Aldo Capitini e la Chiesa cattolica

Scritto da Francesco di Maria.

 

Cade il prossimo 25 settembre 2011 il cinquantesimo anniversario della prima Marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza dei popoli organizzata con questa stessa denominazione da Aldo Capitini il 24 settembre 1961. Capitini deve essere oggi ricordato per il suo sforzo non convenzionale di testimonianza umana e filosofica, per la sua radicale avversione ad ogni modello religioso dogmatico ed istituzionalizzato e per ogni forma di chiusura spirituale, per la sua indipendenza dal dispotismo spesso irragionevole delle scuole e da una filosofia accademica compassata ed ammantata di criticità ma non sempre essenziale e produttiva non meno che da una ermeneutica filosofica formalmente capace di “ascolto” ma troppo frequentemente priva di sentimento “religioso”. Che poi strada facendo abbia commesso errori e palesato limiti talvolta anche evidenti sul piano della ricerca, è molto probabile, ma è ciò che succede normalmente a tutti quei pensatori che abbiano fatto del pensare critico una vera e propria vocazione spirituale.

Colpisce in particolare la dolorosa anche se combattiva solitudine dell’uomo Capitini, dovuta non solo alla costante precarietà delle sue condizioni psico-fisiche e agli ostacoli meschinamente frapposti alle sue legittime aspirazioni di carriera universitaria o ancora ai rapporti talvolta difficili con autorevoli esponenti del mondo accademico e con partiti dello schieramento politico e democratico italiano che non ne avrebbero riconosciuto abbastanza il ruolo nella resistenza antifascista, ma anche alle incomprensioni e alle contrarietà che, a ragione o a torto, dovette sopportare a causa del suo modo laico, etico-teistico e non cattolico di intendere la religiosità.

Tuttavia quello capitiniano è un pensiero che esprime tratti realmente originali e inconsueti nel panorama filosofico italiano della prima metà del ’900 in cui raramente si scorgono procedure linguistico-espressive e tentativi tematici innovativi rispetto ai canoni e agli schemi più consolidati della tradizione filosofica italiana. La sistematica e reiterata esigenza di una radicale e permanente trasformazione della persona, della società, dell’economia e della politica, della cultura e della storia, è il “vissuto” e insieme il reale fondamento etico-religioso della teoresi di Capitini, e nella comprensione di tale esigenza è la condizione stessa di comprensione della sua riflessione etica e politica. Tale esigenza è di origine religiosa anche se la religiosità qui non è qualcosa di diverso dalla razionalità bensí un particolare modo di essere e di agire della razionalità.

Capitini è un razionalista perché per lui non c’è esperienza personale o collettiva, né realtà umana morale e politica, che possano essere comprese al di fuori di un’attività antidogmatica e insieme universalizzante della ragione umana, ed è un razionalista religioso in quanto ritiene che un’attività rigorosamente critica e problematica della ragione umana non possa non produrre un modo implicitamente o esplicitamente religioso di percepire e affrontare i problemi dell’uomo e della storia.

Razionalista quindi in quanto ha fede nella capacità veritativa della ragione e religioso in quanto sente la religiosità come prodotto di razionalità e non già come fuga fideistica o mistica dalla stessa razionalità. Ecco: quest’“uomo di ragione” (la stessa definizione che Norberto Bobbio adopera per Piero Martinetti, altro filosofo “religioso” molto caro al filosofo perugino), di grande animo religioso, dovette incontrarsi e scontrarsi con un importante e difficile interlocutore: la Chiesa cattolica, alla quale avrebbe contestato, con toni particolarmente duri e quasi risentiti, che sembrano in qualche punto sopravanzare persino quelli già aspri della polemica anticattolica di Gramsci, il suo astratto dottrinarismo e il suo conservatorismo sociale, il suo autoritarismo e il suo dogmatismo, la teologizzazione e la cristallizzazione della parola cristiana che avrebbero poco per volta devitalizzato, secondo lui, il sentimento religioso e la volontà personale di una lotta autonoma, vale a dire al di fuori di ogni intermediazione ecclesiastica, contro il male sempre risorgente nella quotidianità della vita; e inoltre l’istituzionalizzazione e la burocratizzazione dei valori religiosi che avrebbero bloccato il libero e spontaneo movimento dello spirito evangelico nella storia degli uomini, la grave compromissione con il fascismo di cui si sarebbe potuto invece ostacolare l’ascesa esortando i fedeli alla non collaborazione e alla disubbidienza civile e non sottoscrivendo i Patti Lateranensi del ’29, l’incapacità di confrontarsi serenamente e seriamente con il socialismo e con i nuovi movimenti sociali di liberazione, l’ipocrita ecumenismo, l’ambigua posizione sulla guerra e sulla proposta di dialogo e cooperazione tra l’Occidente cristiano e l’Oriente non cristiano.

Per Capitini la Chiesa cattolica, animata da uno spirito sacerdotale e non da uno spirito profetico, non ha trasmesso e perpetuato la religione di Gesù ma la religione su Gesù e ha addormentato o inibito le coscienze dei credenti inducendoli a rassegnarsi conformisticamente alla logica mondana della forza e della menzogna, a chiudersi nel proprio guscio individualistico ed edonistico, a sentirsi spesso incuranti della dimensione sociale e comunitaria della testimonianza e dell’impegno religiosi. La Chiesa cattolica, per Capitini, non si sarebbe limitata a proporre e ad alimentare, con la preghiera e con liberi atti di iniziativa religiosa, la fede del Cristo, ma avrebbe voluto imporre, anche o soprattutto con l’esercizio di un potere tutto mondano e temporale, la fede nel Cristo della gloria e della potenza più che della passione e della crocifissione, rendendolo oggetto di culto e di pura accettazione esteriore e usandolo come simbolo di forza e come strumento di propaganda. Che, durezza o spirito di semplificazione a parte, sono tutte osservazioni e critiche, probabilmente non nuove e non sconvolgenti, su cui la Chiesa ancora una volta avrebbe potuto tuttavia riflettere per vedere di trarne con sollecitudine almeno qualche stimolo ad un profondo rinnovamento della propria spiritualità e della propria pratica religiosa.

La religiosità capitiniana, condannata da Pio XII nel 1955, non approda però a forme di protestantesimo, non meno politicamente compromesso del cattolicesimo e funzionale ad una società capitalistica ed individualista, e viene anzi proponendosi, ormai al di fuori di una professione cristiana di fede, come libera e incondizionata iniziativa religiosa, il cui universalismo non si chiude però né alla specificità di altre culture religiose di cui avrebbe dovuto favorire semmai l’apertura graduale ad istanze sempre più universali di fratellanza e di libertà, né all’esperienza dell’ateo o del non credente, essendo essa finalizzata al dare e non al ricevere, al servire e non al pretendere.

D’altra parte, come fu opportunamente osservato (A. Vigilante, Religione e non violenza in Aldo Capitini, 23 settembre 2000 in Tavola rotonda su “Nonviolenza e religione” organizzato dal Centro S. Martino di Perugia)), il pensiero di Capitini, il quale ammette candidamente di “aver lasciato la pratica della religione cattolica da ragazzo” (in Religione aperta, 1955), fuoriesce dal cristianesimo in quanto egli, se non nega tutto del cristianesimo, come il meglio dei vangeli (le beatitudini, un modello di spiritualità e una prassi religiosa della donazione e del servizio), ne nega tuttavia punti essenziali, e in particolare nega che Gesù sia il figlio di Dio.

Perciò Capitini fu e rimane una grande anima del pensiero religioso ma non del pensiero cristiano, anche se il suo pensiero religioso si sostanzia inequivocabilmente di etica cristiana e, in parte, persino della prospettiva universalistica e trascendente del credo cattolico. Resta un campione della non violenza e del pacifismo internazionali anche se di una non violenza e di uno spirito di pace molto diversi da quelli che scaturiscono dalla fede cristiana, giacché i cristiani e i cattolici sanno bene che, senza Cristo, persino gli uomini più virtuosi e più giusti non potranno mai essere veri portatori di giustizia e di pace.