Considerazioni sull'Assunzione di Maria in Cielo in corpo ed anima

Scritto da Francesco di Maria on . Postato in I miei scritti mariani

 

Siccome niente è impossibile a Dio può anche succedere che ogni tanto Egli assuma in cielo delle creature senza che queste debbano attendere l’ultimo giorno per risorgere e senza che ciò implichi una mancanza di fedeltà divina alla Parola rivelata cui Egli pure si mantiene fedele in linea generale. L’“ultimo giorno” è il giorno previsto da Dio per la “resurrezione dei morti” ma questo non impedisce a Cristo di far notare autorevolmente a Marta, sorella di Lazzaro, che lui stesso è “la Resurrezione e la vita” (Gv 11, 25) sempre operanti e liberi di manifestarsi anche prima della scadenza apocalittica ove egli lo voglia.  Nell’Antico Testamento un evento cosí sensazionale viene sperimentato dai profeti Enoc ed Elia (Genesi 5, 24 e 2Re 2, 11) ed è un evento che anche Maria di Nazaret avrebbe sperimentato alla sua morte benché nulla dicano i vangeli in proposito. Ma i vangeli non raccontano tutti i fatti prodigiosi attribuibili a Gesù e allo Spirito Santo e tuttavia proprio quest’ultimo, disse lo stesso Gesù, ci avrebbe insegnato nel corso dei tempi tante altre verità che in quel momento storico i suoi discepoli non avrebbero potuto né comprendere né forse facilmente accettare: uno di questi fatti e di queste verità è appunto l’assunzione in cielo di Maria in anima e corpo ed esso fu gradualmente compreso sul piano teologico e alla fine reso oggetto di definizione e di credenza dogmatiche da papa Pio XII nel 1950.

Tale dogma per i credenti cattolici riveste un’importanza fondamentale non solo da un punto di vista teologico ma anche e soprattutto da un punto di vista esistenziale, perché se Maria, nella sua inimitabile santità, è stata assunta in cielo nella interezza della sua persona (ovvero non solo l’anima ma anche il corpo), ciò significa che qualunque essere umano disposto ad ascoltare la Parola di Dio e a lottare per realizzarla nel modo più efficace possibile durante il suo viaggio terreno può sperare concretamente di accedere in cielo in anima e corpo, se non attraverso una diretta assunzione divina, almeno nel momento in cui questo mondo terreno avrà termine.

Maria, dopo Gesù, è la prima dei risorti in Cristo, il primo essere umano che ha conosciuto sensibilmente il destino finale e totale di ogni creatura che proclami con la parola e con la vita la sua fede in Cristo. Anzi, Maria è il primo essere integralmente umano che risorge dopo la resurrezione e per la potenza di Cristo, integralmente umano ma allo stesso tempo integralmente divino. Maria è in tutto e per tutto una di noi; ella è, come è stato ben scritto, «come me e come te» e allora la festa della sua assunzione in cielo in anima e corpo «è una grande speranza, una grande forza per la nostra vita: non c'è da aver paura, non c'è da temere, perché andiamo verso la luce, verso qualcosa di buono; non c'è da aver paura perché ciò che ci aspetta è qualcosa che ci realizzerà, che soddisferà tutte le nostre nostalgie e i nostri desideri profondi» (Marco Pedron, Omelia del 15 agosto 2010, Donne che danzano e uomini che lottano).

Naturalmente non si può dimenticare che questa donna che viene assunta in cielo in anima e corpo non tanto per i suoi pure incomparabili meriti quanto per l’infinita misericordia di Dio è tuttavia la stessa donna che canta il Magnificat, canto di preghiera e di lode e canto di lotta contro ogni forma di iniquità umana e sociale. Maria qui è certo l’umile donna, la serva fedele al Signore, assolutamente obbediente a quest’ultimo, ma non in un senso meramente liturgico, contemplativo, quietistico, non nel senso astratto e intimistico in cui tali espressioni vengono generalmente intese dalle molte anime pie o peggio dalle molte anime belle di cui è pieno il mondo cattolico, bensí in un senso attivo, dinamico, spiritualmente proteso a desiderare tutto ciò che è giustizia secondo Dio e quindi anche a protestare concretamente contro tutte le ingiustizie interiori ed esteriori del mondo umano. Non c’è dubbio che il Magnificat sia anche «un inno di lotta contro l'oppressione e per la giustizia. Quando leggo questo canto sento un'onda d'urto verso tutte le falsità e le ipocrisie, sento l'indignazione per quei rapporti di potere e di oppressione che vedo attorno, sento il desiderio di battermi contro le strutture d'ingiustizia….La  mia fede non è solo cantare le lodi nella liturgia della chiesa, la mia fede deve scendere nelle piazze, deve protestare contro il sistema economico iniquo che riduce l'occidentale ad un robot e l'africano alla fame; deve dire "no" e scioperare e trovare strumenti di protesta non violenti contro lo sfruttamento telefonico (gli sms costano 1 centesimo, mentre noi li paghiamo 15 centesimi), deve trovare forme di aggregazione e di unità come la banca etica o il mercato equo-solidale…Maria mi spinge a lottare, a schierarmi contro l'ingiustizia, non prendendo mentalmente posizione, ma scendendo giù nelle strade, intervenendo di prima persona e spendendo la mia vita per ciò che dico di credere» (Ivi).

E’ vero: neutralizzato adeguatamente ogni possibile velleitarismo spirituale, si può convenire sul fatto che «il Magnificat faccia irrompere la voglia di mordere la vita, di provare a fare qualcosa, di plasmare almeno un po' questo mondo, di agire, di trasformare la mia fede in prassi. Sacrificium viene da "sacrum facere": è la disponibilità al sacrificio, la capacità di donare e di offrire qualcosa che sia sacro. Il Magnificat contatta la mia identità profonda» di essere umano «che non vive né per il denaro né per il potere né per il sesso né per il successo, ma per la verità, per la voce di Dio», al di sopra di interessi personali o di parte (Ivi).

Va poi precisato che Maria non è solo colei che magnifica liricamente la grandezza e la potenza, la giustizia e la misericordia del Signore, riponendo in lui la sua fede salda e gioiosa contro ogni possibile e reale avversità della vita e del mondo, ma sperimenta personalmente, concretamente, sensibilmente, quotidianamente la solitudine, l’emarginazione, l’amarezza, l’angoscia, il dolore e alla fine la morte, nello stesso modo in cui tutto ciò viene generalmente vissuto e sperimentato dai comuni mortali. Maria non ha semplicemente celebrato Dio ma lo ha celebrato mentre correva il rischio di essere abbandonata da Giuseppe e di essere lapidata, mentre era braccata con il figlio in grembo dalle guardie di Erode, mentre era immigrata ed esiliata in Egitto, mentre rimaneva vedova e seguiva successivamente con dolorosa apprensione le vicende sempre più drammatiche del figlio ormai immerso nella vita pubblica ebraica, mentre debole e stanca e forse malata nelle membra si separava dalla vita terrena. Maria è una di noi, è una come noi, perché, pur prescelta da Dio come Madre di Colui che dà la vita, come molti di noi ha vissuto sempre da anonima, da sconosciuta, da povera, conoscendo continue mortificazioni ed umiliazioni personali a causa di Cristo Gesù e terminando la sua vita terrena senza alcun pubblico e gratificante riconoscimento ad eccezione della venerazione e dell’affetto privati degli apostoli da cui fu circondata sino alla fine.

Maria, dunque, è come noi, ma noi siamo come Maria? Abbiamo e avremo la sua stessa fede senza lamentarci troppo, senza troppo angosciarci, senza disperarci pur in mezzo a tante preoccupazioni e a tante situazioni dolorose? Confidiamo e confideremo sempre in Dio qualunque cosa succeda a noi e ai nostri cari e ai nostri fratelli e sorelle in ogni parte del mondo, nella quotidianità e nella storia, affrontando tutto con spirito di sacrificio e di carità? Pregheremo con immutato ardore anche nei momenti più angusti e difficili, nelle malattie, nelle disgrazie e infine nella morte? Non sono domande mosse necessariamente da un’astratta esigenza di ascesi spirituale o da un facile e scontato moralismo né da un rigorismo teologico vagamente consolatorio che non tenga conto adeguatamente della irriducibilità del dolore umano all’atto di fede. Nella vita, in questa vita, c’è il dolore e c’è la fede e il dolore c’è anche se c’è la fede e non è mai totalmente assorbibile nella fede: nostro Signore soffriva troppo sulla croce perché la fede gli consentisse di nascondere il suo dolore: egli non disse “Padre, la sofferenza è atroce ma è come se non ci fosse” ma “Padre, vedi come sto soffrendo, è qualcosa di insopportabile, perché non fai niente, perché mi hai abbandonato?”.

Il dolore è dolore e, in sua presenza, non c’è fede e teologia che possano arginarne la devastante presenza nella nostra vita. Ne sanno qualcosa, ancora oggi, i molti Giobbe della terra. Come scrive Ravasi «Giobbe è, sí, un "paziente" per la sofferenza che lo tortura a tutti i livelli (anche psicologici e intimi) ma è tutt'altro che "paziente" nella sua reazione, al punto tale che egli spazza via come "decotti di malva" le argomentazioni dei suoi amici teologi che in modo sistematico … ricorrono ai loro dogmi preconfezionati (soprattutto la cosiddetta "teoria della retribuzione", ritmata sul binomio "delitto-castigo") per giustificare la legittimità della prova. Essi si illudono di raffreddare con le loro tesi l'incandescenza del mistero che stanno maneggiando. Un mistero che agli occhi di Giobbe coinvolge necessariamente Dio» (Il Giobbe di Fabrice Hadjadj in “L’Osservatore Romano" del 22-23 agosto 2011).

Tuttavia, per essere come Maria, in modo realistico e non meramente devozionale, occorre far sempre prevalere la fede sullo sconforto o sulla disperazione, in particolare da parte di chi abbia ricevuto dall’alto il dono della Sapienza (non coincidente necessariamente con la scienza o il sapere teologici). Per essere come Maria bisogna sforzarsi di credere oltre ogni umana impossibilità e oltre ogni umana disperazione, non per via di cieca irrazionalità ma per via di profonda, consapevole e responsabile razionalità qual è quella derivante da un’adesione matura alla Parola di Cristo. Come dire: adesso non capisco ma un giorno capirò, adesso mi pare di  sprofondare in un abisso di insignificanza ma so che non è e non sarà cosí perché il mio Dio, il mio Salvatore, che non ha mentito e non può mentire, non mi lascerà nell’ignoranza e nella disperazione. Mi fido di lui più che della medicina e della scienza, più che di ogni pur raffinata ed intelligentissima forma di scetticismo e agnosticismo umani.

  Per essere come Maria, bisogna sforzarsi di imitarla, pur senza rinunciare alla propria identità, e pregare e amare al meglio delle proprie possibilità, ogni giorno per tutti i giorni della propria vita, sicuri che in cielo un giorno anche noi saremo ammessi in carne e ossa, cosí come siamo adesso anche se in una dimensione esistenziale trasfigurata e gloriosa di eterna gioia. In cielo non saremo probabilmente “assunti” come Maria, ma prima o poi saremo con lei e gioiremo con lei e come lei, perché ella, per decreto divino, è la nostra madre celeste, è la regina delle nostre vite e della mia vita per sempre.