Maria tra vangelo e immaginazione

Scritto da Francesco di Maria on . Postato in I miei scritti mariani

 

Come si evince dal vangelo giovanneo, secondo cui vi «sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21, 25), pur conoscendo abbastanza di Gesù attraverso i vangeli, di lui certamente non conosciamo tutto e, in particolare, tutto ciò che riguarda la parte più profonda e riservata della sua intimità personale. Sappiamo infatti, alla luce dei vangeli, che egli, profondamente meditativo ed interamente dedito alla preghiera e all’annuncio della salvezza, era interprete e testimone rigoroso e fedele della Parola di Dio, era “mite e umile di cuore”, era dotato di una grande capacità di ascolto e di dialogo come di una forte e talvolta veemente intransigenza spirituale sulle supreme e decisive verità della fede, era portato a coltivare rapporti molto amichevoli con chiunque gli si avvicinasse con sincerità di cuore e di mente e rapporti affettivi molto intensi con chiunque si mostrasse realmente disposto a seguirne e a metterne in pratica gli insegnamenti, era gioioso con chi lecitamente gioiva e commosso o triste con chi obiettivamente avesse ogni motivo per rattristarsi e profondamente turbato sino al pianto per situazioni umane particolarmente toccanti o per l’umana incapacità di accogliere Dio nella propria esistenza.

Ma che cosa avvertisse esattamente ed intensivamente da un punto di vista psicologico ogni volta che il Padre celeste lo metteva in condizione di intuire o presagire o prevedere quel che concretamente stesse per accadere e quali fossero gli specifici stati d’animo in cui veniva a trovarsi ogni volta che entrava sensibilmente in contatto con Lui (e quindi con la vista e con l’udito oltre che con lo spirito e la mente), questo noi non lo conosciamo. E, in un certo senso, lo stesso ragionamento vale per tutti i personaggi delle narrazioni evangeliche, dei quali conosciamo tante cose ma di cui abbiamo un’idea solo parziale e approssimativa per quanto concerne la specifica qualità del loro “vissuto personale”, le concrete articolazioni del loro carattere e del loro temperamento, le loro più intime necessità o debolezze psichiche e morali, gli stessi effetti psicologici ed esistenziali prodotti nell’animo di ognuno di essi dalla predicazione di Cristo.

A maggior ragione per la madre di Gesù, che è uno dei personaggi meno citati e meno in vista nei vangeli, pur potendone attingere dati altamente significativi sulla sua identità umana, spirituale e religiosa, viene spontaneo chiedersi talvolta quali fossero la particolare capacità di dilatazione della sua affettività e della sua emotività, la stessa densità emotiva e spirituale del suo percepire la divinità, i più segreti colloqui della sua anima con se stessa e con Dio. Può capitare di chiedersi per esempio se Maria di Nazaret, quando da bambina e prima dell’annunciazione veniva imparando ad accogliere nel suo cuore Dio e il Dio dei poveri, degli umili, degli oppressi, di cui parlavano le sacre scritture, desiderasse e chiedesse in preghiera di poter sentire ben oltre ogni simbolismo e sensazione mistica la voce di Dio o di un suo angelo, di entrare in contatto anche sul piano fisico-sensoriale con l’Eterno, di poter percepire realisticamente il sovrannaturale come momento integrante e costitutivo della propria vita terrena. La sua personalità rispecchiava quello che era il modello di femminilità nella tradizione ebraica, secondo il quale «la donna sa tenersi in prossimità dell’invisibile Voce» (B. Forte, Maria di Nazaret, vergine, madre e sposa, discorso rivolto al clero della diocesi di Chieti, 11 maggio 2010), oppure se ne discostava originalmente proprio nel desiderare e nell’implorare, come solo una bambina ingenua e bisognosa d’amore può fare, di poter sentire la visibile Voce di Dio?   

La spiritualità di Myriam era simile alla canonica e rituale seppur sincera ed intensa spiritualità di una qualunque altra giovane ebrea credente o si spingeva sino alla innocente quanto inaudita richiesta di una improvvisa e sorprendente irruzione pratica di Dio nella sua stessa esistenza? Maria era predisposta da sempre a sentire Dio cosí vicino alla vita degli uomini da reclamarne con umilissima forza spirituale persino la concreta e corporea presenza già in questa vita terrena e nella sua stessa vita personale? Ella voleva essere “la serva” di un Dio reale ma percepito solo spiritualmente o di un Dio anche Persona, di un Dio anche dotato di una fisionomia ben precisa e riconoscibile, di un Dio anche carnale e suscettibile di essere sensibilmente e sia pure potenzialmente riconosciuto da tutti come quell’Essere onnipotente infinitamente lontano capace di convertirsi in un Essere onnipotente infinitamente vicino?  

Se Maria fu sempre cosí sollecita e premurosa nell’adempiere i suoi compiti religiosi e poi i compiti stessi che le sarebbero stati affidati da Dio-Cristo, dalla visibile Voce di Dio, non è forse perché era cosí piena di Spirito Santo e di amore divino da non poter trattenere o limitare in nessun modo «l’incontenibile bisogno di amare, per corrispondere all’amore ricevuto al di là di ogni misura con l’amore donato senza riserve e senza condizioni» (Ivi)? Ci si deve chiedere se lo stile della nostra vita religiosa sia o non sia ancora molto lontano dallo stile della vita religiosa di Maria, se il nostro modo di pensare e di pregare, se il nostro modo di agire e di portare conforto al prossimo, sia imbevuto della stessa presenza divina, o almeno di una significativa parte di tale presenza, di cui era imbevuta Maria o se piuttosto non sia religiosamente carico del semplice pensiero di Dio, di uno spirito divino tanto invocato con le labbra quanto poco sperimentato nella emotività e nella sensibilità che accompagna gli atti della nostra quotidianità, di un amore divino più postulato e meccanicamente reclamato che palpabilmente avvertito nella fisicità stessa del nostro vivere e sentito come motivazione non remota e flebile ma immediata e potente del nostro impegno cristiano.

La fede mariana era ed è una fede cosí semplice e sentita, cosí naturale e immediata, cosí fresca e diretta, cosí tenera e profonda, cosí umana e confidenziale, da costringere quasi il Signore a manifestarsi in carne e ossa, ovvero compiutamente in Cristo, per dimostrare di non essere “un fantasma” o una semplice illusione dello spirito umano ma una Persona reale, concreta, che può essere sentita, vista, toccata, totalmente sperimentata da uomini e donne come l’unica Persona che realisticamente ci salva con la oggettiva potenza della sua giustizia e della sua misericordia. Per ciò stesso, la fede mariana, ovvero la fede simile a quella di Maria e la fede in Maria, è una fede che genera un amore tenero, non un amore interessato o finalizzato ad ottenere benefici personali, né un amore volto a creare dipendenze e distanze tra persone, ma un amore non solo disinteressato ma mosso unicamente dal bisogno di essere silenziosamente utili agli altri procurando serenità e gioia negli altri.

Ma la fede mariana non implica un progredire lineare e trionfalistico in Dio e verso Dio, bensí un fidarsi di Dio pur nell’incomprensibile e spesso intollerabile notte di una vita segnata dal dolore, dal dramma, dal lutto, dalla disperazione e dalla morte. Maria, per quanto innamorata di Dio, per quanto fiduciosa nel potere divino di redenzione e liberazione dal male e dalla morte, non è affatto, per sua stessa esperienza personale, insensibile o indifferente alle travagliate e complesse vicende materiali e spirituali degli uomini, le cui incertezze e i cui dubbi invece comprende perfettamente e al cui fianco si pone come instancabile dispensatrice di sani consigli e sante consolazioni. Ella diventa regina del cielo perché capace di restare integralmente donna di questa terra, perché capace di amare Dio amando persino le realtà umane più lontane da Dio.

Come possiamo immaginare che si sentisse se non profondamente prostrata ed impaurita quando, con il figlio appena nato tra le braccia e con Giuseppe al suo fianco, dovette fuggire in Egitto per sfuggire al piano omicida di Erode? Come possiamo non immaginare che rimanesse stupita e perplessa, pur sapendo che il figlio era il figlio stesso dell’Altissimo, quando nel tempio il piccolo Gesù, con un lieve tono di rimprovero, dice a lei e a Giuseppe di non preoccuparsi troppo per lui dal momento che già sanno come egli debba “occuparsi delle cose del Padre suo”? E come non immaginarla profondamente addolorata, seppur consapevole del significato spirituale e pedagogico-escatologico delle affermazioni talvolta apparentemente paradossali di Gesù, per quell’espressione usata davanti a tutti dal figlio: “Chi è mia madre”?   

Come invece non immaginarla profondamente felice, come donna come madre e come credente, quando, pur venendo a sapere indirettamente dalle parole di Gesù durante un matrimonio che ella aveva anticipato la sua ora e verosimilmente l’ora della passione e del calvario (giacché già il vecchio Simeone un giorno l’aveva avvertita profeticamente che il destino del figlio e il suo stesso destino personale non avrebbero avuto nulla di glorioso e di trionfale), si vede esaudita da Gesù stesso il quale si lascia strappare da lei una grazia che un attimo prima che gli fosse chiesta non aveva pensato minimamente di concedere? E infine non è lecito immaginare che Maria avverta ad un tempo un senso di dolore e di consolazione nel momento in cui, ai piedi della croce, si sente assegnare dal figlio il titolo di madre dell’intera umanità? Come dire: “Figlio mio, proprio mentre sto perdendo il mio unico e amatissimo figlio, tu mi dici che devo essere madre di altri, madre di tutti, persino di quelli che ti hanno ridotto e continueranno a ridurti in queste condizioni, persino di gente senza coscienza e senza scrupoli. Va bene: sono pronta ancora una volta ad obbedirti, anche perché questo è il tuo ultimo desiderio; cercherò di abituarmi ad essere amata da tutti coloro che avranno bisogno di una guida o di una protezione materna e ad amare tutti equanimemente come tu mi hai insegnato a fare. Amerò e mi lascerò amare ma solo per l’amore che mi lega a te, che io porto alla tua umana e divina persona”.

Ecco: questa è la nostra regina celeste, regina celeste perché già regina terrena nel nome e per conto di Dio. Una immaginazione religiosa non patologica ma sana e profondamente radicata nei racconti evangelici, e da essi ispirata, non rende Maria più povera ma umanamente e spiritualmente più ricca e più preziosa agli occhi di Dio e agli occhi degli uomini. Non la rende retoricamente venerabile ma logicamente venerabile perché sia divinamente sia umanamente amabile e sublime.