Una scuola per pensare

Scritto da Francesco di Maria.

 

Anche se, per ipotesi, l’attuale governo italiano fosse realmente interessato all’esistenza di una scuola libera e attiva, realistica e progressiva, seria e funzionale ad una società libera e giusta e basata sulla competenza, e mettesse a sua disposizione una parte cospicua delle sue risorse finanziarie, ciò non sarebbe ancora sufficiente a garantirne la qualità etico-culturale e la specifica funzionalità sociale. Si intende dire che, contrariamente a quanto troppo spesso si scrive e si legge, la bontà di una politica scolastica non può misurarsi semplicemente sulla base delle sue capacità di finanziamento ma sulla base di responsabilità che non sono di natura esclusivamente politica. Infatti, non c’è solo una responsabilità della politica verso la scuola ma anche una responsabilità morale e civile della scuola verso la politica in quanto dimensione essenziale del vivere associato.

Nessuna politica, per quanto avanzata ed efficace, può garantire aprioristicamente che la scuola sia in grado di sviluppare o valorizzare al meglio il senso di criticità e socialità dei giovani ad essa affidati; nessuna politica, per quanto lungimirante e progressista, potrà mai garantire che la scuola sappia perseguire con rigore e coerenza finalità civili e democratiche elevate. Se le risorse umane, morali, professionali della scuola sono complessivamente scarse soprattutto sul versante di dirigenti e docenti, non c’è né finanziamento né riforma didattico-pedagogica che possa renderla capace di rispondere alle attese della società e alle istanze educative e formative che sarebbe tenuta a soddisfare e ad eseguire. Che la scuola sia responsabile verso la politica significa in ultima analisi che essa è responsabile del modo in cui autonomamente viene organizzando e trasmettendo il sapere in relazione ad istanze profonde e oggettive e ad aspettative legittime del Paese, della Nazione. Quindi bisogna opporsi al pregiudizio qualunquista, che ha sempre pesato abbastanza sulla scuola italiana in tutte le fasi della sua storia, secondo cui occorrerebbe tenere la scuola stessa lontana o separata dalla politica e quindi dalle problematiche economiche, istituzionali e politiche del Paese e del mondo intero.

Una scuola avulsa dalla vita civile e politica finisce inevitabilmente per essere avulsa dalla vita tout court. Né ovviamente questo significa voler politicizzare l’istruzione e la formazione scolastiche o proporne un uso strumentale a fini politici particolari più o meno inconfessabili. L’istruzione ha certo le sue regole e i suoi tempi e, solo snaturando se stessa, potrebbe sottostare a logiche politiche di qualsivoglia natura. Il che però non comporta che l’istruzione possa disinteressarsi alle dimensioni più rilevanti e alle questioni più vitali della vita associata o rimanere indifferente all’idea che libertà e democrazia richiedono il perseguimento di uno spirito etico-civile-culturale non già frammentario e particolaristico, corporativo e separatistico, ma quanto più unitario e nazionale, nel segno della giustizia.

Da questo punto di vista non si può non constatare come la maggior parte del personale docente e degli stessi dirigenti scolastici italiani degli ultimi due o tre decenni sia risultato impreparato a tali compiti, fermo restando che non di rado ne sono emersi limiti vistosi anche sul piano delle proprie competenze disciplinari. Sarà anche per mancanza di motivazioni economiche e professionali ma oggi tale situazione sembra destinata a peggiorare: l’insegnamento, lungi dall’essere sentito e praticato come una vocazione da esercitare con il massimo impegno possibile, è sempre più una semplice opportunità di sopravvivenza economica, e per converso è sempre più qualcosa di meccanico, una ossessiva coazione a ripetere moduli o schemi concettuali di natura mnemonica, formule e definizioni scolastiche, nozioni e conoscenze libresche, senza convinzione, senza spirito di approfondimento, senza entusiasmo. Ora, se questo è lo stato degli educatori, dei formatori, è facilmente comprensibile come il finanziamento della scuola non possa essere al momento considerato come la sua principale priorità.

Peraltro, stando cosí le cose, bisognerebbe sforzarsi anche di ridimensionare drasticamente la cosiddetta collegialità scolastica che è un peso inaccettabile per i docenti più bravi e preparati. Infatti, come si fa a pretendere che un docente realmente capace e qualificato si metta a discutere nei “consigli di classe” del destino dei suoi allievi con altri quattro o cinque “colleghi” ignoranti e presuntuosi? Come si può pretendere che un siffatto docente possa contribuire utilmente al corretto andamento della vita scolastica del suo istituto all’interno di un’Assemblea dei docenti in cui ad essere votate a larga maggioranza siano spesso proposte insulse o insignificanti? Come ci si può aspettare che i cosiddetti esami di stato diano responsi attendibili se, almeno due volte su tre, sempre quello stesso docente non può fare a meno di litigare per motivi di correttezza professionale e di onestà morale con gli altri commissari che, avendo candidati da proteggere oltre ogni decenza, lo mettono in minoranza e decidono il voto unico globale da assegnare a ciascun candidato? Qui forse qualcosa si può e si deve fare: eliminare questi speciosi e dannosi “Consigli”, responsabilizzare molto di più i singoli docenti, ripristinare gli esami di stato antecedenti gli anni ’70 quando ogni docente era libero e responsabile di dare il voto che voleva nelle sue materie e risultavano ben più visibili specifiche attitudini e limiti dei candidati.

Ciò detto, appare più agevole ora recepire alcune analisi fatte di recente e in particolare quella di Marco Lodoli su “La Repubblica” del 31 agosto 2011 (“Ricominciamo a far pensare”), che, al di là delle particolari contingenze economico-finanziarie, ha posto una domanda di fondo: posto che «gli insegnanti non riescono a insegnare, i ragazzi faticano a imparare, le famiglie delegano, ondeggiano, latitano e tutto l'acquario sembra ormai piuttosto torbido…, vogliamo provare, invece di piagnucolare al vento, a dire come andrebbe corretta la scuola italiana, quali sono i deficit e quali i possibili rimedi? In che modo lo spirito del tempo ha inquinato l'idea della conoscenza, e come si potrebbe rilanciare il sogno di un mondo che studia, apprende, diventa comunità già nelle aule e nelle palestre e nei cortili della scuola?». Secondo Lodoli “il punto dolente”, che egli pensa di aver individuato, è nel fatto che la scuola italiana postsessantottesca, non è dato sapere esattamente per colpa di chi, avrebbe puntato troppo sugli aspetti psicologico-emozionali e sentimentali dei discenti, e quindi sulla loro “spontaneità” e “creatività” nello studio e nell’apprendimento a tutto svantaggio della “logica” e della “razionalità”, della capacità di “analisi” e di “sintesi” e quindi di forme non evanescenti ma rigorose di “intelligenza”.

Molto significativamente egli scrive: «La cultura è il tentativo di dare una forma e un ordine al caos. Per questo studiamo le tabelline e la sintassi, Aristotele e il sonetto, Dante e Kant e la storia e la chimica e la biologia. Chiunque ama l'arte sa che il disordine del dolore può essere la materia bruta dell'opera: ma perché ci sia un valore e un senso l'artista deve tirare fili invisibili, cucire, legare e slegare, mettere in prospettiva, unire ciò che pare crudelmente diviso. E la scuola questo deve riprendere a fare, contro la cultura del desiderio che vive di smanie istantanee, puntiformi e distruttive, contro chi agita nei ragazzi solo l'emotività, come se la vita fosse solo sballo, divertimento, notti da inghiottire e giorni da dormire e un correre dove ti porta il cuore». Non c’è scuola possibile senza ratio e senza logos e, in un’epoca in cui «tutto si è ridotto a slogan suggestivo e vuoto, la vera rivoluzione» non è più, come forse in una certa misura poteva essere un tempo quando erano ancora in vigore metodi fortemente autoritari di conduzione scolastica, il «dar corso ai desideri» ma è «riappropriarsi della sostanza». E allora, «come ridare forza al pensiero, oggi calpestato dall'orda trionfante e barbara delle sensazioni spicciole, dall'impressionismo e dalla destrutturazione?».

La risposta, senza giri di parole, è: «più letture, più matematica, dunque, ma anche più filosofia e più traduzioni dalle lingue straniere». Convengo sul fatto che questa «sia la cosa più importante da fare» ma siamo sicuri che oggi ad operare nella scuola italiana di ogni ordine e grado siano generalmente insegnanti idonei a pilotare un “nuovo corso” cosí impegnativo, insegnanti motivati e capaci per esempio di tenere lezioni ex cathedra (perché, fesserie demagogiche a parte, non ci sono altri modi possibili di tenere le lezioni) coinvolgendo intellettivamente gli studenti senza troppo annoiarli e anzi inducendoli a pensare, a riflettere criticamente, anche a prescindere dai risultati scolastici che poi ognuno di loro sarà capace di conseguire? Siamo sicuri che l’attuale generazione di insegnanti non sia addirittura peggiore di quella già abbastanza mediocre che l’ha preceduta per via di processi formativi universitari sempre più scadenti e di concorsi abilitanti sempre più farseschi e inattendibili?

Non intendo dire che sono pessimista al riguardo ma, avendo insegnato nei licei per trentatre anni e avendo continuato ad avere esperienza e notizia delle pratiche accademiche, non mi è proprio possibile astenermi dall’esprimere dubbi e perplessità. Tuttavia concordo con Lodoli quando scrive che «gli insegnanti devono essere intellettuali del nostro tempo, non tristi pappagalli spennacchiati che ripetono la stessa lezione da trent’anni», sebbene una stessa lezione ripetuta per trent’anni possa valere molto di più di certe lezioni “creative” che, pur privilegiando “contemporaneità” ed “attualità”, risultino piuttosto scadenti o velleitarie. E concordo con lui anche su un’altra cosa: che, quando ciò che si trasmette è obiettivamente interessante e significativo e il modo in cui si trasmette è realmente chiaro ed efficace, ogni possibile difficoltà di rapporto generazionale tra studenti e docenti, tra giovani e anziani, viene immediatamente neutralizzata, pur se eventualmente attraverso discussioni e confronti molto accesi, e a quel punto l’unica divisione che resta, e forse neppure in modo ineluttabile, è quella «tra i vivi e i morti».

La scuola serve solo a ragionare e a pensare criticamente, e chi, tra i giovani e i vecchi, ritiene invece che la scuola debba servire ad assecondare o alimentare la spensieratezza o la giocosità dei giovani e certe aspettative pretenziose e puerili dei loro genitori, oppure debba essere utile all’esercizio di futuri mestieri o professioni, non ha ancora compreso che cosa richieda veramente la vita a giovani e vecchi.