Maria e i poveri

Scritto da Francesco di Maria on . Postato in I miei scritti mariani

 

 

Tra Maria e i poveri c’è una relazione speciale, perché anch’essa fu povera, materialmente e spiritualmente “povera”, e anzi, tra i poveri, fu ed è la povera per antonomasia di Dio. Oggi come ieri e come sempre, ella sta vicino ai poveri, agli oppressi, ai disperati e ai malati di cui rigurgita il mondo contemporaneo. Sta vicino con il suo inconfondibile stile di donna e madre preziosa e perfetta, con uno stile molto diverso da quello di tante donne e madri comuni di oggi (pur essendo stata Maria una donna e una madre assolutamente comune) che, pur amando per motivi di sangue i propri figlioletti, non di rado li riducono egoisticamente a pacchi da spedire (in qualche asilo, per esempio, che li tenga a bada dalla mattina alla sera) o da depositare (per esempio, davanti ad una televisione per ore e ore senza soluzione di continuità). Maria è totalmente e rigorosamente fedele ai suoi figli: soprattutto quando, tra nascita e morte, sono dimenticati, trascurati, abbandonati, o anche avversati, feriti e vilipesi da un mondo sempre troppo frettoloso e distratto, sempre troppo assorbito da esigenze meramente praticistiche ed utilitaristiche. Ella, pur essendo regina del cielo e della terra, si comporta e agisce come donna “feriale” che si pone sempre accanto a tutti, nel rispetto s’intende della libertà spirituale di ognuno, per soccorrere, alleviare, ispirare e guidare. La donna del dialogo permanente con Dio è anche la donna del dialogo materno permanente con gli uomini e in special modo con i poveri biblicamente intesi. 

Per essere a pieno titolo figli spirituali della madre di Cristo bisogna essere già poveri o diventare poveri: non una volta ma sempre. Diciamo meglio: bisogna proprio voler essere poveri al meglio delle proprie possibilità spirituali. Ma chiediamoci una volta di più: chi sono i poveri, chi sono i ricchi? Povero è certamente chi vive in condizioni economiche miserevoli o al più molto precarie e ricco chi invece dispone di mezzi finanziari talmente cospicui da potersi permettere costantemente persino il superfluo e il voluttuario. Non c’è dubbio che, da un punto di vista economico e in riferimento all’idea di giustizia sociale, tale distinzione sia ineccepibile e anche il vangelo la recepisce appieno nel prescrivere a tutti coloro che vi aderiscano di combattere la povertà materiale, di aiutare i bisognosi in uno spirito di fraterna condivisione, sforzandosi sinceramente di lottare per una distribuzione non solo “equa” ma “equanime” dei beni della terra nell’ambito delle diverse comunità nazionali ed internazionali.

Questo dev’essere chiaro per tutti e specialmente per quei cattolici che sono soggetti alla tentazione di deviare il discorso e di interpretare il monito evangelico in senso spirituale (anzi spiritualistico) più che in senso materiale. Tuttavia, i termini di “povertà” e “ricchezza” hanno un senso ancora più profondo, nel senso che “povero” per Gesù è chi pone in lui tutte le sue speranze chiedendogli perciò una vita dignitosa per sé e i propri familiari e la capacità di condividere il più generosamente possibile i propri beni anche con fratelli e sorelle che si trovino in una condizione di assoluta necessità, mentre “ricco” è chi, indipendentemente dal fatto che si dichiari credente o non credente in Dio, confida di fatto nelle proprie risorse e in ogni genere di risorse personali presunte o reali per perseguire egoisticamente la felicità adesso e su questa terra senza aprirsi significativamente alle necessità dei sofferenti e degli oppressi di qualsiasi genere. Ma anche chi aspira ad una ricchezza meramente materiale e ad una felicità semplicemente umana ha la medesima forma mentis del ricco e, quale che sia il suo particolare stato di vita, non può dunque non condividerne il destino.

Evangelicamente parlando, il “povero” è chi sa che non c’è ricchezza e non ci sono privilegi di qualsiasi natura che possano in se stessi risultare compatibili con il raggiungimento della salvezza. Il “povero” è quindi anche chi, pur essendo ricco, non approfitta del proprio potere, della propria forza, dei propri averi o della propria intelligenza per sfruttare o umiliare quanti ne siano meno dotati anche se per ipotesi dovessero essere peggiori o più meschini di lui, ma al contrario per soccorrere o sostenere con purezza di intenti quanti possano avvertire il bisogno di essere soccorsi e sostenuti; mentre il “ricco” non è solo chi, dall’alto della sua ricchezza e dei suoi privilegi, opprime gli altri in modo più o meno arrogante ma anche chi, pur non essendo ricco, coltiva nel suo cuore sentimenti di arricchimento personale e di cinica indifferenza ai bisogni altrui. 

Al cospetto di Dio, pertanto, non si è poveri e ricchi per fortuna ma per scelta: comunque vadano o si evolvano le cose della vita terrena di ognuno, povertà e ricchezza hanno a che fare principalmente con le nostre scelte e non già con contingenze più o meno fortunate. Al cospetto di Dio chi è economicamente, socialmente, culturalmente povero, può essere evangelicamente ricco se si nutre della parola di Dio e persegue la giustizia in ogni ambito della sua vita non per odio o per rivalsa personale e sociale ma solo per spirito di verità e di carità evangeliche; mentre chi è economicamente, socialmente, culturalmente ricco, può essere evangelicamente povero se prova proficuamente a svuotarsi spiritualmente e praticamente di sé e dei suoi averi per donarsi nel miglior modo possibile al prossimo e a Dio.

In generale, si può dire che oggi, rimanendo nell’ambito delle nostre società occidentali più sviluppate ed informatizzate in cui forse è più agevole fare qualcosa a favore dei poveri in modo semplice, personale e diretto, rispetto a nazioni e ad emisferi più lontani e diversi da esse per mentalità costumi e credenze religiose, i veri poveri rischiano talvolta di essere invisibili a causa dell’ingombrante e interessata presenza sociale di tanti “falsi poveri” che vi si antepongono spacciandosi per poveri e agitando continuamente la bandiera della povertà, della ristrettezza, del bisogno, solo per lucrare aiuti finanziari ed istituzionali non dovuti e per sottrarre e stornare risorse da coloro che ne necessitano veramente. Cosí, non di rado nelle nostre evolute e democratiche società occidentali accade che, persino nelle più alte sedi istituzionali e/o contrattuali, i poveri e la loro realtà umana e sociale finiscano per essere usati in modo del tutto strumentale e cinico per soddisfare interessi o istanze particolari e illegittime di individui o gruppi. Se ciò, come credo, è vero, si dovrà comprendere che chi tende la mano e chiede l’elemosina (e non alludo solo ai poveracci di strada) sarà forse realmente povero ma che anche tra coloro che non chiedono elemosina e non ostentano disperazione non pochi possano versare in condizioni di grave o più grave indigenza e di estremo abbandono umano e sociale.

Questo deve esser detto chiaramente per dotare in ogni ambito della vita civile lo spirito cristiano di carità di qualche utile criterio orientativo che lo renda attento e perspicace e al tempo stesso ne prevenga e ne neutralizzi usi deteriori e inopportuni. Ci sono, per esempio, estese sacche di nascosta delinquenza sociale i cui soggetti, in apparente stato di povertà, reclamano e non di rado ottengono, con la evidente complicità di politici corrotti o di funzionari incapaci della pubblica amministrazione, forme rilevanti di assistenza sociale (dalla casa a una qualche pensione di inabilità o a benefici di natura sanitaria o di altro genere); ci sono anche forme di imprenditoria parassitaria (si veda, ad esempio, l’uso improprio e spesso doloso della legge 488/1992) che dissipano il denaro pubblico, deprimono l’economia di interi territori e impediscono a gente veramente bisognosa di lavorare e di procurarsi un onesto salario. Poi c’è anche buona parte dei grandi ceti industriali e finanziari che non solo ottengono denaro dagli Stati per investimenti che non fanno o fanno parzialmente e per posti di lavoro assolutamente precari o aleatori ma pretendono anche di sopravvivere a qualsiasi crisi economica e finanziaria invocando “riforme strutturali” che altro non sono se non mezzi arbitrari legalizzati di repressione giuridica, economica e sociale, a tutto danno di categorie sociali marginali ed intermedie i cui redditi siano già men che sufficienti o appena sufficienti a soddisfare esigenze primarie di vita.

E’ probabile che il panorama di coloro che, privatamente o pubblicamente, tendono a segnalare sia pure in diverso grado la propria penuria di risorse economiche per trarne qualche beneficio, sia ben più ampio, ma penso sia sufficientemente chiaro il senso del ragionamento che qui si sta facendo. Ed è evidente che se sovvenzioni, contributi, laute provvidenze e garanzie, vengono concessi e distribuiti con scarsa oculatezza e inadeguata vigilanza, o viceversa con un rigore semplicemente di facciata e più o meno deliberatamente miope ed iniquo, la società non può che impoverirsi a dismisura e peggiorare in misura crescente le proprie capacità produttive e il proprio complessivo tenore di vita. Per contro, in cosa consisterebbe oggi lo spirito di giustizia, di equità e per i cristiani anche di carità, nel chiedere “sacrifici” a gente che non ha mai navigato nel lusso e che riesce sí e no a sbarcare il lunario ammesso che tutto fili liscio con un salario o uno stipendio sempre più macroscopicamente inadeguato al crescente costo della vita? A gente che, dopo alcuni decenni di sacrifici e spesso di privazioni, vive ora con una pensione che solo una mente non molto addentrata nei veri problemi fisici, psicologici, morali del lavoro, può collocare nella categoria dei “privilegi”? Se una pensione di anzianità pari a 1300-1500 euri e relativa a 36 o 37 anni di lavoro viene considerata un “privilegio”, come dovremo definire i guadagni dei tanti esponenti di un certo mondo politico, finanziario, bancario, manageriale, industriale del nostro paese e di molti paesi occidentali? 

Io credo che, se la barca statale affonda, giustizia vorrebbe che ad essere penalizzati fossero esclusivamente tutti coloro che qualunque penalizzazione fiscale e tributaria lascerebbe vivere ancora più che dignitosamente e con larghezza di mezzi, e non anche coloro che, di penalizzazione in penalizzazione, sono già precipitati nella povertà o cominciano a sfiorare la soglia della povertà. In particolare i cristiani non dovrebbero chiudere gli occhi su certe cose e sulle tragiche evidenze del nostro tempo, anche perché, come tutti possono facilmente intuire, non c’è niente di più antieconomico e di più fallimentare per uno stato industrializzato e democratico che condannare i suoi ceti sociali più deboli e quelli intermedi a costanti e drastici ridimensionamenti del proprio reddito e del proprio tenore di vita, che non possono peraltro non implicare una depressione dei consumi e quindi la stagnazione dell’economia. I cristiani non possono concedersi la debolezza di lasciarsi convincere o imbrogliare dai sapientoni dell’economia e della finanza che reclamano sistematicamente “sacrifici” e “tagli” sociali in funzione di una crescita e di uno sviluppo molto più  illusori che reali.

Cosa c’entra Maria con questi ragionamenti politici? Cosa c’entra la Madre di Dio e la madre dei poveri con analisi cosí poco “religiose” e “devozionali”? E invece il rapporto tra Maria, sede naturale e sovrannaturale del Logos fatto carne e della Sapienza divina, e le problematiche “scientifiche” elaborate e agitate dai sapienti di questo mondo, è del tutto pertinente, giacché Maria, al pari di suo Figlio, vuole che i suoi figli cerchino di contrastare nel miglior modo possibile, anche con i doni intellettivi e conoscitivi elargiti loro da Dio, le furbizie e le mistificazioni, le falsità o gli errori, dei dotti e degli esperti di questo tempo che pretendono troppo spesso, persino a volte nel nome della fede cristiana, di portare il mondo dove essi vorrebbero e non dove è giusto che esso vada.  

Dunque, riprendendo il filo del discorso, che ci si possa e debba aiutare caritatevolmente e reciprocamente anche in una comunità nazionale povera ed economicamente depressa, è indubbio: ognuno, anche il più miserabile, se può, è tenuto a prestare il suo aiuto a chi abbia per ipotesi più bisogno di lui. Ma che si parli di “unità nazionale”, di “coesione sociale”, di “spirito di patria”, semplicemente per convincere un popolo o più popoli a sottoporsi a vere e proprie vessazioni istituzionali, nazionali ed internazionali, al fine di reiterare in buona o cattiva fede antichi e permanenti meccanismi di riproduzione dello sfruttamento sociale e di determinati assetti elitari di potere e di ricchezza, non è né tollerabile civilmente né accettabile cristianamente. Gesù, parlando del ricco Zaccheo che si pente dei suoi trascorsi di usuraio e si converte ad una vita buona giusta e caritatevole, afferma che la salvezza è entrata nella sua casa dopo avergli sentito dire che è pronto a condividere e a dividere il suo patrimonio con i poveri e a restituire il quadruplo a coloro che siano stati eventualmente da lui defraudati.

Tanti sono i “ricchi epuloni” del mondo, i personaggi che nelle varie comunità nazionali ed internazionali detengono potere e ricchezza e dall’alto dei loro elevati ruoli “istituzionali” chiedono sempre “sacrifici”, senza che si accorgano e facciano alcunché per accorgersi di quei Lazzaro altrettanto numerosi che stanno alle loro porte, coperti di piaghe, bramosi di sfamarsi con quello che cade dalla tavola dei ricchi (Lc 19, 20-21). Persino certi autorevolissimi studiosi e politici sedicenti cattolici, che hanno forse molti meriti ma non quello di capire e sentire le sacrosante esigenze di milioni e milioni di persone e lavoratori che vivono e operano molto lontano dai palazzi del potere e della ricchezza,  parlano disinvoltamente di riforme strutturali necessarie per il risanamento economico e sociale, di allungamento dell’età pensionabile, di ineluttabile decurtazione monetaria delle pensioni, di ulteriori tagli alle spese pubbliche e a quel che rimane del vecchio Stato sociale, senza rendersi conto che essi oltraggiano continuamente il Diritto e la Giustizia nella propria coscienza ancor prima che nei fatti e nei relativi provvedimenti legislativi e che prima o poi dovranno render conto a Dio oltre che agli uomini della propria condotta. 

Se ci sono degli ammanchi di cassa, bisogna essere capaci di individuarne onestamente i responsabili senza sparare nel mucchio e senza chiamare tutti indistintamente a farsene carico secondo un modo di intendere l’economia che non abbia nella giustizia il suo ideale termine di riferimento ma unicamente nell’utilità e anzi in un senso molto selettivo di utilità. I poveri, dice Gesù, “li avrete sempre con voi” (Mt 26, 11). E’ cosí: ed è allora nel nome e per conto dei poveri, dei veri poveri, che bisogna lottare e puntare con l’aiuto di Dio ad una loro storica e strutturale emancipazione economica e sociale, non odiando o abbattendo i ricchi ma chiedendo a gran voce e a viso aperto che quanto meno le distanze tra essi e i non abbienti o i molto meno abbienti tendano a ridursi con misure o manovre appropriate e non ad accrescersi con decisioni e atti formalmente legittimi ma sostanzialmente immorali ed ingiusti, e fermo restando tuttavia che la vita dei poveri non è in ogni caso nelle mani di coloro che hanno la facoltà e la terribile responsabilità di amministrare la ricchezza del mondo e delle nazioni come dei singoli, ma nelle mani di Dio. Di quel Dio che ama privilegiare i poveri e i bambini, forse perché i poveri come i bambini devono essere a loro modo innocenti, miti, indifesi e privi di intenzioni prevaricatrici, puri nel loro agire e non mossi da secondi fini e per questo spesso anche perdenti dal punto di vista sociale, sofferenti e bisognosi di affetto e di cure. Come non ricordare quei bellissimi versetti biblici che recitano cosí: Beato l’uomo che ha cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera (Salmo 40, 2).

Non tutti i poveri del mondo, forse, sono come i poveri biblico-evangelici qui descritti, ma il regno dei cieli sarà di questi poveri e di coloro che faranno di tutto nella loro vita per assomigliare loro e per soccorrere anche quei poveri il cui modo di essere dovesse essere per ipotesi difforme dal modo di essere dei poveri di Dio. Non sempre è possibile diventare mondanamente ricchi, mentre poveri lo si può diventare sempre perché Dio può dare la grazia di render possibile il distacco dalle ricchezze e può rendere povero, cioè debole, fragile, tremante, uno che è ricco. Noi cristiani, noi cattolici dobbiamo pregare affinché il Signore voglia rendere poveri molti dei ricchi del nostro tempo, a cominciare naturalmente da noi stessi che sotto determinati aspetti siamo sempre più ricchi di altri. Noi cattolici abbiamo il dovere di essere o diventare criticamente attenti alle vecchie e nuove povertà che costellano i diversi territori delle società occidentali: anziani e malati soli e non garantiti, famiglie monoreddito, immigrati, donne, figli di coppie separate, e poi disoccupati e giovani precari, disabili ed emarginati sociali. Per tutelarne i diritti senza retorica, per sposarne la causa senza finzioni, spesso ci ritroveremo soli e scopriremo di essere anche noi tra loro, come loro, tra loro e come loro poveri, e saremo forse felici di saperci nel giusto cammino della croce e della resurrezione. 

Nella nostra relativa solitudine e nella nostra pur sempre perfettibile povertà avremo sempre accanto Maria, la madre dei poveri e dei piccoli. Ella vuole non che, nel nome di un ipotetico benessere futuro, si disumanizzi nel frattempo il mondo, ma che hic et nunc, senza rinvii e senza generici ed equivoci escatologismi politici, e ancora con le risorse adesso disponibili, ci si impegni a costruire risolutamente un mondo più giusto e più libero, più egualitario e più solidale, anche se strada facendo si dovesse scoprire che l’umanizzazione del mondo comporta un mondo meno opulento e più dimesso, meno grandioso e più familiare per tutti. La ragione ci mostra come «oggi la crisi economica» ponga in evidenza «l’insostenibilità di un mercato totalmente autoreferenziale»  (T. Bertone, Responsabilità ed etica nei processi finanziari, in “L’Osservatore Romano” del 23 novembre 2011), mentre la fede ci spinge a trasformare ancora una volta profondamente noi stessi e il mondo non secondo i complessi parametri della scienza economica ma secondo le più semplici e schiette prescrizioni evangeliche. Che la madre nostra ci aiuti pertanto a portare e ad alimentare la pace di Cristo nel mondo attraverso la verità, la giustizia e un amore quanto più puro e disinteressato possibile; e ci consenta di essere, con tutti i nostri limiti ma senza retorica e senza ipocrisia, non solo dalla parte dei poveri ma anche e soprattutto poveri con i poveri e tra i poveri.