La Chiesa e la politica

Scritto da Francesco di Maria.

 

La Chiesa non può essere confusa con la comunità politica o con un determinato sistema politico. Essa non è, per sua natura, “un’agenzia politica”, ma non c’è dubbio che la fede, di cui la Chiesa è portatrice e custode, ha invece, per «sua natura..una ricaduta sull’intera vita degli uomini, anche sul versante pubblico e sociale» (A. Bagnasco, Chiesa e politica, Frascati, 4 settembre 2011). Questa è la fondamentale premessa della lectio magistralis su “Chiesa e politica”, tenuta recentemente dal card. Bagnasco a Frascati.

La politica, in quanto arte del buon governo e “amore per la polis” e dunque per la vita sociale, non deve essere volta semplicemente a soddisfare bisogni meramente individuali attraverso una collaborazione collettiva imposta dalle leggi o a regolamentare in senso repressivo “gli istinti di prevaricazione di tutti contro tutti” ma deve promuovere anche e soprattutto l’apertura dei singoli verso gli altri, la capacità caritatevole di ciascuno del dare e del ricevere, l’attitudine a rispettarsi e a soccorrersi mutuamente e disinteressatamente.

La politica, per i cristiani, deve essere intrisa di spirito di carità e nessuno può stupirsi che la Chiesa «da sempre consideri la politica come una forma alta di carità». Il politico, pertanto, non può essere altro che colui che «per amore si dedica alla giustizia». Ciò che è universalmente giusto, oltre ogni interesse particolaristico o corporativo, individualistico o di gruppo, è lo scopo precipuo di un’attività politica che sia degna di questo nome.  

ll principio cristiano della giustizia è unicuique suum, ovvero il principio morale per cui la politica deve tendere a riconoscere a ciascuno il suo, a cominciare da ciò che appartiene indistintamente a tutti e quindi anche a ciascuno, come bisogni o necessità di carattere generale. Per cui, un agire politico, che trascuri tali bisogni o necessità generali per soddisfare “desideri o esigenze puramente singolari”, non può essere che ingiusto e incoerente rispetto alla sua specifica essenza.

La politica non può limitarsi a registrare passivamente certi rapporti di forza o di potere esistenti tra ceti o categorie sociali per ratificarli, magari al fine di procurarsi un facile consenso politico-elettorale, benché indubbiamente essa debba prestare attenzione ai “mutamenti sociali e culturali”. La politica è infatti tenuta non ad avallare acriticamente ogni mutamento e ogni istanza proveniente dalla società complessivamente considerata ma a valutare nel merito «le situazioni, le richieste, i bisogni vecchi e le nuove istanze» tenendo sempre fermi nei propri giudizi e nelle proprie decisioni non già criteri di pura e semplice opportunità e convenienza ma criteri universali di giustizia radicati nel concetto e nel principio, non manipolati o adulterati attraverso ragionamenti falsi e mistificatori, di bene comune.

Se in una società alcuni hanno troppo e altri troppo poco o niente, la politica, con leggi e riforme adeguate, dovrà innanzitutto preoccuparsi di sostenere chi ha troppo poco o niente e di raggiungere magari un pareggio di bilancio richiesto da necessità economiche interne e dalla comunità economica internazionale facendo obbligo a ricchi, evasori e non evasori, e a categorie economiche e sociali di fatto privilegiate, di farsi massimamente e concretamente carico delle difficoltà del momento. Purtroppo, sembra pensare Bagnasco, in Italia e in Europa oggi la politica tende a muoversi su binari molto diversi, di tipo ragioneristico e utilitaristico, per cui il suo problema principale è che i conti tornino, non importa se a carico e a danno di chi vive già nella precarietà o a beneficio e a vantaggio di chi stabilmente conduce vita agiata o di gaudente, e questo è notevolmente favorito dal fatto che viviamo «in un clima di individualismo solitario e di nichilismo valoriale», in cui «il dinamismo etico, tanto universale quanto ovvio, fatica ad essere riconosciuto. La conseguenza pratica, sul piano morale, è il cinismo comportamentale: scelgo ciò che mi conviene, ciò che mi appare utile, o che sembra placare i miei impulsi, fosse anche la morte mia o degli altri».

Intendiamoci: sarebbe irrealistico non vedere che nella storia degli uomini è in perenne svolgimento una dialettica talvolta molto conflittuale tra utilità e verità ma il compito della Chiesa è di fare in modo che, in questa «contesa tra utilità e verità, la verità non soccomba»: specialmente in «coloro che hanno responsabilità e visibilità maggiori», se si vuole che «il bene comune, che richiede anche sacrificio», sia «credibile». Coloro che governano ed esercitano potere devono essere rispettati ma solo nella verità e nel coraggio di voler operare nel miglior modo possibile secondo verità e secondo giustizia. Qui i cristiani devono essere particolarmente attenti e vigilanti perché essi sono stati chiamati ad essere “sale della terra”, condividendo praticamente tutte le fatiche e le privazioni dei più soli ed oppressi, e “luce del mondo”, prendendo energicamente e apertamente posizione su tutte le questioni di vitale importanza per la vita e la dignità degli uomini.

Il discorso di Bagnasco su questo punto si libera di quella bonomía un po’ generica ed ipocrita e di quella retorica religiosa tante volte fastidiosamente ed ambiguamente presenti in non trascurabile parte della pubblicistica della gerarchia cattolica e si carica di tonalità tanto chiare quanto precise che conferiscono al suo argomentare un notevole significato morale e religioso, quasi profetico: «Qualcuno, oggi, vorrebbe che la Chiesa tacesse perché ogni sua parola viene giudicata come un’ingerenza nelle questioni pubbliche e politiche. Vorrebbe che rimanesse in sacrestia. La preghiera – si pensa - in fondo non fa male a nessuno e la carità fa bene a tutti. In altri termini, si vorrebbe negare la dimensione pubblica della fede concedendole la sfera del privato. E’ singolare, però, che a tutti si riconosca come sacra la libertà di coscienza, mentre dai cattolici si pretenda che prescindano dalla fede che forma la loro coscienza. I Pastori, poi, si vorrebbe che tacessero salvo che dicano cose gradite alla cultura che appare dominante perché ha potere di parola; in caso diverso, spesso si grida all’ingerenza. Francamente, mi sembra che si usino due pesi e due misure. Ma il punto centrale non è questo – le reazioni alle parole della Chiesa –, ma il dovere della Chiesa a dire ciò che deve perché l’umano non scompaia dal mondo, e perché la società non diventi dei forti e dei furbi, cioè disumana. Risuona imperioso il monito dell’Apostolo Paolo: “Guai a me se non predicassi il Vangelo” (1 Cor 9,16). Si tratta dell’annuncio della fede con tutte le implicazioni antropologiche, etiche, cosmologiche e sociali che contiene. Forse si vorrebbe che l’annuncio di Cristo fosse un messaggio spiritualista talmente celeste da non disturbare la terra, ma cosí non può essere, perché il cristianesimo è la religione dell’Incarnazione».

E infine: «Certi valori - come nel campo della vita e della famiglia, della concezione della persona, della libertà e dello Stato - anche se sono illuminati dalla fede, sono anzitutto bagaglio della buona ragione. Per questo sono detti “non negoziabili”. Si dice che la politica è l’arte della mediazione: è vero per molte cose, e speriamo che si raggiungano sempre le mediazioni migliori, ma vi sono dei principi primi che qualunque mediazione distrugge». Uno di questi princípi primi e intangibili è la dignità umana in tutte le forme e le fasi della vita, dalla nascita alla morte.

Ma viviamo in un’epoca in cui si stenta ad essere dignitosi persino quando si parla di dignità. E allora, anziché fare discorsi e appelli troppo impegnativi e appassionati, appare più decoroso porsi e porre una serie di domande semplici semplici: quante arbitrarie ed ingiustificate decurtazioni giuridico-finanziarie dovranno ancora subire nel nostro Paese le pensioni, l’assistenza sanitaria, l’istruzione e la formazione professionale, quanti altri tagli dovranno essere praticati ai danni degli enti locali di diverso ordine e grado, quanti disoccupati e quanti precari dovranno ancora aggiungersi a quelli numerosissimi già conteggiati dagli istituti statistici, quanti licenziamenti e quanta miseria saranno ancora necessari, prima che si decida, per evitare “la comune rovina delle classi in lotta” o degli interessi contrapposti, di invertire radicalmente la rotta di questa nostra cieca e ignobile navigazione politica?