L'Europa degli inganni e gli economisti

Scritto da Francesco di Maria.

 

Non sono necessari studi di alta economia per rendersi conto che l’Unione Europea si è rivelata una realtà politico-economica fallimentare; anzi, almeno di questi tempi, è meglio tenere a distanza gli economisti che generalmente, conoscendo bene gli ambigui e perversi meccanismi del modo di produzione capitalistico (o, come a volte si preferisce dire, “postcapitalistico”), suggeriscono agli Stati nazionali che ne dipendono di tenere a posto i loro bilanci attraverso talune periodiche riforme “strutturali” che altro non sono se non strumenti economico-finanziari di “rapina” e di espropriazione arbitraria ai danni della stragrande maggioranza delle loro popolazioni e soprattutto di tutta una serie di soggetti sociali, come i giovani disoccupati o precari, i pensionati, i malati cronici, le famiglie a basso reddito, gli invalidi o i disabili, e di settori sociali come sanità, scuola, formazione professionale e ricerca, piccola e media imprenditoria, volontariato e pratiche assistenziali.

Purtroppo, oggi, non ci sono o sono del tutto minoritari ed emarginati sul piano accademico, editoriale e mediatico economisti in grado di capire che il problema centrale delle società e delle economie del cosiddetto mondo sviluppato è molto probabilmente, mutatis mutandis, lo stesso che aveva messo a fuoco Karl Marx più di centocinquant’anni or sono, ovvero la critica dell’economia politica e quindi dei principali meccanismi di funzionamento del sistema capitalistico con tutti i suoi annessi e connessi addentellati giuridico-amministrativi. Naturalmente, non pochi sono anche gli economisti “opportunisti”, cioè coloro che, pur sbagliando diagnosi e previsioni, tentano poi di rimanere sul pubblico proscenio attraverso analisi supplementari tanto “acrobatiche” quanto risibili.

Oggi appare chiaro quel che, già più di un decennio fa, si poteva a giusta ragione sospettare, vale a dire che l’Europa di Maastricht, il cui famigerato “trattato” è il presupposto della UE, avrebbe inteso «centrare la propria vita, il proprio futuro, sulle regole del “mercato”, assurto a infallibile divinità. O meglio sulla libertà di un mercato che, unico personaggio nel teatro di Maastricht, non soltanto non ha bisogno di regole, ma addirittura garantisce il suo più giusto funzionamento esclusivamente se gode di un’assoluta libertà» (I. Magli, La dittatura europea, Milano, Rizzoli, 2010, p. 9). Ma la libertà di questa Europa, com’era fin troppo facile prevedere, ha finito per erigersi ben al di sopra della libertà e delle possibilità stesse degli uomini europei e anzi contro la loro libertà e per trasformarsi da teorica opportunità di emancipazione in una vera e propria prigione.  

Ci si chiede oggi da più parti cos’altro potesse diventare un’Europa voluta molto più per interessi economici e finanziari che per interessi politici e sulla base di un’idea politica europea incentrata sul principio della solidarietà tra tutti gli Stati. In realtà, il perno della Unione europea è sempre stato la moneta unica, l’euro, che, appena introdotto, ebbe subito il devastante effetto di dimezzare il potere di acquisto di molti popoli europei. Di lí iniziò un graduale processo di impoverimento complessivo che, almeno per quanto riguarda l’Italia, è sotto i nostri occhi, e che sarebbe venuto conoscendo successive e improvvise accelerazioni sotto una legislazione europea fatta di regole astruse e irrealistiche, di lacci e lacciuoli giuridico-finanziari, di clausole commerciali strane e insensate (vedi, ad esempio, le quote latte), di molto teorici e ben poco realistici patti di stabilità e di sviluppo.

Quando il 2 maggio del 1998 nacquero l’Unione Monetaria Europea e la Banca Centrale Europea (“BCE”), questo evento fu da molti nostri connazionali economisti salutato come l’inizio di un’era di prosperità per tutti i popoli europei che avessero aderito alla nuova Europa e, poiché molti di loro sono ancora direttamente o indirettamente in campo, cioè nel campo politico ed istituzionale, sarà bene ricordarne i nomi e i cognomi non solo per evitare che la memoria storica di talune rilevanti disgrazie italiane vada perduta ma anche e soprattutto per consentire a chi può di opporsi eventualmente alla reiterazione degli errori e delle colpe del recente passato. Con Ida Magli giova ripetere che con la creazione dell’UME e della BCE, vero sistema di governo e di potere su tutti i cittadini europei solo surrettiziamente accettato da essi per via democratica, due economisti come Prodi e Ciampi, le cui analisi in vero non sono mai parse ai più particolarmente brillanti e convincenti, potettero «svendere i beni e il denaro italiano alla nuova Europa mondialista di Mastricht» (op. cit., p. 149). Ma accanto ai loro nomi bisogna poi mettere quelli dei vari Monti, Visco, Emma Bonino, che sono membri del lussuoso ed esclusivo Club o Group Bildeberg  e della Trilateral Commission fondata da David Rockefeller nel giugno del 1973 (Ivi, p. 150), dove non si può mancare di precisare che l’una e l’altra organizzazione sono eminenti espressioni dell’ideologia mondialista e tecnocratica e che il loro obiettivo è precipuamente quello di esercitare “una pressione politica concertata sui governi delle nazioni industrializzate”, indipendentemente dalle reali e specifiche istanze sociali ed economiche in esse presenti, al fine di perseguire interessi economico-finanziari “globali” non meglio precisati che restano avvolti in un “mistero” di sapore fraudolento.

Ma l’elenco continua con i nomi di Giuliano Amato, quello dalla chiacchiera ostinata e inestinguibile (che oggi se la prende con gli “altri” che non hanno capito), Giorgio La Malfa (un altro “europeista” in fase revisionistica), Giorgio Napolitano, giurista con interessi prettamente economici ed ex “migliorista” dal perenne piglio “istituzionale”, Giulio Tremonti, “incompreso” progressista della destra italiana, Enrico Letta, portatore di un grigio pensiero conservatore e vero cavallo di Troia incuneatosi nei gangli più vitali del Partito Democratico, Mario Draghi, che prima di essere governatore della Banca d’Italia era stato manager di una Banca ebraico-americana (la Goldman&Sachs): tutti costoro sono membri dell’Aspen Institute (che è sotto la duplice guida della Chatham House Foundation, un’associazione costituita da esponenti del governo britannico, da rappresentanti del mondo degli affari, delle organizzazioni non governative, delle università e dei media, e della laburista e molto pragmatica Fabian Society) (Ivi, p. 152 e p. 179), il cui metodo, si legge sul sito di questa associazione privata ed internazionale che nacque negli USA nel 1950 e ha sedi in tutto il mondo ivi compresa l’Italia, «privilegia il confronto ed il dibattito "a porte chiuse", favorisce le relazioni interpersonali e consente un effettivo aggiornamento dei temi in discussione. Attorno al tavolo Aspen discutono leader del mondo industriale, economico, finanziario, politico, sociale e culturale in condizioni di assoluta riservatezza e di libertà espressiva». Avete capito? A “porte chiuse”: alla faccia della democrazia e dell’etica pubblica. 

Ecco: questi personaggi della scena economica e politica italiana hanno la responsabilità di aver concorso con altri esponenti dell’economia europea e mondiale a destabilizzare Stati e governi nazionali europei nel nome di un’idea mitica e anzi mistica di unione europea che non poteva decollare se non catastroficamente perché pensata per nome e per conto delle grandi plutocrazie mondiali non di rado sostenute da potenti lobbies ebraiche e da ben organizzate associazioni massoniche. Essi, sia pure nel nome della democrazia, hanno agito per fini antipopolari e antidemocratici teorizzando un mirabolante Stato europeo sovranazionale che in realtà non poteva essere creato in assenza di un vero spirito di solidarietà tra i diversi Stati nazionali e di una politica emancipativa che, portando i popoli a migliorare le proprie condizioni generali di vita, non richiedesse continui ed ingiustificati tagli di spesa in settori che sono di vitale importanza per la vita e la dignità delle persone in qualunque paese europeo e che non possono non essere considerati come imprescindibili e prioritari settori di investimento economico e finanziario.

Tutto ciò è stato reso possibile dall’inconsistenza morale prima e oltre che intellettuale di una classe politica che in larghissima misura ha finito per ratificare pedissequamente le analisi e i giudizi dei tecnici dell’economia e duole constatare come persino in un momento cosí drammatico quale quello che stiamo attraversando per via di manovre finanziarie proEuropa non solo inique e insostenibili ma dannose all’economia e alla possibilità di sviluppo delle nazioni, tardi a giungere, in particolare in molti settori della sinistra e del cattolicesimo italiani, un soprassalto di intelligenza e di dignità personali e nazionali: per quanto tempo ancora lo schieramento di centrosinistra riuscirà a far credere ad aderenti e simpatizzanti di stare dalla parte di operai e giovani disoccupati o precari pur sposando la causa dell’alta finanza internazionale (vedi il significativo e convinto appoggio a Mario Draghi nella sua nuova funzione di presidente della Banca Centrale Europea, a quel Draghi che è uno dei ricchissimi privati cui appartiene la Banca d’Italia la quale pertanto non è affatto, come molti credono, di proprietà dello Stato italiano), e facendo concretamente gli interessi dei banchieri?

Io non parlerei di “dittatura europea” in senso proprio perché le procedure formali sono state rispettate ed eseguite con il concorso di larga parte della volontà popolare europea, ma è certo che la costruzione dell’unione europea è avvenuta in modo artificioso e per molti aspetti occulto, per niente chiaro e trasparente, a cominciare dal suo linguaggio spesso fumoso, burocratico e omissivo che caratterizza generalmente gli atti pubblici che essa emette. Inoltre, questa Europa unita si configura come una specie di Direttorio i cui componenti esprimono giudizi tendenzialmente vincolanti per tutti i Paesi membri su tutti gli aspetti della vita umana e sociale, dall’economia alla politica, dall’educazione alla sessualità, dal diritto all’etica e alla bioetica e via dicendo. In questo senso non si può non concordare con Ida Magli, le cui posizioni sulla realtà europea tuttavia non appaiono sempre condivisibili a causa di una sua pregiudiziale avversione verso tutto ciò che evochi un’idea di unità o di comunanza europea pur nel caleidoscopio delle diversità nazionali continentali, quando parla di una Unione Europea fondata su anonimi potentati economici sovranazionali tutti orientati in una stessa direzione e che tendono ad imporre non solo una moneta unica, ma il signoraggio bancario, l’omologazione culturale, la grigia monocromia politica, la distruzione della spiritualità e l’addomesticamento delle scienze e della critica sociale, lo sradicamento delle identità popolari e la cancellazione dell’autorità degli Stati, la continua rimozione di qualsivoglia provvedimento volto realmente al benessere popolare e alla giustizia sociale (op. cit.).

Una posizione giustamente critica verso l’Unione Europea aveva espresso nel 2001 anche un intellettuale come il compianto Massimo Bontempelli che osservava tra l’altro: «l’Europa è presentata dai mezzi di comunicazione di massa e dal dibattito politico come un problema, in quanto è fatta apparire un luogo ideale di razionalità ed efficienza in cui il nostro paese dovrebbe inserirsi per diventare migliore, e a cui tuttavia sembra permanentemente inadeguato» (Diciamoci la verità, Edizioni CRT, Pistoia 2001, p. 31). Proprio cosí: ancora oggi l’Italia, dopo reiterate riforme pensionistiche e tagli continui e crescenti alla spesa pubblica e allo Stato sociale, che negli ultimi due decenni hanno determinato oggettivamente nella sua popolazione un aumento vertiginoso dei valori della soglia di povertà assoluta e povertà relativa, sembra “inadeguato” rispetto agli standards europei che altro non sembra prevedano, sotto il profilo economico-finanziario, se non tagli e poi tagli e ancora tagli più o meno generalizzati. Dove è facile intuire come in tal modo persino il governo nazionale più austero e rigoroso sia prima o poi condannato ad una vera e propria fatica di Sisifo. Ma la verità è che «l’Europa di cui oggi si parla non è altro che un sistema normativo e un apparato tecnocratico finalizzati a promuovere il completo dominio sulla società dell’economia dei mercati finanziari globalizzati: il loro carattere sovranazionale serve appunto ad aggirare gli ostacoli nazionali alla circuitazione senza limiti, ed esclusivamente secondo i determinismi di un’economia completamente autoreferenziale, di capitali e di merci» (Ivi, p. 32).

Un’economia autoreferenziale e, mi permetterei di aggiungere, profondamente malata e intrinsecamente involutiva e recessiva che non potrà mai elevare il tenore di vita dei cittadini europei in funzione del quale avrebbe dovuto o dovrebbe porsi. Ma se l’Europa promuove ed esige una economia di questa natura, è evidente che sia da giudicare inservibile e ingannevole ai fini del progresso materiale e spirituale dei popoli e degli individui che ne fanno parte. Dinanzi all’ormai nota abitudine dei suoi banchieri e dei suoi burocrati di spostare sempre in avanti e in modo indefinito il termine ultimo dei “sacrifici” richiesti alle nazioni europee e l’inizio di un periodo stabile di prosperità almeno relativa, noi cattolici, ivi compresi gli economisti di fede cattolica, non possiamo stare inerti come semplici spettatori di un gioco a torto ritenuto troppo più grande di noi e delle nostre possibilità di cambiamento. Noi cattolici, senza sottovalutare il potere fortemente condizionante che i “mercati” e le politiche che vi si connettono esercitano sulla vita e sulle idee e i comportamenti dei popoli e delle persone, dobbiamo comprendere che, in ultima analisi, i mercati e questi specifici mercati di segno oltranzisticamente liberista non potranno averla vinta su un’umanità che pensa, che sente e che soffre se non nel caso in cui essa si arrenda per stanchezza o pigrizia spirituale al loro dominio.

Noi cattolici dobbiamo aver fede in Cristo perché ci aiuti ad essere testimoni e strumenti di giustizia: con il cominciare a reagire a questo stato di cose, ad opporci con tutte le forze all’intreccio ebraico-massonico che dell’ideologia e del credo mondialisti è ispirazione originaria e struttura portante, a pretendere nel nome dei nostri valori evangelici che le regole europee siano modificate affinché non più gli uomini vengano asserviti deterministicamente ad astratte e in apparenza impersonali e anonime esigenze economiche e finanziarie ma l’economia venga messa stabilmente al servizio delle reali e specifiche esigenze quotidiane delle persone senza rinvii mistificanti al benessere delle future generazioni: dal lavoro, alla salute, all’istruzione e alla formazione o allo stesso tempo libero, giacché non è affatto ineluttabile che la vita dell’uomo debba consistere esclusivamente nella riproduzione della sua forza lavoro o nella sua mera sopravvivenza, e giacché, se è vero che le aspettative individuali di vita sono migliori di un tempo, questo non implica affatto che gli individui debbano morire lavorando quasi si trattasse di una punizione decretata in modo irrevocabile da una arcana divinità.

Tutto si può fare sul piano economico. Quel che resta totalmente arbitrario da tutti i punti di vista è il pensare che, per risanare il debito pubblico di uno Stato, sia possibile sottoporre a pratiche vessatorie i popoli e soprattutto i ceti o le categorie sociali più povere dei popoli stessi. Semmai, se proprio la crisi è reale, siano  gli stessi potentati economico-finanziari e i ricchi di tutto il mondo a farsene carico, dal momento che essi, ben più di altri soggetti sociali, checché ne dicano certi economisti idioti o prezzolati, ne sono responsabili.  

Ma in particolare noi cattolici dobbiamo vigilare per evitare che la tendenza del mondialismo a livellare o ad appiattire le idee e gli ideali, i princípi e i valori morali, le fedi religiose e le credenze etiche presenti e operanti nelle diverse aree del pianeta, nel quadro di una concezione in cui non ci siano più posizioni ideali e giudizi di valore che valgano di più o di meno, finisca per determinare una situazione in cui  nostro Signore Gesù Cristo sia equiparato ad una delle tante “divinità” di quella diffusa mentalità “politeistica” contemporanea che prevede e prescrive la tolleranza e la reciproca accettazione tra le diverse credenze religiose e laiche. Se troppo diverse da queste istanze o addirittura conflittuali con esse dovessero risultare i criteri logico-ideali e i parametri di giudizio del parlamento e del Consiglio europei, sarebbe molto meglio uscire dall’Europa, posto che nel frattempo non imploda per conto suo, e presto: con contraccolpi non lievi, forse, ma con la coscienza di aver comunque difeso la nostra libertà e la libertà di tutti. Perché la libertà nella vita e nella storia può perdersi in molti modi e non è affatto irrealistico pensare che, a voler perseverare nell’errore, la si possa perdere anche nel nome di questa Europa.