione specifica dei sacerdoti dell'Opera» (Ivi).

Ora, forse non tutti i cattolici sanno che tra i più sinceri estimatori di don Giuseppe Benedetto Cottolengo è da annoverare anche uno dei massimi pensatori laici contemporanei: Antonio Gramsci. Gramsci, che non fu certo tenero verso la Chiesa cattolica, verso il Cottolengo manifestò sentimenti di grandissimo apprezzamento e anzi, se è vero che, come sostiene qualche prelato, in punto di morte si sia convertito a Cristo accostandosi ai sacramenti, egli dovette probabilmente questo gesto conclusivo della sua esistenza terrena ad una figura di sacerdote quale Giuseppe Benedetto Cottolengo che avrebbe lasciato nel suo cuore un segno indelebile. Un segno indelebile è in ogni caso, con o senza conversione finale, quello che il sacerdote di Cuneo ha lasciato nel pensatore sardo. Infatti, quando il 29 aprile del 1917 il Cottolengo venne proclamato beato da Benedetto XV (mentre sarebbe stato proclamato santo nel 1934 da Pio XI), Gramsci, pur svincolandone polemicamente l’opera caritativa dai presupposti trascendenti della sua fede religiosa, ne tessette un elogio formidabile come uomo e come «uomo di carattere» giungendo al punto di affermare che la sua opera fosse meritevole di ammirazione anche da parte dei socialisti, perché scaturita da «un impulso di genialità creatrice».

Il ritratto che Gramsci delinea del Cottolengo diverge fondamentalmente su questo punto, almeno in apparenza, da quello delineato da papa Ratzinger: da una parte un uomo religioso, il cui impegno umano e sociale vale non già per la sua fede religiosa e per l’abito che indossa, ma unicamente per la sua integrità morale e per la sua strenua volontà di servire l’uomo nelle sue concrete necessità materiali e spirituali, dall’altra un uomo che deve tutta la sua straordinaria capacità di servizio unicamente alla sua indefettibile fede in Cristo e nella Chiesa. Per Gramsci, Cottolengo non è grande perché cattolico e sacerdote ma perché, indipendentemente dalla sua particolare condizione confessionale e religiosa, opera scelte oneste e coraggiose, tutte favorevoli ad una reale emancipazione degli uomini. Per Ratzinger, invece, la grandezza del Cottolengo è da mettere esclusivamente in relazione alla sua scelta religiosa e al suo impegno di presbitero cristiano e cattolico, per cui, al limite, un’opera umana e civile come quella da lui svolta sarebbe molto poco significativa se non sostenuta dalla fede in Cristo.

Eppure Gramsci, pur da ateo, non dice cose insensate quando polemizza con quel mondo cattolico torinese che aveva incensato il Cottolengo da morto dopo averlo infastidito ed insultato da vivo: «il Cottolengo non è stato uno qualunque e, ciò che più importa, non è stato un clericale, ma è stato, da vivo, avversato fieramente da clericali e da preti. Il Cottolengo era un uomo, semplicemente, con tutti i difetti e tutte le virtù che caratterizzano gli uomini completi: per caso era cattolico, ma anche se fosse stato buddista o maomettano la sua opera non sarebbe stata diversa da quella che fu. Era un religioso, ma la sua religione non si concretava obbiettivamente in una o nell’altra delle credenze in voga; nell’atto essa era la religione del dolore incompreso, della sofferenza che non riesce a trovare nella società moderna un lenimento e un riparo in nessuna organizzazione di comitati o di associazioni borghesemente anguste e grette. Tutti i relitti di umanità, i pezzi anatomici che sono uomini solo perché nella superficie fisica rassomigliano lontanamente all’uomo, ma nei quali il caso ha messo troppo poco o addirittura niente di spirito e di intelligenza: questi detriti, che provocherebbero la nausea e il disgusto nelle damine benefiche dal cuore incipriato e dal cervello di farfalle in fregola, hanno trovato a Torino il loro protettore, il loro sostentatore nel Cottolengo. Con una pazienza e una fermezza di carattere che il cattolicismo non spiegherebbe … egli ha drizzato un edifizio di carità che è diventato il suo monumento maggiore. Il cattolicismo, dopo aver avversato quest’uomo in vita, dopo avergli attraversato in tutti i modi la via, perché egli non seguiva le solite rotaie e non accettava l’autorità ingombrante della gerarchia chiesastica, dopo che morì non volle lasciar cadere l’occasione di sfruttare, per i suoi fini di setta, gli effetti della sua opera» [Gramsci, Cronache torinesi (1913-1917), Torino, Einaudi, 1980, a cura di S. Caprioglio, p. 141 e p. 147].

Parole severe, certamente, e forse discutibili in qualche punto, ma parole che un cattolico onesto in situazioni analoghe dovrebbe proferire e comunque parole di un testimone attendibile perché non è più sconosciuta a nessuno la tendenza della Chiesa a celebrare talvolta strumentalmente, per fini propagandistici e di potere, le opere stesse di quei santi da essa un tempo avversati. Che ci sia una certe persistente ipocrisia nell’atteggiamento mentale di larga parte del clero cattolico istituzionale e non, per cui non ci si pone alcuna remora nel santificare oggi quel che fu ostacolato in passato, non è una novità ed è quindi probabile che Gramsci non abbia affatto esagerato. Semmai occorre apprezzare la sua obiettività quando dice: «Noi, che siamo uomini liberi, riconosciamo i meriti grandi di quest’uomo e le sue virtù. I suoi principî economici non sono certo i nostri; il suo modo di concepire la solidarietà umana non può essere certo il nostro: il Cottolengo era un religioso, un mistico, e noi siamo realisti e vogliamo che la solidarietà sia basata su un ordinamento nuovo della società e non sul buon cuore dei singoli, che vivono e muoiono con l’opera loro. Noi lavoriamo per l’eterno, per la continuità immanente del concreto. Ma, da uomini liberi, ammiriamo gli uomini come il Cottolengo, che hanno espresso il massimo dell’amore e della pietà umana, che hanno realizzato integralmente, in una società avversa, sorda, opaca, un loro ideale individuale. Perciò ci dispiace che di essi si impadronisca la piazza, la turpe speculazione settaria e ipocritamente religiosa» (Ivi, p. 148). Sia la lettera sia soprattutto lo spirito di questo brano sono chiari e solo un cattolico in malafede può rifiutarsi di capirne il vero significato: se tu sei un prete ma ti limiti a predicare l’amore in modo generico e vago, non sei ancora un uomo; se tu parli di verità ma avalli praticamente la menzogna della tua vita o della vita altrui, non sei ancora un uomo; se tu dici di credere in Dio ma non prendi mai posizione contro l’avidità e la prepotenza dei furbi e dei potenti, non sei ancora un uomo; se tu preghi dalla mattina alla sera ma il tuo comportamento non è compatibile con quello di chi si sacrifica quotidianamente per portare conforto e sollievo agli oppressi e agli emarginati, non sei ancora un uomo. Questo sottintende Gramsci; ma, se uno non è ancora un uomo, può forse essere degno seguace di Cristo?

Per sostenere l’uso volgarmente strumentale fatto dai cattolici del Cottolengo, cattolici che, essendo egli ancora in vita, sempre lo avevano avversato, Gramsci fa riferimento alla ponderosa opera di un sacerdote cattolico: Pietro Paolo Gastaldi, I prodigi della carità cristiana descritti nella vita del venerabile servo di Dio Giuseppe Benedetto Cottolengo, Torino, Tipografia Salesiana, IV edizione, 1892. In questo volume, si dimostra «come l’opera pietosa del Cottolengo fosse una stonatura nel mondo cattolico, come il Cottolengo non sia stato un fiore più bello e più profumato in un giardino a cultura cattolica, ma sia stato un monstrum, un uomo che era fuori della tradizione, che era contro la tradizione cattolica» (Ivi, p. 149). Per questo motivo, «il postumo riconoscimento dei clericali non è che una turpe e volgare speculazione di gente piccina, che sfrutta l’abito religioso del morto per i suoi interessi di setta, per cercare di dare un nuovo splendore alla sua mitologia ormai presa sul serio solo dai poveri ignoranti delle valli alpine» (Ivi, p. 150). Gramsci si dice convinto che «il Cottolengo, per il quale ora non ci sono altari sufficienti, sarebbe stato una vittima dei clericali e dei gesuiti se egli non fosse stato un uomo di carattere, più che un uomo di fede, e non avesse tratto la sua energia morale da ben altra fonte che non sia la mitologia cristiana. Come cattolico si sarebbe sottomesso ai “consigli” dei suoi superiori; come uomo resistette, e trionfò del mondo di gente piccina e gretta che costituiva allora come ora il cattolicismo torinese» (Ivi,  p. 152 e pp. 155-156).

Forse c’è materia sufficiente per le gerarchie ecclesiastiche e per noi tutti, a parte quel gratuito parlare gramsciano di «mitologia cristiana», per riflettere e trarne le dovute conseguenze soprattutto per ciò che attiene la nostra responsabilità e la nostra condotta di cattolici hic et nunc. Il che non toglie che papa Ratzinger abbia ragione di dire, con il suo predecessore Giovanni Paolo II, che persino il più ammirevole spirito di servizio o la più encomiabile opera caritativa è ancora poca cosa se prima o poi non trova la sua fonte principale in Dio e se rimane quindi privo di una dimensione sovrannaturale, e di augurarsi e augurarci che l’intercessione e l’esempio di uomini come san Murialdo e, appunto, san Cottolengo continuino «ad illuminare il ministero di tanti sacerdoti che si spendono con generosità per Dio e per il gregge loro affidato» (In Cristo e nella Chiesa il prete vive la carità, cit.). Non è però altrettanto cristiano sperare che ad un uomo, ad un grande combattente come Gramsci non sia rimasta estranea l’esperienza di Cristo redentore, sceso dal cielo a salvare anche la sua vita di nobile “pagano”?