Il Convegno su "Gesù nostro contemporaneo" (Roma, 9-11 febbraio 2012)

Scritto da Angela Iazzolino e Francesco di Maria on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi


Promosso dalla Cei e svoltosi a Roma dal 9 all’11 febbraio 2012, il convegno su “Gesù’ nostro contemporaneo” è risultato interessante e di ottimo livello anche se non sono mancate né incongruenze organizzative, come ad esempio l’aver collocato in contemporanea tematiche ed incontri diversi quasi fosse più importante dare la parola ai numerosi invitati e registrare televisivamente quanti più eventi possibili, sia pure nel quadro di un unico evento, che non consentire al pubblico presente di seguire ogni momento del convegno stesso, né una certa prolissità e interpretazioni talvolta discutibili persino all’interno di interventi complessivamente apprezzabili e stimolanti.

Con questa premessa si intende ora fornire un resoconto forse non del tutto  esaustivo sul convegno, anche perché non ci è stato praticamente o tecnicamente possibile seguire tutte le sue interne articolazioni, ma un resoconto che si spera comunque adeguato e comprensivo dei suoi momenti più interessanti e qualificanti. Un resoconto e un contributo utili eventualmente ad una successiva e più organica stesura dei risultati culturali e teologici conseguiti nell’ambito di questo evento.


PRIMA GIORNATA (Giovedí pomeriggio 9 febbraio 2012)

La relazione d’apertura del teologo protestante Klaus Berger (La fine della invisibilità di Dio. Gesù come fotografia di Dio) ha avuto uno dei suoi momenti centrali nel risalto dato al fatto che per i cristiani la verità non è un oggetto come per la filosofia greca ma una persona, ovvero la persona di Cristo. Quando Pilato chiede a Gesù cosa sia la verità, questi non risponde perché ritiene implicitamente sbagliata la domanda, che avrebbe dovuto essere non cos’è la verità ma chi è la verità. La verità per i cristiani non è un attributo del pensiero, non è l’adeguamento del pensiero alla realtà, la corrispondenza tra pensiero e cosa, ma è appunto una persona, perché quella persona è fonte originaria e costitutiva di ogni possibile verità in qualunque ambito del sapere e dell’agire.

La verità (“Io sono la via, la verità e la vita”, dice significativamente Gesù) è ciò che resta, è ciò che persiste, che permane pur nel mutare delle diverse scene del mondo, e chi non resta in tale verità, in Cristo, nella sua parola di vita eterna, non può approdare ad alcuna verità realmente certa, stabile, definitiva, ma solo a verità continuamente transeunti ed effimere per quanto forse illusoriamente o apparentemente rigorose, stabili e significative. Solo Gesù è colui che rimane e solo chi rimane in lui, pur nell’indefessa ricerca delle parziali ed utili verità del mondo e della vita, rimane nella vita stessa di Dio che è vita eterna e di eterna felicità. Chi ama veramente e senza riserve la verità non può non amare Gesù e non ottemperare ai suoi insegnamenti. Questo contatto permanente con Gesù, pur in una vita di cadute e di peccato, e pur nel fluire del tempo, è ciò che i vangeli chiamano sequela, l’andare indietro a Gesù, a Dio, alla verità divina. In quanto unica «immagine vivente del Dio vivente», Gesù è nostro contemporaneo e sarà sempre contemporaneo di tutte le generazioni sino alla fine del mondo.

Nell’ambito della tavola rotonda su “Gesù e la Gerusalemme di ieri e di oggi” con la partecipazione del rabbino David Rosen, del teologo Romano Penna e del giornalista Paolo Mieli, il primo ha osservato che “la pace di Gerusalemme”, alla luce del Talmud e dei relativi testi rabbinici, è la capacità di elevarsi al di sopra e al di là delle nostre differenze e dei nostri contrapposti interessi, dunque «la capacità di stare uniti nelle e attraverso le nostre disparità»: infatti il termine ebraico shalom, che significa pace, salute, benessere, viene dalla parola shalem, che significa completo, unito. E’ per questo, ha argomentato Rosen, che, in un momento storico come quello odierno in cui pregiudizi e fraintendimenti sono particolarmente gravi, è necessario intensificare il dialogo interreligioso. Rosen non si chiede se per caso la pace di Gerusalemme, ieri come oggi, sia minacciata principalmente da gran parte del popolo e dello Stato ebraici, né si chiede minimamente se proprio il perdurante misconoscimento ebraico della pace di Gesù, che non è pacificazione aprioristica o a tutti i costi ma pacificazione nella verità e nella giustizia, impedisca a qualsivoglia “dialogo” di produrre vera pacificazione e vera pace a Gerusalemme, nel Medioriente e nel mondo intero. Anzi, per Rosen la pace di Gerusalemme, almeno per il momento e per molto tempo ancora, trova nella figura di Gesù un ostacolo, non certo un aiuto o un fattore che ne agevoli l’avvento, e per il semplice fatto che, nel nome di Gesù, gli ebrei sarebbero sempre stati storicamente emarginati ed oppressi. Gesù quindi, pensa Rosen, non può essere percepito dagli ebrei come momento di unione e di pacificazione ma solo come momento di divisione e di inimicizia.

Se questo modo di argomentare sia frutto di buona fede e di onestà etica ed intellettuale, solo Dio lo sa, ma in ogni caso i cristiani e i cattolici mai potranno compiacere i fratelli ebrei cedendo a pressioni irenistiche o sincretistiche nel nome di un malinteso principio dell’amore reciproco.

Ecco perché è apparsa particolarmente grave la concessione storica e teologica fatta dal cattolico Romano Penna, allorché inaspettatamente, dopo aver brillantemente spiegato come Gesù non amasse le grandi città o metropoli del suo tempo e fosse tutto sommato un “ebreo marginale” e un personaggio di basso profilo essendo stata la sua vita quasi tutta di nascondimento, dopo aver giustamente notato che la stessa Gerusalemme, dove si recava più che altro per motivi religiosi perché vi si celebrava e festeggiava la Pasqua, non fu la città della sua vita ma piuttosto della sua morte, non quindi una città di cui si compiacesse ma che sarebbe stata invece per lui motivo di profondo dolore; dopo aver infine precisato che Gesù, che era un laico e non un sacerdote, benché unico e sommo sacerdote di Dio Padre, proprio per questo non sarebbe mai potuto entrare e non sarebbe difatti entrato nel Tempio di Gerusalemme, lo stesso Penna abbia deciso di compromettere tutto il suo intervento con un’affermazione, alla quale molti cattolici in sala non hanno dato molta importanza, ma che è inequivocabilmente eretica e totalmente contraria alla fede in Cristo: la resurrezione di Gesù non sarebbe un fatto storico ma semplicemente metastorico.

Data la gravità di questa affermazione, desidero qui riportare testualmente le parole di Penna: «la storia di Gesù finisce con la sua morte in Croce. La sua sepoltura è già storia di altri, non è neanche più sua…La scoperta del sepolcro vuoto…è un segno equivoco, ambiguo, che non porta alla fede nel Risorto, teniamolo presente. La resurrezione è un evento metastorico; il Gesù risorto non è più un personaggio storico…». Alla fine della tavola rotonda, cui il pubblico a ragione o a torto non ha avuto facoltà di partecipare, abbiamo sentito il bisogno, io e mia moglie, e solo per dovere di testimonianza, di far notare allo studioso cattolico la enormità e la pericolosità della sua affermazione, dal momento che la fede dei cristiani e dei cattolici nasce non simbolicamente ma realisticamente da ciò che si è sentito e da ciò che si è visto, ovvero da ciò che fu sperimentato dai discepoli di Gesù, e non solo dai dodici apostoli più qualche donna, ma almeno da diverse centinaia di persone come testimonia san Paolo (1 Cor 15), come una inconfutabile e concreta realtà storico-empirica. Sapete cosa ci ha risposto Penna? Che noi confondevamo tra lo storico e il reale, nel senso che ci sono tante cose reali che non necessariamente sono storiche.

Dio, per esempio, secondo questo ragionamento, sarebbe reale ma non storico, e il Cristo risorto sarebbe reale senza essere storico. In senso generale o generico, c’è evidentemente una realtà che è sempre oltre, non solo metafisicamente ma immanentemente oltre, il piano degli accadimenti storici e compito degli storici è proprio quello di accedervi progressivamente e sia pure sempre in modo parziale sulla base degli elementi o dei dati storici particolari o generali di cui dispongono. In senso specifico, però, qui il problema è di stabilire se il reale di cui parlano i vangeli sia un reale storico o un reale puramente immaginario o al più ipotetico. Secondo Penna il racconto evangelico avrebbe i crismi della storicità sino alla morte di Gesù, mentre esso sarebbe frutto di pura fede, di qualcosa cioè che esula dal campo degli avvenimenti storici propriamente intesi, quando tratta della resurrezione di Cristo.

Senonché Penna, cosí ragionando, non solo si allontana dal magistero della Chiesa, secondo cui non questa o quella parte dei vangeli ma i vangeli nella loro interezza hanno un fondamento e un significato storici, ma anche dal comune buon senso, secondo cui, al di là di un atteggiamento mentale aprioristicamente scettico o incredulo e perciò dogmatico, non sussistono elementi per stabilire che il racconto evangelico sia tutto storicamente fondato e credibile tranne che per la resurrezione di Cristo stesso.

La nostra fede si fonda sul presupposto della storicità di tutti i fatti evangelici narrati, ivi compresa la resurrezione. Quando leggiamo, nei testi neotestamentari, che c’è chi “vide e credette” (l’apostolo Giovanni), o chi parlò con Cristo risorto pur avendolo poco prima scambiato per un’altra persona vivente (Maddalena), o chi dichiarò davanti ad una folla di ebrei ancora scettici di averlo visto prima morto su una croce e successivamente vivo e vegeto (Pietro) sino al punto di poter essere addirittura visto, sentito e toccato da uno di loro (Tommaso), noi non leggiamo cose reali ma non storiche, non leggiamo cose metastoriche, ma leggiamo cose e fatti ancora una volta radicalmente storici.

Se cosí non fosse, la nostra fede sarebbe davvero ben poca cosa ed essa non poggerebbe su certezze rocciose e indistruttibili ma semplicemente su congetture non molto diverse dalle semplici e volubili opinioni. D’altra parte, non è la storicità della incarnazione divina che conferisce veridicità alla resurrezione di Cristo, ma è al contrario la storicità, e sia pure sensazionale o prodigiosa storicità, della resurrezione di Cristo che conferisce plausibilità o veridicità storica alla incarnazione divina. Quel che duole in particolare è che, negando la storicità della resurrezione di Cristo, Penna abbia permesso al rabbino Rosen di approfittarne subito per dire che effettivamente Gesù non sia una figura storica ma una figura esistenziale che conta molto solo per i cristiani, mentre per gli ebrei il nome di Gesù resta a tutt’oggi un’arma che viene utilizzata contro di loro.

Ma, ritornando alla tavola rotonda su “La pace di Gerusalemme”, resta ancora da segnalare l’intervento del giornalista Paolo Mieli, il quale si è sforzato di sottolineare, non senza un sottile intento anticattolico, come lo spirito di fraternità tra uomini e popoli non nasca dalla semplice tolleranza ma dalla capacità di ogni credente di incoraggiare credenti di fede opposta o diversa a credere in profondità nella fede stessa che essi professano. Per cui, secondo questo ragionamento, i cattolici realmente animati da spirito di carità sarebbero quelli che incoraggerebbero uomini e donne di fede diversa a perseverare nell’errore o nell’eresia, dal momento che il cattolico in quanto tale non può non ritenere erronea o eretica la fede ebraica o islamica o induista o la posizione agnostica ed atea.

A proposito di Mieli, e di un altro personaggio della carta stampata come Giuliano Ferrara o di personaggi del mondo dello spettacolo come Roberto Vecchioni e del mondo della cultura laica come Liliana Cavani, qualcuno forse giustamente si è chiesto perché mai gli organizzatori del convegno non abbiano pensato di estendere o limitare l’invito a personalità probabilmente più rigorose del pensiero laico nazionale come per esempio l’ex operaista Mario Tronti o il marxista Aldo Zanardo che, per il loro schietto e non improvvisato interesse per la cultura cattolica e la relazione tra cultura cattolica e pensiero laico moderno, avrebbero certamente e vivacemente contribuito a focalizzare il rapporto tra fede e società e tra fede e politica, che è un tema non periferico rimasto quasi totalmente in ombra nel corso delle tre giornate di convegno.

Da parte sua, nella contemporanea discussione su “Gesù di Nazaret” che si è tenuta presso l’Università Lumsa di Roma, il cardinale Angelo Scola ha esordito con un’affermazione certo non inedita, ma, specialmente in un momento storico in cui si fa di tutto e da più parti, talvolta anche interne alla Chiesa, per ridurre il valore del messaggio cristiano ad una dimensione meramente culturale depotenziandolo alquanto da un punto di vista escatologico-soteriologico, neppure scontata e anzi assolutamente necessaria a richiamare l’attenzione sulla specificità dell’annuncio evangelico e cristiano: dalla mattina di quella Pasqua di oltre duemila anni or sono, egli ha detto, «una catena ininterrotta di testimoni ha consegnato alla storia l’annuncio di Gesù Risorto, primizia della risurrezione dai morti. Tutto il cristianesimo sta o cade sulla verità di tale pretesa e sulla decisione rispetto ad essa. Infatti annunciare Gesù Risorto è annunciare Gesù come contemporaneo, cioè affermare la possibilità di incontrarLo e di seguirLo qui ed ora…E’ evidente allora che sulla risurrezione si gioca l’esperienza credente di ogni cristiano». Proprio cosí. Come altri avevano precedentemente osservato (G. Colombo, Gesù Cristo e il Suo Spirito, Milano, Centro Ambrosiano, 2011, p. 113), la fede cristiana si conserva oppure si smarrisce «a seconda che si creda o no alla risurrezione del Signore», la quale non è il prodotto di un’allucinazione collettiva, come anche in ambito cattolico si tenta talvolta di insinuare scientemente o di supporre incautamente con congetture tanto ardite quanto fasulle, né una semplice “idea”, ma «un evento» ed un evento che, contrariamente  all’“idea” che non può produrre eventi, produce altri eventi e in più «può produrre una rete interminabile di idee».

Ciò comporta di conseguenza che il Gesù di cui parlano i vangeli, lo stesso Gesù risorto dopo la morte, sia una figura storica, «una figura storicamente sensata e convincente», come sostiene Benedetto XVI nel suo “Gesù di Nazaret”, e in nessun modo adulterata da proiezioni puramente affettivo-emozionali dei suoi discepoli. Cristo ci è contemporaneo proprio perché è risorto, proprio perché oggi, solo alla condizione che sia risorto e si abbia un’intima fede nella sua avvenuta risurrezione, può apparire ancora «ragionevole seguirLo, qui ed ora».

Il problema, però, è che per credere nella risurrezione di Gesù si danno solo due possibilità: o bisogna averlo visto morto dopo la crocifissione e, subito dopo la sepoltura, di nuovo vivo e vivo in carne ed ossa, e questa è l’esperienza non mistica ma empirica e fattuale toccata ai discepoli e alle donne che lo avevano amato e seguito, oppure è necessario che noi, come i due ignari discepoli di Emmaus, facciamo e compiamo il nostro cammino di vita in compagnia di Gesù e soprattutto di Gesù eucaristico che, spezzando il pane, al di là di ogni tentativo meramente intellettualistico di vederlo, impedisce a quanti ne abbiano una sincera nostalgia di continuare ad essere “sciocchi e tardi di cuore”, ovvero lenti nel ragionare (Lc 24, 25) e consente ai suoi stessi seguaci, che vadano magari incontro a momenti di depressione o di stanchezza spirituale, come era per l’appunto accaduto ai due discepoli di Emmaus, di riconoscerlo e di comprendere definitivamente che Cristo è eternamente vivente e che egli ha sconfitto, a beneficio di ognuno di noi, la morte e il male.

Sempre alla Lumsa e sempre sulla figura di Gesù di Nazaret ha poi parlato il teologo Thomas Söding (L’icona del Crocifisso), docente di esegesi del Nuovo Testamento nella Facoltà di teologia cattolica di Bochum. Per il cristiano «ogni speranza dipende dal fatto che Gesù non usurpa la Signoria di Dio», accusa che invece fu a lui rivolta dai sommi sacerdoti, dai farisei e dagli scribi del suo tempo, «ma la realizza»; e «ogni fede dipende dal fatto che Dio e uomo sono in Gesù infinitamente prossimi». Eppure Gesù è stato crocifisso come un comune e volgare malfattore ed egli stesso sulla croce muore con un grido che sembra quasi di disperazione (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”), un grido che è anche una preghiera oltremodo struggente ma con cui mostra di non farsi alcuna illusione, perché egli si sente realmente abbandonato non solo dai discepoli ma da Dio stesso. Però Gesù, prima di spirare, pronuncia anche un’altra frase: “Tutto è compiuto”. Cioè ho portato a termine la missione che Tu, Padre, mi avevi affidato; non so perché tu mi abbia abbandonato, ma io ho fatto tutto quello che dovevo fare per glorificarti e non sono affatto pentito di aver eseguito compiutamente i tuoi ordini.

Gesù per risorgere doveva portare la croce, salire crocifisso sulla croce, morire sulla croce. Allo stesso modo, ha osservato Söding, «ogni uomo che deve portare la propria croce è un uomo chiamato alla Risurrezione». Lo studioso tedesco fa interamente suo un pensiero del papa: «In Gesù appare l’essere umano come tale. In Lui si manifesta la miseria di tutti i colpiti e rovinati. Nella sua miseria si rispecchia la disumanità del potere umano, che schiaccia cosí l’impotente. In Lui si rispecchia ciò che chiamiamo “peccato”: ciò che l’uomo diventa quando volge le spalle a Dio e prende autonomamente in mano il governo del mondo. Ma è vero anche l’altro aspetto: a Gesù non può essere tolta la sua intima dignità. Resta presente in Lui il Dio nascosto. Anche l’uomo percosso ed umiliato rimane immagine di Dio. Da quando Gesù si è lasciato percuotere, proprio i feriti e i percossi sono immagine del Dio che ha voluto soffrire per noi. Cosí nel mezzo della sua passione, Gesù è immagine di speranza: Dio sta dalla parte dei sofferenti» (J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, Libreria Vaticana, 2011).

Gesù che muore sulla croce è Dio stesso che non solo difende l’intangibilità della dignità di tutti gli oppressi, gli umiliati, i perseguitati della vita e della storia, ma glorifica di gloria divina tutti coloro che al Signore offrono la propria esistenza in modo radicale contro il peccato e nel nome della verità e della giustizia di Dio. Per questo, «in Lui, il contemporaneo», si possono riconoscere specialmente tutti coloro verso cui questa vita e questo mondo non hanno serbato alcuna pietà.


SECONDA GIORNATA (Venerdí mattina 10 febbraio 2012)

Un momento particolarmente qualificante ed entusiasmante del convegno è costituito dalla conferenza del teologo cattolico Pierangelo Sequeri su “La prossimità di Gesù e i limiti del sacro” (10 febbraio 2012). Prima di Gesù, spiega Sequeri, il sacro è separato dal mondo, dalla società; con le sue norme e i suoi valori religiosi è un mondo inaccessibile agli uomini comuni e riservato esclusivamente ai sacerdoti ovvero a coloro che al sacro si sono consacrati. Gesù invece opera contro le barriere della separazione e provoca un’irruzione del sacro nella vita di tutti e in particolare nella vita di quei peccatori anche socialmente riconoscibili come tali che precedentemente erano stati tenuti lontani dal sacro allo scopo di evitare che, con le impurità della loro vita, lo contaminassero.

Gesù esegue la sua “prossimità”, non la manda semplicemente a dire come era avvenuto in passato con la profezia: il regno di Dio è qui e ora, chi vuole lo può toccare e lo può concretamente sperimentare nel corso della sua personale esistenza. Con Gesù termina il sacro come l’altro inaccessibile; anzi, al contrario, è talmente presente che, nella sua stessa persona, può essere persino toccato. Ecco: Gesù introduce nella storia degli uomini una nuova concezione del sacro, nel senso che senza prossimità fisica non c’è veramente il sacro. La prossimità integrale di Gesù onora la prossimità di Dio agli uomini.

Tale prossimità, naturalmente, è funzionale alla liberazione degli uomini dal peccato e da ogni forma di male. Ma la prossimità di Dio nelle opere di liberazione dal male contiene in sé il suo giudizio: Dio non arriva, beninteso, nel giudizio ma nella prossimità, e tuttavia in quest’ultima è il giudizio, perché chi la respinge è senza scampo e il giudizio è o si fa irrevocabile: con Dio è la salvezza, senza o contro Dio è la perdizione, per sempre. Occorre capire bene questo punto. La prossimità di Dio sollecita apertamente alla pratica della giustizia e della giustizia evangelica: «nessuno può essere esonerato dalla pratica della giustizia, perché nessuno è separato dall’offerta della salvezza di Dio. Ecco il giudizio che l’annuncio della prossimità di Dio comporta. L’odierno indebolimento di questo nesso, presuntivamente a favore dell’amore, produce una lettura evangelica inconsciamente suggestionata da una cultura intenta a svuotare la giustizia dell’amore dal suo nesso con la verità di Dio. Lo svuotamento sentimentale del principio di prossimità, che ne consegue, esonera dalla lotta per la giustizia. La prossimità di Dio reclama conversione del cuore, mette in campo le opere del riscatto, introduce in un campo di tensione non evitabile: non è faccenda per anime belle, innamorate della propria perfezione».

Oggi la prossimità di Dio, che fa tutt’uno con l’essere contemporaneo di Dio a noi, agisce sia pure impercettibilmente anche nel quadro della secolarizzazione del mondo occidentale. E sotto la spinta di tale prossimità la comunità cristiana, certa di poter contare sul sostegno dello Spirito Santo, è chiamata ad operare il bene attraverso un conformarsi sempre più coerente alla volontà e alla giustizia stessa di Dio. In particolare, ha spiegato Sequeri, «la comunità cristiana può incalzare operosamente, custode della vulnerabilità dei singoli, la sovranità politica del nuovo impero. E’ più libera di richiamarla al doveroso rispetto dei suoi limiti e alla responsabilità etica dei suoi doveri». Il che significa che essa deve rinnovare ogni volta i suoi sforzi di congedarsi definitivamente tanto dalla sovranità politica quanto dalla sovranità del sacro: dalla prima nella misura in cui anche oggi Cesare, lo Stato, la politica o una certa politica corrente, pretendano di farsi Dio e di usurpare la giustizia divina con una giustizia umana troppo spesso basata su atti irresponsabili e fallimentari; e dalla seconda in quanto il sacro sia separato dalla vita reale degli uomini e alimenti conflitti anziché contribuire a sanarli o a risolverli non già a colpi di diplomazia e di quietismo spirituale ma sulla base di quello spirito di verità e di giustizia presente nell’insegnamento evangelico, operante in tutte le coscienze aperte alla voce e alle sollecitazioni di Dio, e capace di veicolare prossimità di Dio e prossimità dei cristiani verso tutti, senza preclusioni o esclusioni di sorta ma anche senza inclusioni ed integrazioni preconcette ed indiscriminate.

Due importanti articolazioni della prossimità di Gesù sono state il suo rapporto con i poveri e il suo rapporto con le donne. Del primo si sono occupati il professore spagnolo di Nuovo Testamento Armand Puig Tarrech, monsignor Ignazio Sanna, e la signora canadese Cariosa Kilcommons, membro della comunità dell’Arca, una comunità fondata nel 1964 da Jean Vanier in Francia allo scopo di accogliere in essa nello spirito del vangelo disabili e portatori di handicap. L’analisi di Puig Tarrech ha mosso dal concetto di elemosina, che è un precetto fondamentale della religiosità ebraica. Il credente di Israele vede nell’elemosina un modo o un mezzo per ottenere la benevolenza e la misericordia di Dio. Un testo rabbinico recita testualmente: non distogliere mai lo sguardo dal povero, cosí Dio non distoglierà mai lo sguardo da te che aiuti i poveri. Anche Gesù riconosce l’importanza salvifica di questo precetto dell’Antico Testamento. Il povero è colui che vive di elemosina, è colui che per vivere deve sempre chiedere agli uomini e soprattutto a Dio. Ma il povero non è solo colui che riceve elemosina ma anche chi fa elemosina sia pure nei limiti delle sue possibilità. Come non ricordare l’episodio evangelico della donna poverissima che dà in offerta i pochi spiccioli che possiede e che per questo viene lodata dal Signore?

La caratteristica della vera elemosina, dell’elemosina gradita a Dio, non è un mettersi la coscienza a posto, donando magari in elemosina del proprio superfluo, ma è la gratuità, l’amore, la generosità, nei confronti di chi ne necessiti, anche se si ha poco, e in primis verso Colui da cui provengono tutte le cose che siamo ed abbiamo.

Ciò detto, chi sono allora i poveri secondo Gesù, che non era né ricco né povero o troppo povero appartenendo ad un ceto sociale di posizione media? In Gesù, i poveri hanno spesso il volto dei malati, dei malati sia nel corpo che nello spirito. E, più in generale, i poveri sono i peccatori. Malati e peccatori: questi sono i poveri, quelli che soffrono di una mancanza più o meno grave. Per Gesù, i poveri sono altresí coloro che sentono in modo lacerante la loro condizione di emarginati religiosi o di “abbandonati da Dio”. Né egli può mancare di includere nei poveri i gruppi di poveri della società israelitica del suo tempo: i bambini, gli stranieri, le donne vedove. Per cui occorre precisare che poveri non sono solo i mendicanti, ma i bisognosi, tutti i veramente bisognosi senza eccezione alcuna. Il che significa che la predilezione di Dio per i poveri non è dunque una scelta pauperistica, benché la povertà materiale non volontariamente scelta ma drammaticamente subíta e patita per sé o per i propri familiari riempia di profonda compassione il cuore di Dio, ma una scelta d’amore a favore di tutti coloro che hanno realmente e oggettivamente bisogno di amore e di aiuto.

Monsignor Ignazio Sanna, da parte sua, ha rilevato che, nel corso della storia, se la povertà rimane, i poveri cambiano abbastanza spesso la loro identità. Oggi in particolare la povertà reale non è solo quella economica, ma anche quella sociale, quella professionale, quella culturale (ci sono infatti culture considerate “inferiori”). Tuttavia un dato macroscopico che può indubbiamente concorrere a spiegare le diverse forme di povertà esistenti nel mondo e, in misura crescente, nello stesso mondo occidentale, è quello che si riferisce al fatto che oggi nel nostro pianeta la ricchezza complessiva è detenuta per l’80% da ristrettissimi gruppi di persone e solo per il 20% dai due terzi dell’umanità. Ma monsignor Sanna si è preoccupato di sottolineare che comunque in Gesù non c’è un’esaltazione della povertà e un disprezzo della ricchezza, bensí un disprezzo e una condanna della ricchezza fine a se stessa, ovvero della pura accumulazione di beni, i quali ovviamente possono diventare idolatrici e prendere di fatto il posto di Dio nella coscienza degli uomini.

Forse la riflessione su quest’ultimo punto avrebbe dovuto essere concettualmente più intensa, più precisa ed articolata, dal momento che può risultare ben problematico distinguere tra una ricchezza priva di finalità umane e sociali, anche perché è molto raro ed improbabile che la ricchezza non abbia almeno nominalmente o apparentemente finalità di carattere sociale, ed una ricchezza che tale resti e tale continui ad essere per chi la possiede anche ove essa dovesse avere delle reali finalità umane e sociali. Occorre sempre ricordare che al Signore è gradito non tanto chi dà in offerta togliendo dal suo superfluo ma chi fa opera di carità privandosi talvolta persino di ciò che gli è necessario o di ciò che in ogni caso non ecceda il piano delle sue oggettive necessità esistenziali.

Resta tuttavia per Sanna l’opzione preferenziale della Chiesa per i poveri e questo significa che per la Chiesa la solidarietà per i poveri è la prima, non l’unica, delle forme di solidarietà verso i poveri stessi. Anzi, ha precisato il teologo cattolico, non è sufficiente «essere solidali con i poveri divenendo la loro voce», perché «bisogna far sí che i poveri stessi abbiano voce». Il Signore non ascolta i poveri attraverso i loro portavoce, li ascolta direttamente, cosí come il suo amore universale non è indifferenziato ma, ha concluso il teologo cattolico, pur essendo o proprio essendo universale, ha delle priorità: al primo posto sono i poveri reali, ovvero coloro che sono privi di averi ma anche gli offesi, gli umiliati, i maltrattati.

Molto toccante è stato poi l’intervento della canadese, signora Cariosa Kilcommons, che ha opportunamente precisato che i poveri sono anche i disabili, i disabili di ogni genere, i soggetti affetti da deficit fisici e/o psichici di qualsivoglia natura. Dinanzi a loro, ella ha detto, c’è spesso la nostra tentazione di non vedere e di fuggire dalla loro angoscia. L’impatto quasi sempre negativo che abbiamo nel dover avere a che fare occasionalmente o, ancor di più, quotidianamente con dei disabili, è un evidente sintomo che ci sentiamo impreparati ad affrontare situazioni che richiedono una forza di volontà, una carica affettiva, una energia mentale che noi evidentemente non possediamo. Qui non si allude tanto a manifeste e deprecabili forme di egoismo pure abbondantemente presenti tra noi tutti ma proprio all’incapacità di molti di noi di fare verso i disabili quel che pure tante volte vorremmo sinceramente fare e che tuttavia non riusciamo a fare a causa della nostra interiore fragilità, delle nostre intime debolezze, della nostra inadeguatezza spirituale. Ecco: dinanzi al disabile con cui dovremmo vivere e che dovremmo aiutare a vivere, scopriamo, spesso sconvolti, la nostra personale povertà, il fatto cioè che i primi ad essere poveri siamo noi in prima persona, noi che non abbiamo la forza di fare tutto quel che pure si vorrebbe fare: il bene, la carità, sempre e comunque.

Solo se stiamo con Gesù, se lo preghiamo ininterrottamente, se ci accostiamo frequentemente alla santissima eucaristia, se invochiamo l’aiuto dello Spirito Santo, possiamo stare il più possibile, pur con i nostri limiti e le nostre insufficienze, pur con la dolorosa consapevolezza di essi e con la nostra spirituale povertà, vicino ai disabili, per assisterli e avere con loro, con i malati mentali, con gli autistici, con i paraplegici e via dicendo, una comunanza d’amore. Forse non sino al punto di consentire loro di superare la loro malattia ma di metterli almeno in condizione di fare qualcosa insieme a noi, di sperare, di vivere.

Il rapporto di Gesù con le donne è stato invece il tema specifico di cui hanno discusso la storica Emma Fattorini, la regista Liliana Cavani e monsignor Ermenegildo Manicardi. Intanto, la moderatrice professoressa Paola Ricci Sindoni ha premesso che Gesù con le donne ha un rapporto speciale: intorno a lui si trovano sempre molte donne (Giovanna, Susanna, la moglie di un rabbí, la Maddalena, oltre che naturalmente la propria madre), anche se questo, contrariamente a quanto ancora sostiene una tradizionale linea di pensiero, non sembra in contrasto o in discontinuità con la cultura ebraica, essendo molte le donne ebree che studiano la Torà e che seguono i rabbí, tanto è vero che Gesù da questo punto di vista non venne mai calunniato e proprio a ragione del fatto che la presenza di donne accanto ai rabbini era una prassi abbastanza diffusa di quel tempo. In tal senso, dunque, tra la cultura religiosa ebraica e Gesù non c’è discontinuità o rottura che invece vengono via via amplificandosi in rapporto all’universo dottrinale ebraico e alla posizione critica da Gesù per l’appunto assunta verso di esso.

C’è tuttavia una differenza rispetto alla tradizione e alla cultura ebraiche: essa consiste nella relazione intersoggettiva che solo Gesù, diversamente dagli altri rabbini, instaura con le donne. I suoi sono incontri di prossimità: la distanza certo è sentita dalle donne perché esse sanno di trovarsi al cospetto di un essere “superiore” e divino, ma è Gesù che non fa assolutamente nulla per rimarcare e far pesare tale sua indubbia superiorità rispetto a donne e a uomini. Gesù parla con le donne, presentandosi naturalmente nella sua identità ma senza ostentare distanza (vedi la Maddalena o la Samaritana), facendosi riconoscere e abbracciando indistintamente chiunque abbia fede in lui (per esempio la Cananea) al di là di ogni categorizzazione ed ogni distinzione religiosa o pseudoreligiosa. Il suo è l’atteggiamento di un uomo-dio che opera oltre le differenze e le prescrizioni dottrinali. La sua non è semplicemente una prossimità religiosa e teologica, vuotamente “spirituale”, ma una prossimità esistenziale, una prossimità carnale, si può dire, nel senso di un rapporto umano fondato su una effettiva condivisione e compartecipazione con tutti, e in questo caso specifico con le donne, di pensieri, di sentimenti, di aspettative concrete di amore e di liberazione.

Quanto alla Cavani, ha presentato un bel documentario sulle Clarisse di Santa Chiara in Urbino. Le suore clarisse in una conversazione semplice e spontanea parlano della loro vita in convento, del significato che esso ha per ognuna di loro, della loro vocazione, non risparmiando talvolta qualche garbata critica al mondo esterno e al rapporto con il clero maschile. Il centro di ogni loro attività è la preghiera che “permette di stare davanti a Lui”. Ma proprio questo loro estremo raccoglimento spirituale, questo rimanere appartate dal mondo, esse dicono, non vengono capiti, a volte da parte degli stessi sacerdoti che si recano in convento solo per dire messa o per tenere corsi teologici, senza mai mostrare vero interesse ad instaurare con loro un dialogo. Una suora commenta: «come se non potessero ricevere “un dono” anche da noi o attraverso noi». Eppure, osserva un’altra, le suore sono testimoni di Gesù al pari di tutti gli altri e degli stessi sacerdoti e sono lí non solo per ricevere ma anche per dare, per offrire in termini di ricchezza spirituale e non solo materiale (si pensi ai prodotti pure utilissimi del loro lavoro).

Le suore studiano, capiscono il mondo, si scambiano opinioni. Nei Convegni e negli incontri spirituali non sono tenute in conto, non vengono interpellate dalla Chiesa. Ma poi, aggiungono soddisfatte, che la vera vita spirituale non ha bisogno di convegni, non ha bisogno di parole, perché la loro arma vincente è la preghiera, anche se il mondo, a volte lo stesso mondo religioso cattolico, non tiene in conto la potenza della preghiera, vigendo in esso piuttosto la “non contabilità” della preghiera, ritenuta inferiore persino ad una semplice azione di operatività quotidiana. Ecco: il contributo di Cavani è in questa sua testimonianza artistico-culturale che dà uno spaccato davvero interessante e suggestivo della complessa realtà spirituale della Chiesa e dello speciale rapporto con Dio che alcune donne consacrate e votate ad una vita di penitenza e di nascondimento sanno mirabilmente coltivare.

La storica Fattorini ha invece sottolineato per prima cosa la delicatezza del documentario realizzato da Cavani, in cui, ha rilevato, si vedono scene semplici ed autentiche di vita religiosa ordinaria, scene in cui quelle suore contemplative esprimono la loro fede in modo del tutto naturale e cosí naturale da rendere eccezionale la loro pur normale quotidianità, nel corso della quale si interrogano con intensa ma serena meditazione sulle grandi questioni (vita, morte , fede, resurrezione).

Poi, passando ad esplicitare il rapporto di Gesù con le donne, ha notato che in tale rapporto non ci sia né superiorità, né inferiorità delle donne, bensí parità radicale, benché qui sia quasi superfluo precisare che le donne al seguito di Gesù sanno bene come egli non sia una persona qualunque, ma il Messia, il Salvatore, il Liberatore, per cui evidentemente non possono non sentirsi largamente inferiori a Gesù: esse, come tutti gli esseri umani, non stanno semplicemente accanto a Gesù, stanno al seguito di Gesù, dietro Gesù, per parlare ma principalmente per ascoltare e apprendere, e in lui non cercano soltanto amicizia, complicità, sostegno umano, o un interlocutore sia pure sensibilissimo, ma anche e soprattutto la fonte stessa dell’amore nella sua massima e più genuina profondità, il depositario assoluto e unico della verità delle loro stesse vite, il medico infallibile di tutte le loro malattie.

Ciò non toglie che Fattorini abbia avuto ragione nell’affermare che con Gesù si attui una svolta antropologica e non una lotta ideologica e che in lui l’amore conosce un radicale salto di qualità rispetto ai comuni standards dell’amore stesso, per cui in un’ottica comportamentale e spirituale come la sua sparisce ogni artificiosa e strumentale differenza e ogni grossolana o sottile discriminazione tra donne e uomini.

Infine, monsignor Manicardi, riprendendo il concetto della Fattorini, della donna cioè come primitiva e strutturale relazionalità (in quanto ella accoglie e dà ad un tempo), ha rilevato che Gesù è capace di porre la donna in uno stato di totale libertà psicologica e spirituale, di valorizzarne pienamente ogni qualità umana ed intellettuale, di riconoscere senza alcuna remora non solo l’utilità ma l’indispensabilità della sua presenza e della sua funzione in un quadro esistenziale e storico di carattere generale, a cominciare dalla madre Maria chiamata addirittura a proteggere maternamente la sua Chiesa e l’intera umanità.

Gesù ridisegna il ruolo delle donne nella famiglia come nella società: toglie all’uomo la possibilità del ripudio della propria moglie ed è significativo che alcuni discepoli si ribellino ritenendo che allora convenga non sposarsi; respinge una concezione strumentale e tipicamente maschilista come quella per cui la donna venga concepita come semplice strumento di piacere e come oggetto designato di possesso maschile (a chi gli chiede di chi sarà moglie in paradiso quella donna che aveva avuto sette mariti nella vita terrena, Gesù risponde che non sarà proprio di nessuno, proprio a voler sottolineare che il progetto originario di Dio era stato quello di tenere liberi dal peso di istinti e passioni tutte le sue creature); dà una nuova lettura della sessualità ritenendo che essa abbia la sua funzione in questa vita ma non una funzione cosí assoluta e necessaria da costringere uomini e donne a non potervi serenamente e coraggiosamente rinunciare per il perseguimento di scopi esclusivamente spirituali; non condanna ma difende ed assolve l’adultera, spostando la colpa (che è in lei, tanto che le dice: non “va e non preoccuparti” ma “va e non peccare più”) su tutta una comunità ipocrita e peccatrice (“chi è senza peccato, scagli la prima pietra), ammonendo implicitamente tutti a liberarsi dai peccati senza scaricarli sugli altri; guarisce una donna di sabato chiamandola “figlia di Abramo”, là dove questo appellativo era riservato solo agli uomini, riconoscendola dunque diretta discendente da Abramo e non tramite l’uomo; e poi ancora non solo perdona di cuore ma ama profondamente le donne (si pensi alla Maddalena), elogia le donne e specialmente le donne umili e coraggiose come quella povera vedova (economicamente molto povera) che offre in elemosina i pochi spiccioli che possiede.

Questo è Gesù con le donne e per le donne, per la dignità e la libertà della loro esistenza. Certo, si osserva talvolta che alle donne egli non abbia assegnato particolari ministeri, ministeri per cosí dire “istituzionali”, di servizio certamente ma in qualche modo anche di comando, come peraltro la storia si sarebbe incaricata di dimostrare ampiamente. Poche volte però si è moralmente capaci di osservare e di ammettere che, in tal modo, il Signore ha probabilmente inteso fare della donna un fondamentale e preziosissimo contrappeso alla prepotenza e all’arroganza maschile, alla tracotanza e alla violenza del potere maschile, affidandole piuttosto il compito di custodire le divine virtù dell’amore e della giustizia tra gli uomini che non quello di esercitare un potere puramente mondano e materiale che tende a cancellare ogni regola morale e ogni vincolo spirituale all’interno della umana e civile convivenza.

Ciò non significa che le donne non debbano assumere anche ruoli di potere, ma significa che Dio ha riservato loro un compito ben più importante: quello di generare, conservare, perpetuare vita in ogni sua forma e in ogni suo ambito, secondo i disegni divini e non secondo il volere degli uomini. Egli ha voluto che Maria fosse Madre della Chiesa e dell’umanità perché nessuno più efficacemente della madre avrebbe potuto pregarlo di restare vicino all’umanità e di non abbandonarla alle forze irrazionali che in essa e contro essa inevitabilmente si sarebbero scatenate. Ecco: anche alle altre donne, mutatis mutandis, il Signore ha forse inteso affidare non tanto un servizio nell’esercizio del potere ma un potere nell’esercizio del servizio.

Sembra pertanto possibile affermare, ha detto monsignor Manicardi, che in Gesù non c’è alcun paternalismo femminista, dal momento che il suo atteggiamento verso le donne è di grande apertura, trasparenza e profondità e, anche, di assoluta lealtà; tanto che forse si potrebbe parlare, al contrario, di un suo femminismo spontaneo, ove questa espressione non venga ovviamente equivocata in modo grossolano. D’altra parte, ed è significativo, gli stessi «discepoli sono stupiti dallo stile di Gesu' con le donne», senza che però egli ne resti minimamente condizionato. Questo rapporto cosí limpido e fecondo di Gesù con le donne non deriva qui semplicemente dalla teologia della creazione (il racconto di Genesi come racconto delle finalità particolari e generali della creazione di Dio), ma da “un intuito delicato”, dalla capacità intuitiva di Gesù di cogliere i tratti e le qualità peculiari di ogni donna: si pensi alla «particolare capacità di amare nel caso della peccatrice», alla «sincerità senza artifici nel caso della samaritana», ad una «intelligenza capace di incrinare la staticità di vecchie categorie di pensiero nel caso della cananea».

Gesù, ha concluso Manicardi, ha visto realmente e teneramente con gli occhi, con la mente e con il cuore, le donne, a cominciare dalla madre, percependone veramente le ricchezze più intime come ricchezze non certo inferiori a quelle dei maschi e sollecitando dunque concretamente una piena esplicazione della specifica e originale interiorità femminile.


SECONDA GIORNATA (Venerdí pomeriggio 10 febbraio 2012)

Il pomeriggio della seconda giornata di convegno si è aperta con una intensa relazione del teologo Piero Coda su “La cena e la croce”, relazione che già al suo inizio fissa esemplarmente la contemporaneità di Gesù: «La contemporaneità di Gesù non è un’idea. E neppure un’aspirazione. E’ un fatto, tangibile: qualcosa, qualcuno, che – nella sua sconvolgente e silente alterità – si vede, si tocca, si mangia. L’Eucaristia. Discorrere intorno alla contemporaneità di Gesù, e intorno al significato e alla provocazione che ne vengono per noi, non raggiunge il “dunque” sin quando non ci s’impatta con lui nell’Eucaristia. E’ cosí, nell’Eucaristia, che Gesù autoattesta e rende attiva ed efficace la sua contemporaneità a noi. Non solo attraverso l’eco vivente della sua Parola, ma nella sostanzialità del Pane e del Vino. “Questo è il mio corpo…questo è il mio sangue”. Stanno qui la grazia e il “nocciolo duro” dell’esperienza cristiana». L’Eucaristia è quindi il tramite più importante della contemporaneità di Cristo.

Quella celebre cena eucaristica si pone in funzione della croce, dell’immolazione di sé alla volontà del Padre, cosí come la croce presuppone la cena come permanente presenza di Dio nella vita degli uomini. La croce senza la cena sarebbe priva «del senso sostanziale che la rende contemporanea oggi, qui, per noi. Quel senso che si dispiega tra la cena di Gesù con gli apostoli nel cenacolo, prima della pasqua, e la cena dei discepoli ad Emmaus – paradigmatica di ogni altra Eucaristia –, dopo la pasqua». Ma anche la cena senza la croce, senza l’implicito rinvio alla croce, non sarebbe la cena di Dio con l’umanità, la cena con cui Dio sancisce una nuova alleanza salvifica con l’umanità e a favore dell’umanità, bensí una semplice cena, una cena come tante di pura e gradevole convivialità ma priva di quel valore salvifico che ne costituisce invece il tratto peculiare ed inconfondibile. La cena è già ringraziamento, lode, gloria al Padre per l’amore salvifico verso l’umanità che egli viene tangibilmente manifestando nella storia per mezzo del Figlio unigenito o meglio per mezzo dell’estremo sacrificio del Figlio unigenito, e la croce, ovvero la passione, la rinuncia e la donazione totale sino appunto all’estremo sacrificio di sé, è la concretizzazione esistenziale di quel rendere grazie e lode, l’unico modo coerente di celebrare realisticamente nella vita e con la vita stesse l’Eucaristia della cena, e quindi il Signore e la presenza salvifica del Signore nella vita di noi tutti. Per questo la cena e la croce né sono antitetici né possono essere assorbiti l’uno nell’altro, ma vanno piuttosto sapientemente coniugati.

Quanto alla relazione, seguita a quella di Coda, su “La potenza e la gloria del sacrificio” del filosofo Jean-Luc Marion, accademico della Sorbona di Parigi, bisogna dire che essa è parsa animata da un virtuosismo ermeneutico esasperatamente teoreticistico, spesso avviluppato su passaggi concettuali pressoché inintellegibili o oscuri (che non significa affatto che, per ciò stesso, siano invece “rigorosi” e “profondi”), che non ha trovato né forse poteva trovare il consenso del pur colto pubblico presente. La sostanza di quanto detto da Marion è che, come aveva dichiarato precedentemente in un’intervista rilasciata al giornale cattolico ”Avvenire”, «il sacrificio della croce risiede nel fatto che in Cristo l’umanità riconosce di provenire dal Padre e che vi ritornerà». Il sacrificarsi a Dio e per Dio significa dunque riconoscere nella volontà di Dio la legge stessa della nostra vita e il vero motore di ogni nostro atto di benevolenza e di amore verso il prossimo, ma questa capacità di porre il nostro io, nella memoria e nella pratica del sacrificio di Cristo, al servizio di Dio e al servizio degli esseri umani, sia pure compatibilmente con i nostri limiti e le nostre insufficienze che tendono costantemente a riprodursi anche se energicamente contrastati dalla nostra coscienza e dalla nostra volontà, produce in realtà una potenza spirituale che ci consente da una parte di avvicinarci in misura più o meno grande ma pur sempre significativa al Padre, e dall’altra di elevare forse impercettibilmente ma sensibilmente la qualità della nostra e della altrui condizione umana.

Il sacrificio cristiano, nell’ampia gamma delle sue espressioni salvifiche, è potente perché solo esso può glorificare il Signore e rendere partecipe della stessa gloria divina chi se ne fa artefice, solo attraverso esso l’umanità può essere redenta e riportata in quello scenario di gloriosa immortalità in cui Dio l’aveva originariamente collocata e a cui essa resta tuttavia predestinata. Ed è glorioso perché solo per mezzo di esso si rende massimamente gloria a Dio e l’umanità può fiduciosamente ascendere verso un destino di gloria e di eterna felicità.

Il pomeriggio di venerdì 10 febbraio, nella sala san Pio X, si è svolta pure un’interessante conversazione sul tema “Gesù e il dolore degli uomini” con monsignor Rino Fisichella, il dottor Manfred Lütz e il giornalista Tony Capuozzo il quale ultimo però, per incombenti limiti di tempo, ha potuto parlare solo per pochi minuti. Sia la relazione di Fisichella, sia quella di Lütz, sono state volte a valorizzare il dolore e la sofferenza in una società contemporanea che tende a considerarli sempre più anacronistici e da rimuovere e ripudiare quanto più possibile dalla nostra vita. Per entrambi la nostra contemporaneità è spesso in rivolta contro ogni genere di sofferenza umana, specialmente contro quella legata al dolore fisico e psichico, e contro il cosiddetto “dolorismo cristiano”, il cui significato sarebbe quello di una sorta di apologia che del dolore verrebbe facendo appunto la religione cristiana e cattolica. Entrambi, di contro, hanno rilevato che l’accettazione del dolore è la premessa ineliminabile della fede cristiana e il presupposto di ogni veritiero percorso redentivo.

Come si può credere in Cristo senza credere nella funzione purificatrice e redentiva del dolore? Come si può credere in Cristo senza credere che Cristo è venuto a liberarci dal dolore provocato dal peccato ma non ripudiando il dolore bensí facendosene carico e assumendo su di sé tutti i peccati e tutte le sofferenze dell’umanità? Gesù ha patito ogni genere di dolore: fisico, psicologico, morale, esistenziale, spirituale. Anche prima di salire sulla croce, prima che il suo corpo venisse deturpato e straziato dalla malvagità dei suoi carnefici (non solo le guardie, ma i sommi sacerdoti e buona parte dello stesso popolo di Israele), Gesù aveva conosciuto spesso una «miscela di dolore, rabbia, tristezza, incredulità», in particolare in occasione del tradimento di Giuda, ha osservato Fisichella, che poi ha cosí proseguito paragonando certe odierne esperienze anche giovanili all’esperienza stessa di Cristo: «nell’amicizia e soprattutto nell’amore la richiesta di fedeltà è a fondamento del rapporto interpersonale. Il tradimento giunge improvviso, inaspettato e fa crollare il sentimento che si provava per l’altro. Si sperimenta di conseguenza sfiducia, disorientamento e senso di una violenza subita tanto da annullare il proprio io, soprattutto quando il tradimento avviene nell’ambito dell’amore. Crolla cosí la certezza nell’amicizia e nell’amore, la vita si riempie di dubbio e di sospetto, impedendo la serenità di un nuovo rapporto interpersonale. Anche questa esperienza non è stata risparmiata al Figlio di Dio». Solo che il Figlio di Dio «davanti al tradimento…reagisce offrendo un amore ancora più grande…Senza nulla togliere alla libertà personale, Gesù tende la mano a Giuda offrendogli il boccone più prelibato del pasto pasquale come segno di un amore che non merita quanto egli ha in cuore di fare». Anzi, Giuda non solo lo tradisce ma vorrebbe coprire il tradimento persino con un bacio: «il bacio nel giardino degli ulivi è l’impronta dell’ipocrisia e del cinismo come risposta all’offerta di amore».

Ed è qui che «la tristezza di Gesù raggiunge il suo culmine; l’evangelista, di fatto, dice testualmente che era “tristissimo” e lo mostra tale anche prima nel suo andare e venire dagli apostoli, nel chiedere loro di non addormentarsi, di vegliare in preghiera…Gesù è solo davanti al momento decisivo della sua vita, impietrito dal dolore e sconvolto fino a sudare sangue; insomma, in uno stato di sofferenza che lascia ammutoliti. E come se questo tradimento non bastasse, a Gesù viene riservato anche quello di Pietro».

Ma Gesù ha la lucidità e la forza spirituali di non pensare minimamente che tutte queste sofferenze siano volute dal Padre celeste o che si sarebbero potute evitare con un comportamento più duttile, meno rigoroso, meno intransigente e meno esposto alla violenza e alla vendetta del potere religioso costituito, all’incomprensione e al venale fanatismo di chi pure gli era stato vicino, e infine alla  furia popolare. Gesù sa che non si può ritornare al Padre senza soffrire (senza soffrire a causa del peccato e senza soffrire a causa di una necessaria e costosa lotta contro il peccato e contro le sofferenze da esso prodotte), sa di essere venuto per liberare l’umanità dal dolore e dal male non attraverso una liberazione messianica spettacolare e indolore ma attraverso il sacrificio della croce, sebbene tale sua consapevolezza, bisogna ben evidenziare anche questo punto, non coincida affatto in Gesù con una spasmodica esaltazione della sofferenza e del dolore, con una sorta di accettazione mistica del dolore in quanto tale, persino della sofferenza fine a se stessa, al limite dell’autolesionismo, perché al contrario è ben noto che Gesù tenesse in grande considerazione le sofferenze, le privazioni, le malattie di uomini e donne, e che facesse di tutto per guarire, per ridare salute e benessere fisico e psichico, per portare sollievo ai sofferenti e ai disperati.

E, del resto, è oltremodo significativo il fatto che la corporeità o carnalità di Cristo (gli occhi, le mani, i piedi, il costato, il nutrimento anche dopo la resurrezione quando volle mangiare un pesce per convincere i discepoli che era proprio lui in carne ed ossa e non un fantasma, e infine il cadavere) sia costantemente evidenziata nel racconto evangelico sia prima che dopo la scena della resurrezione come ha ben osservato il cardinale Ravasi in una conversazione su "Le rappresentazioni del corpo di Gesù" (giovedì 9 febbraio 2012), sempre nel quadro del convegno.

Da questo punto di vista, forse, ma è più una domanda che una critica, nel citare una mistica del XIV secolo come Giuliana di Norwich che non solo percepiva la sofferenza come naturale ed inevitabile tratto dell’umana esistenza ma che addirittura la invocava come una sorta di volontaria necessità spirituale e di panacea esistenziale (“anche se non fosse più necessario soffrire, se potessi ancora soffrire io vorrei soffrire ugualmente”, pare che più o meno dicesse), monsignor Fisichella non ha fatto un esempio pertinente o comunque tale da poter fungere da valido sostegno alla concezione cristiana e cattolica del dolore e della sofferenza medesimi. Né dolore, né sofferenza, sono castighi inflitti da Dio, ma sono stati prodotti dall’“invidia” di qualcuno che si contrappone radicalmente a Dio, anche se Dio talvolta può "castigare" a fin di bene proprio coloro "che ama", come si legge in un libro dell'Antico Testamento e in Apocalisse 3, 19-20 "Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo", e può sempre trarre dal dolore e dalle sofferenze dell’uomo un bene più grande per l’uomo stesso. Peraltro, la benedizione divina scende copiosa su chi offre radicalmente la sua vita tra rinunce e privazioni per servire Dio e gli uomini nel miglior modo possibile.

Non c’è, d’altra parte, né dolore né sofferenza umana contro cui non si possa e non si debba cristianamente lottare con gli strumenti della scienza, della medicina, della cultura e della politica, purché il loro uso sia in linea con i santi comandamenti di Dio e compatibile tanto con i fondamentali insegnamenti della Chiesa quanto con elementari princípi etico-civili. Ciò precisato, è senz’altro vero che il dolore non meriti di essere maledetto dagli uomini perché esso è alla base di ogni reale conversione spirituale a Dio e di ogni processo storico finalizzato al miglioramento della condizione umana. Cristo è nostro contemporaneo: non solo nella resurrezione ma anche e innanzitutto nella croce che è inevitabile e necessario portare e patire umilmente per arrivarci.

Il dottor Lütz, psichiatra e teologo, ha ben a ragione lamentato che salvezza e redenzione ormai non sono più attese nell’al di là, ma qui ed ora. La vita eterna, ha detto, si aspetta non più dalla fede ma dalla medicina. Questa è quella che viene chiamata “la religione della salute”. E il suo fondamentalismo è rappresentato dall’etica del guarire a tutti i costi. Peraltro, ha affermato Lütz, «mentre il cristianesimo, l’ebraismo, e l’islam hanno sempre anche un impeto sociale, la religione della salute è totalmente egoista…è completamente disinteressata a ciò che concerne il sociale». Ma le «conseguenze etiche di questo nuovo movimento quasi religioso e sovranazionale sono, però, più gravi», perché se «la salute rappresenta il valore massimo, allora l’uomo sano è anche il vero uomo. E se qualcuno non è sano, e soprattutto, se non può ritornare sano, allora diventa tacitamente un uomo di seconda o terza classe».

Per questa via è poi inevitabile che finisca per diventare parola d’ordine un’espressione come “il diritto ad una buona morte” (eutanasia) o che, si pensi alla Germania, siano «sufficienti malformazioni banali come la schisi labiale, per essere uccisi con un’iniezione di potassio al cuore poco prima della nascita, e addirittura nel canale del parto, nel quadro di una “indicazione medica” ampiamente accettata. Tale omicidio in Germania non è né illegale, né punibile, ma anzi regolarmente pagato dalle mutue». Ovviamente queste «mostruosità sono praticabili in una società solo se è stata creata l’atmosfera adatta» e quest’atmosfera è determinata per l’appunto dalla “religione della salute”. Ciò non toglie che, dal punto di vista cristiano, la salute del corpo sia un valore molto importante. Bisogna preoccuparsi di curare il corpo, di curarsi fisicamente e psichicamente: è assolutamente legittimo e doveroso. A condizione però di capire che la psicoterapia, ad esempio, nel momento in cui cerca di alleviare le sofferenze psichiche del malato, non mostra anche «la via per la salvezza»: in realtà non esiste alcuna terapia clinica capace di «costruire il rapporto con Dio», non esiste alcuna tecnica sanitaria capace di garantire all’individuo “la salvezza”. Da un corretto punto di vista cristiano e cattolico, la salvezza «non si trova primariamente nella cosiddetta buona salute, ma piuttosto in situazioni limite dell’umana esistenza, che dalla religione della salute vengono disprezzate in quanto da evitare o come deficit da eliminare. Proprio nell’handicap, nella malattia, nel dolore, nella vecchiaia, nel morire e nella morte si può percepire la verità della vita in modo più chiaro e definito rispetto allo scorrere del tempo senza disturbi importanti».

Purtroppo, questa contemporanea “religione della salute” «induce gli uomini a perdere se stessi nella lotta contro la morte. Ci sono uomini che vivono, per cosí dire, preventivamente per arrivare sani alla morte. Si potrebbe dire che gli uomini, per evitare la morte, si prendono la vita, cioè l’irripetibile tempo di vita e quando, poi, sul letto di morte accade l’inevitabile – che hanno cercato di evitare con ogni possibile accortezza riguardo alla salute – si chiederanno se forse non avrebbero dovuto trascorrere un po’ più di tempo con la moglie, con i figli, con gli amici anziché in palestra, oppure se non avrebbero potuto fare qualcosa per gli altri».


TERZA GIORNATA (sabato mattina 11 febbraio 2012)

Infine, al centro dei lavori della terza giornata di convegno (mattina dell’11 febbraio 2012), sono stati posti i temi fondamentali dell’escatologia cristiana e della risurrezione. Ne hanno trattato il teologo anglicano Nicholas Thomas Wright (“Cristo è risorto dai morti. Primizia di coloro che sono morti”), Henning Ottmann (“Storia, coscienza, escatologia”), docente di filosofia politica nell’Università di Monaco di Baviera, mentre al cardinale Camillo Ruini è toccato di concludere il convegno.

Se muoviamo dal presupposto che tutte le promesse di Gesù sono vere e valgono in ogni epoca e quindi anche nella nostra epoca, non c’è dubbio, ha esordito Wright, che nessun cristiano può dubitare del fatto che egli ci sia contemporaneo. Cristo è con noi; al tempo stesso, però, «sta di fronte a noi, è diverso». E’ sempre davanti a noi, mentre noi restiamo sempre indietro e facciamo fatica a tenere il suo passo. Di più: la risurrezione non può essere ridotta ad un evento tanto rassicurante quanto semplicistico come il considerare Gesù risorto «“un contemporaneo” nel senso di un amico accanto a noi, una presenza sorridente e confortante. Poiché è risorto dai morti, egli è il Signore del mondo, sovrano di tutto il cosmo, colui di fronte al quale noi pieghiamo le ginocchia, credendo che alla fine ogni creatura arriverà a fare lo stesso».

Purtroppo, lamenta l’ecclesiastico inglese, la risurrezione ancora oggi è un’idea derisa o molto trascurata nel quadro del pubblico dibattito, ma ancor più grave è che nella stessa Chiesa essa venga troppo spesso accantonata o addomesticata, quasi che tale idea non rinviasse più ad un possibile evento imminente ma ad un’eventualità assai remota e ad un accadimento ancora molto di là da venire. Ma, in realtà, a seconda che si creda o non si creda realmente ed intimamente nel fatto che Gesù sia risorto dal suo stato oggettivo di morte, le cose cambiano profondamente. Se Gesù non è risorto, l’esistenza e l’opera della Chiesa non hanno alcun senso, neppure un senso morale, civile, spirituale, perché la specificità e l’unica forza propulsiva di ogni sua attività morale, civile, spirituale, risiedono proprio nella assoluta e sempre contemporanea certezza che Cristo sia risorto. Se Gesù è risorto, invece, sarebbe semplicemente folle «andare avanti come se niente fosse», come se egli non avesse veramente «inaugurato il Regno di Dio sulla terra come nel cielo», come se egli non fosse stato veramente il Messia, il Salvatore che la storia degli uomini da sempre aspettava, come se in lui non si fosse effettivamente compiuta la storia d’Israele e insieme la storia di Dio stesso, come se l’umanità potesse continuare a vivere come si vive quando ci si senta certi che al termine della vita o della storia, qualunque cosa si sia pensata e fatta, non succeda nulla, o meglio che succeda proprio questo: di essere divorati dal nulla.

Se togliamo o rimuoviamo non tanto dalla nostra mente e dal nostro pensare quanto dal nostro cuore e dal nostro sentire di cristiani la certezza della risurrezione di Cristo, la certezza del fatto che il corpo risorto di Cristo è sí un corpo spirituale, ma nel preciso senso paolino di corpo non già composto di spirito bensí di corpo animato dallo spirito di Dio; se togliamo dunque la certezza che Cristo è risorto davvero in senso corporeo anche se la corporeità del risorto sia evidentemente di diversa qualità rispetto a quella della precedente corporeità terrena (“una fisicità trasformata”, è l’espressione usata da Wright), a noi non resta altro che il non senso della nostra vita, la disperazione, la morte, quale che dovesse essere la qualità morale e spirituale delle nostre personali esistenze.

Peraltro, da un punto di vista storico, non è affatto dimostrabile la spesso pretesa inattendibilità dei racconti evangelici. Dopo secoli e secoli di esegesi e di ricerca storica, non sussistono ancora valide ragioni che inducano a ritenere storicamente inattendibili i vangeli. Essi sono un documento storico tra documenti storici, un documento che al pari degli altri va certo vagliato, compreso, interpretato, ma di cui non può disconoscersi la storicità perché quelli che lo hanno redatto furono osservatori, testimoni diretti o indiretti, divulgatori seri e obiettivi di fatti riferiti come realmente accaduti o personalmente sperimentati, insomma storici; narratori che avranno indubbiamente espresso un loro soggettivo punto di vista nella selezione e nella interpretazione dei fatti narrati (si pensi a qualcosa come gli “idealtipi” weberiani) come del resto ogni storico fa, ma che non per questo possono essere tacciati di disonestà e inaffidabilità. Il cristiano di oggi è per definizione colui che non ha dubbi circa la storicità, l’oggettività, l’attendibilità sostanziali di quanto trasmessoci dagli evangelisti.

C’è troppa autoreferenzialità in questo ragionamento? Non lo crediamo, ma anche se cosí fosse, pazienza! Non è che in ragionamenti diversi da questo o a questo opposti, ci sia meno autoreferenzialità, anche se, come ha notato giustamente Wright, la chiesa, in una situazione umana e storica particolarmente drammatica, non nasce «come istituzione,…come gruppo sicuro e autoreferenziale, ma precisamente come un branco di gente sorpresa che viene a patti con qualcosa di molto più grande di quanto avesse osato o voluto immaginare. La Chiesa è nata mentre Maria Maddalena, Pietro e Giovanni correvano avanti e indietro nella penombra, titubanti tra lacrime e domande. La Chiesa è nata nel momento in cui i due discepoli di Emmaus hanno riconosciuto lo straniero allo spezzare il pane. La Chiesa è nata quando l’angelo ha detto ai seguaci di Gesù di affrettarsi in Galilea, perché Gesù si stava già recando lí. La Chiesa è nata quando egli ha aperto la loro mente all’intelligenza delle scritture. E tutto questo è a servizio della missione del Regno. Nella Risurrezione è accaduto qualcosa, a causa di cui Gesù è ora il contemporaneo che interpella non solo i suoi primi seguaci, ma il mondo intero. Egli ancora ci precede e dobbiamo affrettarci per raggiungerlo».

Il professor Henning Ottmann ha trattato dell’“escatologia nel mondo secolarizzato”. Che cosa sarà dell’umanità, quale sarà il futuro dell’umanità, sarà un futuro di pace e di giustizia o piuttosto di distruzione e di morte? Da queste domande muove l’analisi del filosofo politico tedesco. E la risposta cristiana a tali domande è che, qualunque cosa succeda, la storia avrà una fine e avrà, anzi ha già un fine. Questa concezione cristiana del tempo e della storia ha finito poi per trasferirsi nella cultura moderna degli ultimi secoli anche se in forma secolarizzata. Però, ha sostenuto Ottmann, «le escatologie secolarizzate sono anche figlie degeneri della storia della salvezza. Al posto di Dio esse pongono l’uomo. L’uomo, non Dio, deve essere il Signore della storia. Le potenze e le forze intramondane divengono la Provvidenza, con cui Dio guida la storia. Per Francesco Bacone, e molti dopo di lui, sono la scienza naturale e la tecnica. Sono esse, come dice Bacone, che conducono l’uomo in paradiso…In Kant è l’“intenzione della natura” la grande forza mondana, che spinge l’uomo alla cultura e a una pace perpetua. In Hegel la storia viene guidata da uno “spirito universale” che conduce popoli e individui, contro la loro intenzione, al “progresso nella coscienza della libertà”. In Marx sono le forze produttive il motore della storia», e cosí  via.

Forse questa è una rappresentazione un po’ semplificata e ingenerosa della cultura filosofica e scientifica moderna, perché è molto dubbio che quest’ultima sia sempre stata portatrice di una concezione del progresso cosí lineare e indefinita e di una fede cosí rigida e incrollabile nel progresso stesso o per converso di una fede religiosa cosí tiepida o assente come quelle che le attribuisce lo studioso tedesco. Ma, al di là delle differenze intercorrenti secondo Ottmann tra la concezione cristiana della storia e le sue forme secolarizzate, il punto di approdo della sua analisi consiste nel seguente giudizio: nella «concezione secolarizzata della storia non c’è posto per una risurrezione dei morti. Non c’è posto per una riparazione delle vittime. Ciò che è accaduto è accaduto. Ciò che è stato è irreparabile, perduto per sempre».

Solo se esiste un altro mondo, i torti di questo mondo potranno essere riparati. Nonostante i nostri sforzi di ricordare, di commemorare «le vittime della storia,…quanti uomini sono stati dimenticati, quanti popoli sono stati eliminati dalla storia, come se non fossero mai esistiti? Soltanto se esiste uno spirito che ricorda tutto (uno spirito divino), può essere possibile la giustizia. Soltanto se esiste il giorno del giudizio, nel quale tutto si fa chiaro, solo allora potrà darsi la giustizia. Diversamente questo mondo rimarrebbe la misura ultima, e in questo mondo può essere che il guardiano del campo di concentramento trionfi sulla sua vittima».

Nella storia degli uomini non vi è nulla di certo, di stabile, di definitivo: gli stessi «giudizi delle Corti Supreme e le decisioni sovrane degli Stati si rivelano temporanee e modificabili». Ecco, queste obiezioni, ha affermato Ottmann, non possono essere rivolte alla concezione cristiana della storia. Essa non sa cosa succederà esattamente nella storia, quando verrà la sua fine e quale siano i tratti non generici (il Regno di Dio) ma specifici (le concrete modalità e le precise articolazioni del Regno di Dio) del fine ultimo che in essa verrà conseguendosi. Il cristiano non sa, non conosce queste cose, ci crede per mezzo di una fede fondata sulla parola di Cristo. Per lui, per effetto della sua fede, «è Dio il Signore della storia, e questa fede preserva l’uomo dalla pretesa eccessiva di essere responsabile del fine e della fine della storia» e dalla pretesa eccessiva di poter tradurre l’escatologia religiosa in prassi politiche definitivamente vincenti e risolutive.

La politica, ha evidenziato il relatore tedesco, «intesa in senso cristiano, può essere sempre e soltanto l’arte della regolazione delle cose penultime, mentre alla religione spetta ciò che è ultimo. Quando la religione si occupa di ciò che è ultimo, essa può in tal modo sgravare lo Stato; può sgravarlo dal peso di doversi occupare delle cose ultime, dal pericolo di rinchiudersi ideologicamente in se stesso. Vista cosí, la religione è una difesa contro l’ideologia e il totalitarismo. Per lo stato moderno essa è una “garanzia di liberalità” (Lübbe). La distinzione fra ultimo e penultimo, fra assoluto e relativo, fra definitivo e temporaneo, apre proprio al cristiano l’ampio campo di una politica pragmatica. Dal momento che in questo mondo non si ha a che fare con questioni ultime, il cristiano può essere pacato e tollerante; non deve attendersi la salvezza dalla politica e non è costretto a vedere nella storia il tribunale del mondo».

L’ultima parola, l’ultimo giudizio, la giustizia finale su qualunque pensiero, su qualunque atto, su tutto ciò che ognuno di noi sarà stato ed avrà fatto o cercato di fare nel corso della sua vita, non è nelle nostre mani, ma nelle mani di Dio. Anche di questo il cristiano deve farsi testimone.

Infine, senza pretendere di fare una sintesi delle diverse posizioni espresse o emerse durante il convegno, il cardinale Ruini ha concluso il convegno con alcune riflessioni molto significative. Se la contemporaneità di Gesù a noi e ad ogni altra generazione storica che verrà dopo di noi fosse legata esclusivamente al “salto” kierkegaardiano della fede che supera la distanza temporale che ci separa da lui, rischieremmo di evadere dalla storia, «mentre il cuore della nostra fede sta proprio nell’entrata di Dio nella storia». Non bisogna né evadere dalla storia, né «sottovalutare la concretezza della distanza storica», sapendo e credendo però che la concretissima storia di Gesù nella Palestina di oltre due millenni or sono apre orizzonti di eternità. Inoltre, non bisogna sottovalutare l’azione svolta dallo Spirito Santo nella storia al fine di consentire una comprensione sempre più profonda e precisa, sempre “contemporanea”, del messaggio evangelico di Gesù. E, in vero, un «aspetto che è rimasto un po’ in ombra nell’evento (convegno) è proprio il ruolo esercitato dallo Spirito Santo».

Molte le forme della “contemporaneità” di Gesù che sono emerse nel convegno. Si può qui ricordare quella di cui, per l’insufficienza dei dati da noi acquisiti, non abbiamo potuto render conto in queste pagine, ovvero quella emersa nella conversazione sui giovani e Gesù, nel corso della quale è venuta delineandosi anche una domanda: «questa grande presenza di Gesù ha il futuro assicurato, qui in Italia e in Occidente, o invece i giovani, pur amandolo e ammirandolo per tanti aspetti, stanno perdendo la fede in lui, in concreto stanno abituandosi a vivere a prescindere dal Gesù vivo e reale, sostituendolo magari con un Gesù immaginario, fabbricato da una cattiva letteratura o costruito sulla misura dei nostri gusti»? Una risposta precisa e univoca a questa domanda non si può dare. Però è certo che ogni credente oggi ha un compito, che è il medesimo che ebbero tutti i membri della comunità cristiana delle origini. E questo compito si identifica con la parola “missione”.

E’ vero: «in ogni epoca la Chiesa ha generato grandi missionari», ma oggi è probabile che non basti più «che alcuni membri della Chiesa vivano la loro fede come missione, in paesi lontani o qui da noi. Gesù rimarrà sempre nostro contemporaneo, perché vive con noi e per noi nell’eterno presente di Dio. Affinché però anche noi viviamo da suoi contemporanei, con lui e per lui, mi sembra necessario», ha concluso Ruini, «che oggi la missione ritorni ad essere quello che è stata all’inizio: una scelta di vita che coinvolga l’intera comunità cristiana e ciascuno dei suoi membri, ciascuno naturalmente secondo le condizioni concrete della sua esistenza».