Gesù: rivoluzionario o no?

Scritto da Francesco di Maria.

 

La figura di Cristo non incarna “teologie politiche e rivoluzionarie”. Gesù non legittimò mai la violenza come mezzo di attuazione del Regno di Dio in terra, lottò contro una politicizzazione della fede e contro una strumentalizzazione della religione a fini violenti, non mise in pericolo con il suo comportamento e il suo messaggio il dominio romano. Egli non venne con la spada del rivoluzionario e il suo gesto “violento” contro i mercanti del tempio non è quello del rivoluzionario politico ma è “una tipica azione profetica”, per cui «è impossibile interpretare Gesù come un violento», laddove «la violenza è contraria al Regno di Dio, è uno strumento dell’anticristo». Lo zelo del Figlio di Dio per la casa del Padre lo porta a pagare di persona ed è ben diverso dallo zelo religioso degli zeloti e dei rivoluzionari di tutti i tempi che vorrebbero attuare il Regno di Dio con pratiche violente. Gesù, d’altra parte, separando la fede dalla politica intende sottolineare che la fede non implica contestazioni violente e distruttive del potere costituito ma implica la rinuncia a qualsiasi “potere esteriore”, la liberazione interiore dalla tentazione del potere e in definitiva l’accettazione della croce. Questo è quanto ha ribadito il papa Benedetto XVI nell’Angelus di domenica 11 marzo 2012.

Se ci fosse consentito di interloquire con lui in una pubblica assemblea, come pubbliche erano le assemblee in cui i primi cristiani prendevano liberamente la parola confrontandosi apertamente anche con le loro guide e i loro pastori, gli manifesteremmo rispettosamente sia il nostro accordo sia il nostro disaccordo: atto del tutto legittimo perché non concernente in tal caso uno specifico articolo di fede ma il significato complessivo dell’opera e dell’insegnamento del nostro unico e comune Maestro. E’ evidente che Gesù non è un violento nel senso corrente e nel significato generico o usuale della parola: egli non ama affatto i violenti e tutti i violenti, ovvero quelli che usano la forza fisica per raggiungere i loro scopi leciti o illeciti ma anche quelli che usano la violenza morale della menzogna, del raggiro, della prepotenza e dell’arroganza; egli non ama né la violenza illegittima di Stato (che è da distinguere rispetto alle forme coattive legittime di potere di cui può avvalersi uno Stato come lo stesso stato imperiale romano) perché Cesare non può fare tutto quel che gli pare (per esempio prendere il posto di Dio), né la violenza eversiva degli zeloti e dei vari terroristi che agiscono nelle diverse epoche storiche. Ed è altrettanto evidente che il Regno di Dio, pur soffrendo o patendo violenza secondo quanto recita Mt 11,12, non è fondato su atti di violenza né è perseguibile attraverso politiche violente e disumanizzanti. Anzi, è forse opportuno ricordare l’interpretazione che del passo evangelico cui qui si è alluso diede Giovanni Paolo II: «A volte», egli disse in una sua omelia dell’11 dicembre 1986, «per convertirsi l’uomo deve risvegliare in sé quel “violento”, di cui parla Cristo; “il violento” che agisce quasi contro se stesso – contro la cupidigia, contro la superbia di questa vita, contro il peccato – ha il coraggio di “conquistare” il regno di Dio; di riaverlo nel proprio animo, di conquistarlo di nuovo».

Dunque, proprio da questo commento di Giovanni Paolo II viene chiaramente evincendosi che non c’è solo una violenza bruta o brutale ma c’è anche una santa violenza da cui il credente non deve rifuggire ma che deve anzi frequentare e praticare perché è una violenza spirituale volta a contrastare ogni forma di peccato che è in noi, ivi compresa naturalmente una certa mollezza spirituale, il disinteresse o un interesse solo apparente ed ipocrita per il destino dei sofferenti e degli oppressi, l’incapacità di gridare e mobilitarsi “profeticamente” contro le molteplici iniquità del mondo per ragioni di quieto vivere o di tornaconto anche personale, l’inattitudine a proferire con chiarezza cristallina e inequivocabile quell’evangelico “sí, sí, no, no” tutte le volte che bisogna far sentire ai poveri una vicinanza compromettente cioè non retorica ma materiale psicologica e morale e tutte le volte che bisogna invece evangelicamente ricordare a ricchi e potenti la faccia severa e minacciosa delle beatitudini, ovvero quel “guai a voi” (Lc 6, 20-26) rivolto loro da nostro Signore.

E’ il caso di precisare che, quando Gesù dice “guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione” e dice che coloro che oggi sono sazi avranno fame e che coloro che ridono saranno afflitti e piangeranno, egli, contrariamente a certe riduttive interpretazioni cattoliche, non proferisce semplici parole di commiserazione (come dire: voi ricchi sí che siete dei poveracci, non i poveri che sono invece beati!) ma parole durissime di condanna e di minaccia. 

La Chiesa ha due compiti: uno è certamente quello magisteriale di preservare nella sua autenticità la dottrina di Cristo e fare esegesi teologica, ma l’altro e non meno importante è quello pastorale di fare tremare i polsi, come Cristo li faceva tremare, a tutti coloro che, limitandosi a vivere di buone intenzioni e a mettersi la coscienza a posto con qualche beneficienza o donazione occasionale e magari anche interessata, sono in realtà chiusi a riccio nei propri interessi egoistici e particolari e in una condizione spirituale che disconosce sostanzialmente i valori della carità e della giustizia. La Chiesa, in quanto magistero, ha il dovere di ascoltare Cristo, non questa o quella interpretazione presente nella sua pur venerabile tradizione circa il significato della parola di Cristo, e ha il dovere di turbare le menti e scuotere anche violentemente la coscienza non solo sui temi importantissimi e delicati ma relativamente scontati e inoffensivi della vita e della morte, del matrimonio e del divorzio, della procreazione e dell’aborto, della necessaria distinzione tra i sessi e del ripudio di pratiche omosessuali, e via dicendo, ma anche e con pari energia sui temi per certi aspetti molto più scomodi e irritanti della ricchezza e della povertà, del potere e della giustizia, dei privilegi sociali ed economici e dei diritti umani e civili in tutta la loro gamma.

Né la Chiesa può accontentarsi di denunciare la povertà dei paesi poveri, le anomalie dei mercati e della finanza pubblica, la mancanza di gratuità e solidarietà dal punto di vista sociale invocandone l’attuazione come presunto benefico rimedio. Non basta, evangelicamente non basta, perché essa è evangelicamente chiamata a demistificare, a denunciare con forza ogni genere di imbroglio, a non compromettersi con i poteri costituiti del mondo, a non accettare di essere rispettata o riverita a parole da politici che manifestamente non abbiano né compreso né fatta propria la radicalità evangelica anche sul piano economico e sociale, a parlare sempre con candore di colomba e con circospezione di serpente senza temere di vedere incrinato il suo prestigio o la sua influenza sulla scena mondana. La Chiesa deve predicare, insegnare, educare, spronare, ammonire, ma nello stesso spirito profetico ed escatologico radicale che fu alla base della vita e dell’insegnamento di Cristo.

Il Cristo non era un rivoluzionario perché «non volle ribellarsi alla legge dei padri, né a quella dei padroni romani e perché il suo obiettivo fu quello di andare oltre la legge verso una nuova idea di comunità che sia fondata sulla giustizia universale, la buona volontà e l’amore reciproco» (B. Ferrero, Gesù non era un rivoluzionario ma è venuto per “compiere” la Legge, in “L’Occidentale” del 12 aprile 2009). Certo, è cosí, ma non nel senso che allora la legge dei padri per Gesù fosse perfetta e non andasse cambiata o che la pesante sudditanza di milioni di persone rispetto al potere romano fosse legittima e da perpetuare o che, più in generale, gli uomini debbano subire le ingiustizie del mondo senza mai far nulla per abolirle o attenuarle. Gesù non può essere mistificato sino a questo punto e la Chiesa deve prestare molta attenzione a non lasciarsi strumentalizzare né dai teologi della rivoluzionedai più numerosi e occulti teologi della conservazione e della reazione. Essa dovrà essere capace di chiarire che Gesù non fu né un rivoluzionario comunista né un teorico del profitto o delle “riforme strutturali” capitalistiche, né un collettivista né un liberista, né un violento né un molle pacifista, né uno spirito armato né “un profeta disarmato”.

E questo perché, per l’appunto, egli non fu semplicemente rivoluzionario o un rivoluzionario, ma il rivoluzionario e l’unico rivoluzionario della storia umana, oltre ogni possibilità di categorizzazione culturale e politica. Pensate: Gesù è colui che è venuto a salvarci non solo da ogni potere e da ogni sopruso ma persino dalla morte! Si può essere più rivoluzionari? Pur non impugnando “la spada del rivoluzionario”, egli non è venuto a portare la pace in questo mondo ma la spada (Mt 10, 34), ovvero il conflitto e la divisione: la pace di Cristo non si costruisce infatti senza conflitti ma è essa stessa causa di conflitti in ogni ambito della vita e della stessa vita spirituale degli uomini. Se gli uomini, se la stessa Chiesa non attualizzano continuamente nella propria memoria e nella propria coscienza questo concetto, il loro impegno spirituale morale civile, per quanto grande, è destinato a fallire.

Gesù è il rivoluzionario per eccellenza perché mette a soqquadro persino le certezze mistiche dei “santi”, facendo esperienza di tutto ciò che è elementarmente umano: condivide l’esperienza umana sino in fondo, sa cosa sia la fatica e il disagio quotidiano, il lavoro e le sofferenze della sua gente; prova sentimenti di compassione verso le folle che lo seguono, verso il lebbroso emarginato o la vedova che perde il suo unico figlio; piange quando presagisce la rovina di Gerusalemme o dinanzi alla tomba di Lazzaro; non è neutrale ma prende posizione e difende nobilmente i suoi discepoli dal potere militare che voleva insidiarli; è mite e paziente ma si indigna e non nasconde la sua amarezza di fronte a chi è duro di cuore e si rifiuta di credere persino in presenza di opere prodigiose.

Gesù non ha pregiudizi e anzi infrange ogni genere di pregiudizi, smascherando la brama di potere di onori e privilegi, l’avidità delle ricchezze, l’egoismo e l’autosufficienza, la faziosità e il settarismo, e capovolgendo la scala dei valori: il Regno dei cieli non è monopolio di nessun privilegiato perché in esso, al contrario, molti di quelli che in terra erano ultimi saranno primi (C. Perer, Gesù: identikit di un rivoluzionario, in “Rivista di teologia morale”, n. 159, 2008, pp. 431-435). Gesù non ama i sacerdoti, ovvero i consacrati a Dio, più di quanto ami i pagani e i profani, anzi è per quest’ultimi il suo più profondo interessamento, cosí come il suo amore smisurato raggiunge più e prima i lebbrosi, i folli e i disperati, i malati e i deboli, che non i più titolati custodi del Tempio. E anzi non esita, complici proprio quest’ultimi, a cacciare i mercanti laici o religiosi dal Tempio stesso.   

Bisogna capire che Gesù non è diplomaticamente equidistante da tutti, dal momento che egli chiama al banchetto non persone autorevoli e influenti ma poveri, storpi, ciechi e zoppi, cioè tutte quelle categorie di persone che sia per gli esseni sia per i farisei dovevano essere proscritte dalle comunità. Gesù, che si distingue dallo stesso Giovanni Battista in quanto offre la salvezza ancor prima che i peccatori si pentano e si convertano, è molto critico verso una religiosità teatrale o esteriore (Mt 6,16) e, incurante di ogni possibile critica perbenista o ipocrita, va a cena persino con peccatori conclamati (Mt 11, 18-19).

Dunque: Gesù non fu un rivoluzionario nel senso che non esercitò un impegno politico diretto e violento, ma fu forse un asceta, un soggetto che rifiutasse radicalmente il mondo e la storia degli uomini optando per un isolamento, un esodo, un’emigrazione dal mondo, come quelli coltivati o perseguiti dai farisei e soprattutto dagli esseni i quali odiavano i peccatori? Certo che no, come è dimostrato dal fatto che egli non abbia vissuto nel deserto se non episodicamente e per specifiche necessità spirituali e sia stato invece partecipe di un’attività pubblica molto intensa, a diretto contatto con tutti e in particolare con peccatori e persone ritenute impure dalla religiosità israelitica.

Gesù non fu un rivoluzionario nel senso eversivo del termine e tuttavia egli non fu affatto ossequioso né verso le autorità politiche né soprattutto verso le autorità religiose e sacerdotali costituite, perché sapeva bene come esse fossero costantemente minacciate dal pericolo dell’orgoglio religioso e dell’autosufficienza teologica e spirituale. E’ vero d’altra parte che Gesù esortasse i suoi discepoli a servire più che a comandare ma, anche in questo caso, non fissò alcun ordine gerarchico da rispettare in quanto a tutti indistintamente chiese di obbedire solo alla volontà del Padre celeste. Per Gesù gli ordini gerarchici tradizionali non hanno alcuna legittimità tanto che chi vuole essere primo deve non solo definirsi e sentirsi soggettivamente ultimo ma anche e soprattutto comportarsi oggettivamente e coerentemente da ultimo. E ciò non è forse rivoluzionario?

Non è che Gesù neghi l’impegno con cui farisei e sacerdoti, i pii o i giusti dunque, cercano di ottemperare alla volontà di Dio, non è che egli sottovaluti quindi la loro generosità, i loro digiuni, le loro pratiche cultuali, ma egli sa anche che proprio queste categorie di persone rischiano più di altre categorie umane di rimanere lontane da Dio e di non prendere sul serio per sé la possibilità di peccare proprio a causa del fatto che si sentono particolarmente vicini a Dio e da lui privilegiate. Sono gli uomini pii, gli uomini religiosi e di Chiesa, piuttosto che i pubblicani disonesti, i ladri, gli impuri, i peccatori, quelli che incontrano maggiori difficoltà a convertirsi, per il semplice motivo che, essendosi consacrati ufficialmente a Dio, finiscono col tempo per avvertire sempre meno il bisogno di convertirsi. Non è forse un caso che a mandare a morte Gesù siano stati proprio i sacerdoti, convinti in tal modo di rendere un buon servizio a Dio. Ma tutto ciò ha ancora una volta a che fare con un modo convenzionale o con un modo rivoluzionario di pensare e ragionare?

Gesù, a ben vedere, fu vicino a tutti e lontano da tutti ad un tempo: vicino ai sacerdoti senza essere come loro perché di loro più profetico e santo, vicino agli asceti ma diverso da loro perché molto meno separato di loro dall’amore per gli altri, vicino ai farisei ma non ipocrita e superbo come loro, vicino ai rivoluzionari ma più coerente ed onesto di loro. Gesù fu un rivoluzionario originale, fu un rivoluzionario unico e inimitabile, fu il rivoluzionario per antonomasia per essere stato capace di liberare l’umanità non da questa o quella schiavitù economica, sociale, politica, morale e culturale, ma dalla morte, che è la schiavitù più terribile e insormontabile cui è sottoposta la vita di ognuno di noi e dell’intero genere umano. 

Ma lo spirito rivoluzionario di Gesù può essere individuato anche nel fatto che egli non chiese mai a nessuno e agli stessi pagani di cambiare la propria religione o le proprie convinzioni ma solo di provare a mettere in discussione la propria mentalità, la propria vita, i propri valori e i propri obiettivi, e anche nel fatto che Gesù fu sempre apertamente schierato, e senza alcun particolare accorgimento diplomatico, con i pubblicani, le prostitute, i poveri, i lebbrosi, i malati, i samaritani e persino con i tanto temuti nemici romani da lui non di rado ritenuti degni di considerazione e meritevoli di essere confortati. Ad una religione giudaica essenzialmente legalista e segnata da una normatività giuridica molto dettagliata e minuziosa oltre che da un’infinità di divieti, ad una religiosità giudaica oltremodo formalista e repressiva, Gesù contrappose una religiosità semplice ed immediata, la religiosità del cuore e dell’amore incondizionato persino verso i propri nemici.

Sarà anche vero quel che è stato scritto: «Gesù non era un rivoluzionario, non faceva politica e nemmeno sindacato o lotta di classe. Finalmente il Papa ha liquidato un’insopportabile retorica in vigore dal tempo del Concilio Vaticano II, con il suo sciame di preti agitatori e politicanti, parroci d’assalto come pretori divini, predicatori di un Cristo che somiglia troppo a Che Guevara. Quante volte avete sentito dire che Cristo è stato il primo rivoluzionario della storia, un sessantottino ante litteram, un pacifista, anzi un comunista sdentato che aggrediva il mondo non a morsi ma a rimorsi. E quanti preti si sono considerati compagni di lotta e di denuncia, più che pastori di anime. Benedetto XVI nel suo nuovo libro dedicato a Gesù restituisce Dio all’eternità e non lo costringe nella prigione del tempo; riporta la resurrezione di Cristo alla vita eterna e non la riduce a riscatto sociale. Il Gesù di Ratzinger non fa politica e distingue la religione dall’escatologia rivoluzionaria. Non confonde l’incarnazione con la militanza e libera la vita dalle utopie dei paradisi in terra, di chi vorrebbe imporre agli uomini, nel nome di Dio o di un suo supplente, una verità storica assoluta. Così il Papa separa il messaggio cristiano da due tipi di fanatismi: quello teocratico, che in nome di Dio decide sulla vita e la morte altrui, e quello ideologico che nel nome di una divinità storica - il Progresso, la Rivoluzione, l’Umanità - , si arroga il diritto di parlare e agire nel nome del Bene e condanna il proprio nemico come agente del Male» (M. Veneziani, Gesù non gioca nella squadra dei rivoluzionari, in “Il Giornale” del 13 marzo 2011). E tuttavia, la parola di Cristo-Dio è la parola che libera da ogni forma di violenza: fisica, sessuale, psicologica, economica, politica, culturale, religiosa. Come definire se non rivoluzionaria una parola cosí potente e cosí vincente persino sugli stessi processi naturali e biologici della vita umana che hanno il loro culmine nella morte?

Se non dobbiamo avere paura delle parole, la parola “rivoluzionario” è tra quelle che meglio possono qualificare l’opera salvifica di Cristo. Cristo rompe con gli schemi mentali abitudinari degli uomini, con i loro pregiudizi, con un uso sterile della loro intelligenza e un uso dogmatico della loro razionalità, con modelli di comportamento fondati sulla discriminazione e sul rifiuto di chi è diverso da noi, con idee preconcette e spesso ipocrite di moralità e di bene comune o comunitario, con rappresentazioni arbitrarie o superficiali della divinità, con paradigmi alquanto logori o ristretti di affettività e spiritualità, con forme di culto e di religiosità piuttosto meccaniche e ripetitive: tutto questo non è eminentemente rivoluzionario?

Manca, certo, un’idea esplicita di sovvertimento violento in rapporto a strutture politiche, economiche e sociali manifestamente inique, anche perché Gesù sa bene che un nuovo sistema politico ed economico-sociale alla lunga non si rivela necessariamente migliore di quello precedente e che il problema centrale rimane quello di trasformare le coscienze prima ed oltre che le strutture materiali. Ma se il potere coercitivo di Cesare è legittimo  secondo la stessa legislazione divina sino a quando non vengono da lui violati i santi princípi posti da Dio a base della vita umana (come una convivenza civile ordinata e disciplinata da leggi, il rispetto di determinati diritti individuali tra cui quello di formarsi liberamente una famiglia e di difenderla con mezzi adeguati e giuridicamente riconosciuti da minacce o interferenze esterne o quello di professare in modo altrettanto libero la propria fede, l’intolleranza giuridica verso qualunque tipo di violenza pubblica o privata, la necessità di provvedere anche ad una difesa militare del proprio territorio e della propria nazione da possibili aggressioni esterne), si può ragionevolmente pensare che Cristo ritenga illegittimo l’uso della forza da parte del popolo o di determinati gruppi sociali e persino di singoli individui al fine di difendere la vita stessa di persone innocenti o inermi che vengano ferocemente perseguitati, torturati o spogliati di tutto, da un dispotico e spietato potere statuale?

Dobbiamo sforzarci di capire bene che cosa o quale sia veramente la violenza da ripudiare evangelicamente, quale sia la specificità negativa e realmente aberrante della violenza, perché abbiamo visto (con il commento di Giovanni Paolo II) che si danno anche forme sane e salutari di violenza; e dobbiamo cercare anche di distinguere tra violenza difensiva e violenza offensiva, ricordandoci peraltro che Gesù dice di porgere l’altra guancia ma non di lasciarsi massacrare senza battere ciglio. E’ ormai tempo che la comunità cattolica prenda rigorosamente ed onestamente atto che le parole di Cristo, ivi comprese quelle relative al perdono e all’amore verso i nemici, non sono mai mosse da uno spirito di normalizzazione, da un intento mistificatorio o da semplice irragionevolezza. E’ Gesù che ci ha ammonito a stare bene attenti al modo in cui noi avremmo ascoltato e recepito i suoi insegnamenti: con essi non si può giocare, né si può far finta di non capire.

Machiavelli potè ironizzare sul presunto irrealismo del cristianesimo solo perché la sua frequentazione dei classici e dei pensatori politici era verosimilmente più intensa e appassionata di quella con cui cercò di ascoltare e comprendere la parola evangelica, ma Gesù non è un astratto predicatore o un fumoso utopista e, solo per dirne una, i vangeli non sembrano giustificare l’uso politico della violenza quando lo Stato pretenda tributi non dovuti e anzi manifestamente contrari alle leggi di Dio. Nei vangeli non si esclude che in nome di tali leggi si possa opporre resistenza ad un potere politico iniquo né si fa menzione di un pronunciamento di Gesù sulle forme in cui tale resistenza possa o debba esercitarsi nello specifico caso in cui fra i tributi richiesti dallo stato ci sia anche il brutale asservimento di un popolo o di una comunità oppure un gratuito annientamento fisico e morale di vite inermi. Il consiglio di porgere l’altra guancia, che è da intendere come esortazione non alla resa ma a non indietreggiare e ad avere coraggio di fronte alla violenza gratuita, è verosimilmente rivolto a chi sappia perfettamente di potersi e doversi immolare da solo per il bene altrui (di amici e nemici) senza opporre resistenza, ma non a chiunque si trovi ad essere responsabile della difesa e della sopravvivenza di altre vite e di vite assolutamente incolpevoli.

Gesù non solo non condanna ma apprezza un centurione ovvero un militare che ripone la sua fede in Lui: eppure egli sa bene che quel mestiere impone talvolta di difendere anche violentemente la vita o la dignità dell’imperatore. Non si capisce, dunque, perché egli non dovrebbe mostrarsi comprensivo anche verso chi, con o senza armi in pugno, giunga ad amare i propri amici o la propria gente sino ad esporre o ad immolare la propria vita. Non è forse scritto che il Signore molto perdona a chi molto ama? Sí, è pur vero che bisogna perdonare ai propri nemici che tali tuttavia il più delle volte restano; ma è certo che ciò sia incompatibile con l’eventuale ricorso momentaneo alla violenza per una causa giusta e per amore disinteressato del prossimo? A Pietro viene impedito non di usare la spada ma di colpire una seconda volta il suo nemico con la spada: è cioè comprensibile che egli voglia difendere il Cristo che tuttavia, preoccupandosi d’altronde per la sua incolumità (chi colpisce con la spada, anche se con giusta ragione, si espone al forte rischio di perire di spada, proprio come sarebbe toccato agli zeloti di perire prima sotto la spada romana nel 70 d. C., anno della distruzione di Gerusalemme, e poi sotto la lama della propria spada nel 73 d. C. a Masada), lo invita ad essere paziente, anche perché è necessario che si adempia una profezia che riguarda il Cristo stesso come uomo e come Dio.

Non può infatti perdersi la specificità del destino di Cristo: Egli deve sacrificarsi, come uomo e come Dio, per salvare non questa o quella persona nella temporalità ma l’intera umanità per l’eternità. In questo senso è giusto osservare che «Gesù non era affatto rivoluzionario in quanto era l’unico rivoluzionari» (G. Morra, Marxismo e religione, Milano, Rusconi, 1976, p. 237, ma anche H. Küng, Credo, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 51-53 e pp. 73-75). D’altra parte, quello stesso potere imperiale che, con la forza e con la spada, ne avrebbe decretato ingiustamente la morte, sarebbe stato travolto appena qualche secolo dopo, da una forza altrettanto violenta e da spade nemiche altrettanto taglienti. Come recita profeticamente il salmo 63: «Ma quelli che attentano alla mia vita scenderanno nel profondo della terra, saranno dati in potere alla spada, diverranno preda di sciacalli».

In sostanza, non è che, di fronte a quella scellerata ed ingiustificata persecuzione di cui è oggetto, Gesù non veda la legittimità di una resistenza armata. Qui si può convenire con chi ha notato che la Sua logica dell’amore e del perdono nulla concede al «conformismo» e al «bigottismo» (A. Sofri, Quando Gesù parlava della spada, in “La Repubblica”, 5 aprile 2004, p. 16). La resistenza armata sarebbe non solo legittima ma doverosa (e Pietro colpisce perché non se la sente proprio di fare la parte del vigliacco al cospetto del suo divino Maestro) ma, almeno in quel caso, come in tutti i possibili casi in cui sia pure indegnamente si intenda condividere il destino del Salvatore, è inutile, perché Gesù sente che il Padre lo sollecita ad accoglierne l’ultima e più esigente richiesta: Tu Figlio devi proprio rassegnarti a morire di morte iniqua e violenta, Tu Figlio di Dio rappresenterai lo scandalo più clamoroso ed insopportabile della storia degli uomini ed è principalmente attraverso questo scandalo che essi potranno capire di cosa sia veramente capace il loro Signore per metterli sulla via della salvezza.

Gesù, dunque, sceglie la via della nonviolenza non perché giudichi la violenza come un male sempre e comunque evitabile ma perché sia chiaro che non è la violenza la via migliore e risolutiva per la salvezza totale e finale degli uomini. E tuttavia la perfezione o la santità, che non viene negata persino ad incalliti persecutori che si ravvedano (come Paolo di Tarso), per quale ragione dovrebbe essere negata a chi la violenza ritenga talvolta di usarla in difesa esclusiva dei deboli e degli oppressi? Se è vero che anche un ladrone o un sovversivo crocifisso per delitti realmente compiuti può andare in paradiso, perché chi uccide solo per difendere il proprio fratello o il proprio popolo ingiustamente aggredito non può ottenere la comprensione e il perdono divini? I rivoluzionari violenti non possono essere assunti «come modello» (F. Bertinotti, Per una pace infinita, Milano, Ponte alle Grazie, 2002, pp. 166-167), ma ciò non implica necessariamente che essi siano violenti tout court.

Anche in tal caso converrebbe che il giudizio fosse piuttosto prudente, se è vero che pubblicani e prostitute potrebbero precedere nel regno dei cieli noi tutti (ivi compresi sacerdoti e leviti di questo tempo) che diciamo o ci illudiamo di credere ma in realtà viviamo spesso da atei.  D’altra parte, il Cristo stesso, venuto non per abolire la legge veterotestamentaria ma per completarla e perfezionarla, diventa violento, pur senza provocare la morte di alcuno, quando gli viene toccato l’affetto suo più profondo, quando in altri termini constata che si vorrebbe fare di un luogo di preghiera un luogo di commercio o di un luogo di commercio un luogo di preghiera. E qui si ritorna al punto da cui il papa prende le mosse per affermare che Cristo non è un rivoluzionario e da cui chi ha scritto sin qui ha preso le mosse per suggerire invece sommessamente che Cristo non sia un rivoluzionario ma sia semplicemente rivoluzionario, l’unico e vero rivoluzionario della storia passata, presente e futura.