Giulio Giorello, il laico non credente e il laico cattolico

Scritto da Francesco di Maria.

 

Epistemologo di fama internazionale, Giulio Giorello ha sempre dato prova di lucidità analitica nella trattazione dei problemi della conoscenza e della conoscenza scientifica in modo particolare. Strada facendo, dopo il periodo dei grandi dibattiti filosofici (tra il 1960 e il 1990 circa) sulla scienza, sul nesso tra scienza e società, sulla struttura, sullo sviluppo, sugli usi e sulle finalità della ricerca scientifica e tecnologica, questo erede del pensiero geymonatiano è apparso sempre più interessato a mettere a frutto la sua ampia cultura filosofico-scientifica anche in relazione ai temi del rapporto tra scienza e fede, tra metodologia critico-razionale e ricerca fideistica, tra pensiero laico e pensiero religioso dogmatico. Ben consapevole del significato che certi termini, quali assolutismo o relativismo per esempio, sono venuti assumendo nel quadro della storia del pensiero scientifico e filosofico, Giorello ha avuto spesso occasione di contrastare le tesi espresse da buona parte della gerarchia e della Chiesa cattoliche sul terreno filosofico e scientifico, ponendo bene in evidenza i vizi o le carenze critico-metodologici di un pensiero cattolico istituzionale o “ufficiale” troppo preoccupato di piegare aprioristicamente le ragioni solide della scienza a quelle presunte della fede e di una fede cattolica intesa in un determinato modo.   

Se Giorello avesse interloquito con uno scienziato notoriamente e sinceramente cattolico come Galileo Galilei, anziché con qualche pontefice contemporaneo non adeguatamente esercitato in campo scientifico e filosofico, difficilmente avrebbe avuto elementi per procedere ad una identificazione del pensiero cattolico tout court con una delle principali forme di irrazionalità dogmatico-metafisica della cultura contemporanea, giacché né il concetto di relatività, né lo stretto rapporto tra esperienza e razionalità, né il principio di libertà e autonomia della ricerca scientifica rispetto alla fede e al sapere religiosi o teologici, avrebbero minimamente creato problemi al padre della scienza moderna in quanto credente, giacché egli aveva al contrario una profonda e disinvolta familiarità con tutti questi elementi costitutivi della ricerca scientifica. La scienza spiega come vanno i cieli, diceva Galilei, mentre la fede insegna in che modo si può andare in cielo. Perciò è probabile che lo scienziato pisano non si sarebbe affatto scandalizzato nel sentir dire a Giorello che una difesa del relativismo sia necessaria, perché la natura stessa dell’impresa scientifica è relativistica, perché la verità scientifica non può essere altro che congetturale e fondata su prove empiriche, perché l’universalità della conoscenza scientifica non può essere identificata con la sua assolutezza e con la definitività dei suoi metodi, delle sue teorie e dei suoi risultati.

E’ probabile che, con Giorello, Galilei avrebbe condiviso l’idea per cui in assoluto non c’è nessun dogma che possa frapporsi alla ricerca della verità e il pensiero secondo cui dietro il tanto temuto relativismo «ci sono il corpo dell’individuo, la libertà della ricerca, le garanzie dei diritti e la stessa genuinità della fede». Più in generale è possibile che lo scienziato pisano avrebbe persino apprezzato uno dei passaggi più caratteristici della cultura filosofica contemporanea, ivi compresa una parte minoritaria ma illuminata della stessa cultura cattolica: quello che consiste nel mostrare come la “fede” nella verità di chi cerca di pensarla e di viverla non solo con un serio impegno esistenziale ma anche attraverso una ricerca rigorosa, problematica e aperta, di pensiero, muova da una reale consapevolezza dei limiti soggettivi ed oggettivi della propria pur sempre limitata esperienza conoscitiva e veritativa a prescindere dallo specifico grado di universalità raggiunto in tale esperienza. Ma, si noti, questo significa anche che quella “fede”, che peraltro non può non muovere sempre da un qualche presupposto, non può non alimentarsi di “dialogo”, di “confronto”.

La base, il fondamento dunque della possibilità stessa di ricerca della verità è il dialogo, il confronto, la discussione, l’approfondimento, la revisione delle posizioni raggiunte, e cosí via. C’è allora, a quanto pare, un fondamento ineludibile, incontestabile, un fondamento che non può essere messo in discussione, pena la nullificazione di ogni possibilità conoscitiva e veritativa. Ma questo è un dogma, qualcosa di indiscutibile: anche il relativismo sembrerebbe potersi quindi giustificare solo a condizione che il suo principio fondante sia un principio dogmatico

E’ bene tenerne conto per evitare che nel nome del relativismo, che correttamente inteso e utilizzato resta un utile strumento della scienza e della filosofia contemporanee, si possano intraprendere aprioristiche, inutili, pretenziose e dannose crociate contro ogni esperienza umana e spirituale volta ad acquisire non solo “soggettivisticamente” o “privatamente” la dimensione del divino come dimensione non solo ipotetica ma reale della vita spirituale personale. Perché mai ciò che è “soggettivo” in questo posto e in questo momento non potrebbe essere o diventare intersoggettivo in un altro posto e in un altro momento? Perché quello che adesso appare “comunicabile” con un determinato linguaggio domani non potrebbe essere comunicato o trasmesso con un linguaggio comune a tutti? Qualcosa del genere non succede anche nella scienza?

Nel segno del relativismo sarà molto più efficace porsi dal punto di vista di ciascuna “fede”, ivi comprese la fede scientifica e la stessa fede cattolica, per evidenziarne o sottolinearne punti critici o di difficoltà, per sollecitare approfondimenti sempre nuovi e volti a migliorare continuamente la messa a fuoco della verità ma non a garantirne un assoluto e perfetto possesso. Il relativismo, quando non sia scettico o nichilistico, non è affatto una parola anticattolica; può ancora diventare una importante acquisizione della nostra fede, della nostra cultura, della nostra storia: di noi cristiani, di noi cattolici, a cui è stato concesso di incontrare concretamente l’Assoluto e di conoscerne l’infinita ricchezza sapienziale e spirituale, di noi cristiani e di noi cattolici che sappiamo di appartenere a Cristo e di dover vivere religiosamente e laicamente per Cristo: anche laicamente, certo, perché la differenza non è tanto tra laici e credenti ma tra laici non credenti e laici credenti.

I laici credenti, essi stessi Chiesa, sono quelli che accettano il magistero della Chiesa, della loro Chiesa – che significa assemblea, per cui temo, contrariamente a quel che pensa Giorello (Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Cortina Raffaello, 2005), che nessuno possa fare a meno di una Chiesa perché nessuno può comunicare al di fuori di una qualche realtà assembleare –, non con una coscienza dormiente ma con una coscienza ben sveglia ed attenta a verificare che nella sostanza originaria della verità rivelata non vengano introdotti, sia pure inavvertitamente, elementi parzialmente tendenziosi o arbitrari; proprio come i laici non credenti, che non possono non partire da un’accettazione della o delle “tradizioni” scientifiche più autorevoli per stabilire di quali correzioni esse di volta in volta necessitino per dar modo agli scienziati di proseguire efficacemente sulla via della scoperta scientifica. 

Alla luce di tutto questo, lo stesso Giorello potrà forse stabilire se è vero o non è vero che egli, come ha scritto Armando Torno recensendo il recente volume del filosofo lombardo “Senza Dio” edito da Longanesi (in Il cardinale e il filosofo, Corriere della Sera, 15 settembre 2010), «non fa dell’ateismo basso o volgare, di quel genere che crede di liberarsi dal problema con formule o battute, cerca piuttosto – di autore in autore – una via… Si direbbe anzi che il fine a cui tende quest’opera non sia quello di liberarci da Dio, ma di liberare Dio da quelli che parlano troppo sovente a vanvera nel suo nome e, in tale veste, fanno la loro parte per dar forza agli argomenti dell’ateismo volgare. Inoltre vengono denunciate tutte le “chiacchiere” sulla religione civile, ultimo esercizio da salotto televisivo».

Però Giorello saprà anche riflettere criticamente su se stesso, sulle sue scelte, sulla ragionevolezza delle sue posizioni e delle sue parole, sull’effettivo grado di razionalità insito nel suo rifiuto istintivo della trascendenza e del Dio di Gesù, qualora fosse tutto vero quel che continua a scrivere Torno: «Insomma, il libro è rivolto a un mondo senza imposizioni. In esso l’ateo può essere compagno di strada del credente e diventa un fatto naturale chiedersi come si possa vivere, agire, lottare, morire quando si conta solo su se stessi…  È la sfida per un nuovo Illuminismo, nel quale si avverte il bisogno d’amore a cui un tempo si dava il nome di Dio. Da “ateo protestante” (cosí si è dichiarato l’autore), Giorello non cerca di dimostrare l’assenza dell’Essere Assoluto, ma di definire l’orizzonte di un’esistenza senza di esso, rifiutando rassegnazioni e reverenze, ritrovando i piaceri della sperimentazione nella scienza e nell’arte, riscoprendo infine la libertà, soprattutto quando essa appare eccessiva alle burocrazie di qualsiasi “chiesa”…..Morale: Giorello spinge il lettore verso un ateismo non dogmatico, utilizzabile anche da un credente stanco dei vari fondamentalismi, gli stessi che alla Grazia del Signore hanno sostituito la repressione e l’intolleranza. Una sua battuta? “Non credo molto a slogan tipo Comunione e liberazione; se proprio devo sceglierne uno, preferisco Libertà e individualismo”».

Giorello saprà dire se tanta sofisticata intelligenza di pensiero sia sufficiente ad eludere quel bisogno spesso avvertito dagli uomini di una verità oggettiva molto più grande di quella cui può pervenire la mente umana e di un amore reale molto più appagante di quello che potrebbe procurare la più nobile e la più amorevole delle compagnie umane e terrene.