Senza patria e senza Dio

Scritto da Francesco di Maria.

 

Alta e chiara, come sempre, la voce del vescovo mons. Giancarlo Bregantini, presidente della commissione Lavoro Giustizia e Pace della CEI, si è alzata anche sulla riforma, il cui varo parlamentare-governativo sembra ormai imminente, del tanto discusso art. 18, per dire non solo che questo articolo non dovrebbe essere abolito ma anche che «la tematica di fondo dell’articolo 18 dovrebbe coprire tutti i lavoratori, non solo quelli con più di 15 dipendenti, già garantiti. Va estesa come espressione di valori di dignità e difesa come normativa». La Chiesa, argomenta mons. Bregantini, «davanti alla questione dei licenziamenti, chiamati elegantemente, con un eufemismo, ‘flessibilità in uscita’» deve sempre tener presente che il lavoratore «è persona», non «merce», come insegna l’enciclica sociale Rerum novarum di papa Leone XIII, e in particolare in quei punti in cui sottolinea che «nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per se stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue».

Parole chiare, tassative, assolutamente indipendenti da particolari congiunture economiche, da periodiche crisi finanziarie, da nervosismi più o meno ingiustificati dei mercati: il vangelo questo suggerisce e questo uno Stato sarebbe tenuto evangelicamente a fare sempre e comunque. Ma se le risorse sono poche o scarse, come si fa? La risposta dell’enciclica: si mette in comune quel poco o quella scarsità di cui si dispone dando priorità al soddisfacimento dei bisogni primari di vita degli operai e dei lavoratori, di quelli che già ci sono beninteso e che hanno in ogni caso diritto per sé e le loro famiglie ad una vita dignitosa, e non di quelli futuribili, di quelli che eventualmente verranno, che sono generalmente oggetto non già di sincera e obiettiva preoccupazione economica morale e sociale ma di mera, strumentale e particolaristica propaganda ideologica e politica.

Fa dunque bene mons. Bregantini, ripercorrendo quei vecchi ma sempre attuali insegnamenti evangelici e pontifici, a ripetere con forza che, quali che siano le contingenze critiche dell’economia, contingenze critiche peraltro continuamente riaffioranti nella storia non certo per caso o per arcane ed incomprensibili ragioni, la «questione di fondo» è e resta quella per cui «il lavoratore non è una merce e non lo si può trattare come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perché resta invenduto in magazzino». Da questo punto di vista, certe lezioni professorali di personaggi come Elsa Fornero, che si illude di spiegare con una gestualità tipicamente e boriosamente accademica come si possano dare situazioni occupazionali suscettibili di non essere più giustificate dalle cangianti richieste di mercato e quindi ineluttabilmente destinate ad aver termine con conseguente espulsione dai processi lavorativi ed economici dei soggetti colpiti, sono semplicemente risibili, perché è come se uno Stato dovesse rimanere necessariamente in balía di forze spesso irrazionali come banche e mercati o mercanti, senza poter assolvere alcuna funzione politica degna di questo nome e quindi anche capace di tutelare in primis, anche a costo di gravi sacrifici e rinunce fatti però nel nome della giustizia sociale e non della necessità di saldare un inintellegibile debito sovrano, i legittimi interessi delle fasce sociali più disagiate e meno abbienti della sua popolazione.

Il professor Monti, supertitolato esponente dei più forti e influenti gruppi bancari del mondo, delle più prestigiose e “segrete” organizzazioni economiche e “culturali” internazionali, i cui macrointeressi certo non può tradire dall’oggi al domani, si sforza di chiarire che, in momenti di grave difficoltà economica, ogni parte sociale deve cedere una parte dei suoi “interessi legittimi”, trascurando però di riflettere sul fatto che gli interessi legittimi di un operaio o di un impiegato non sono uguali a quelli di un imprenditore dal reddito milionario e che gli interessi legittimi di un modesto pensionato non sono minimamente paragonabili a quelli di uno strapagato professore universitario o direttore di banca che, pur dichiarando pubblicamente i loro ingentissimi redditi, sarebbero tenuti a spiegare perché essi, a differenza di certi pensionati della pubblica amministrazione e della scuola che il sistema retributivo avrebbe reso “privilegiati”, non sono invece né economicamente privilegiati né socialmente soggetti in larga misura parassitari.  

Il professor Monti è stato chiamato per salvare l’Italia dal baratro. Per ora, non si può certo dire né che l’abbia salvata, come sta ad indicare chiaramente il saliscendi di uno spread oltremodo ambiguo (che si riduce tutte le volte che Monti compie atti da cui si sente appagata la libidine finanziaria dei cosiddetti mercati, mentre aumenta non appena un sindacato italiano si mostra intransigente verso qualche misura del governo Monti), né soprattutto che ne abbia realmente favorito quella “crescita” senza la quale, come egli stesso continua a ripetere in modo disinvolto ma per noi tutti preoccupante, ogni “riforma” sarà stata inutile. Che l’Italia sia stata salvata dal governo Monti o da governi come quello di Monti proni alle esigenze non già dell’economia ma dei suoi grandi potentati, è e resta per ora un puro postulato. Se ne riparlerà fra alcuni anni e, benché speri con tutte le mie forze di sbagliarmi, vedremo allora di trarne un bilancio obiettivo.

Quel che è certo è che il governo Monti, simmetrico all’astuta e perfida opera che il dott. Draghi svolge come presidente della BCE, sta facendo esattamente quello che il mondo economico-finanziario di cui è espressione e voce autorevolissima si aspettava da lui: ovvero quell’opera raffinata ma sistematica di rapina, di espoliazione della ricchezza nazionale a tutto favore dei magnati della finanza internazionale, dell’alta imprenditoria, dei settori di punta del capitalismo mondiale e nazionale, anche attraverso un’abile ma inesorabile attività di smantellamento dello Stato Sociale e di princípi giuridici essenziali della vita civile e democratica del nostro Paese.

Ora però, ammonisce Bregantini, per un cattolico né l’aspetto economico e finanziario può prevalere su quello politico e sociale, né l’aspetto tecnico (ammesso e non concesso che di pura tecnica si tratti) può prevalere su quello etico ed umano. L’economia non è solo scienza di come si produce e si distribuisce ricchezza, ma è anche la scienza di come si amministrano con equità ed equanimità i beni disponibili e non necessariamente suscettibili di incremento a breve o lungo periodo, in tempo di crisi, di mancato sviluppo e di persistente e galoppante disoccupazione. Peraltro, proprio sotto il profilo “tecnico” il lavoro governativo montiano appare singolarmente equivoco nel fatto che esso abbia varato immediatamente delle riforme strutturali che indeboliscono e riducono in misura notevole il reddito e il potere d’acquisto di persone e famiglie normali o già disagiate ma che prescindono completamente dal perseguimento di un ordinamento giuridico-normativo non solo nuovo ma coerente rispetto a quelle finalità sociali, quindi ad obiettivi di sviluppo economico e di occupazione, che si dice e si ripete senza troppa convinzione di voler perseguire.

Qui i trucchi, in una prima fase tenuti ben coperti, cominciano a venire alla luce, e mons. Bregantini non può fare a meno di chiedersi preoccupato se la riforma governativa del mondo del lavoro, che a ben vedere ha il suo punto di attacco anche ideologico proprio nella volontà di sbarazzarsi dell’art. 18, «diminuirà o aumenterà il precariato dei nostri ragazzi», riuscirà «ad attrarre capitali ed investimenti dall'estero solo perché è più facile licenziare», riuscirà a snellire «la burocrazia» e a dare «più vigore all'esperienza imprenditoriale». Ma soprattutto, osserva l’arcivescovo di Campobasso-Bajano, «non vorremmo nemmeno che la cosa fosse schiacciata su questi temi, perché ripeto, al centro di tutto ci deve essere la dignità dell'uomo e della famiglia».

Però, bisogna riconoscere che sul governo Monti e in particolare sulla riforma complessiva del mondo del lavoro da esso voluta la Chiesa è profondamente divisa: non solo a livello gerarchico, dove le posizioni in verità non sono mai espresse in modo sufficientemente nitido e univoco, ma anche tra i cattolici laici tra cui non di rado accade che il vangelo possa interpretarsi con una certa liberalità e con ampi margini di discrezionalità soggettiva. Si legge, per esempio: «per Luca Diotallevi, vice presidente del Comitato delle Settimane Sociali (nonché ascoltato consulente del cardinale Bagnasco)», (capite: uno dei vertici delle settimane sociali e molto vicino a Bagnasco!) «le novità portate avanti dal ministro Fornero sono un passaggio necessario. Egli infatti ha detto: ‘L’accordo va in una direzione giusta per almeno due ragioni. La prima è che aumenta la flessibilità, la seconda è che non si ferma alle vecchie convenzioni della concertazione’. E pazienza per la rottura con la Cgil. Il sindacato ‘ancora una volta’ ha espresso una visione ‘fortemente conservatrice’. Intervistato dalla Radio Vaticana Diotallevi si è espresso esattamente all’opposto di Bregantini: ‘Credo che questa riforma abbia dietro un grande consenso’, inoltre ‘è positivo che si sia fatto un passo nella stessa direzione di Tarantelli, Biagi e D’Antona’» (Franca Giansoldati, La Chiesa/I vescovi: “i lavoratori non sono merce”, in “Il Mattino” del 23 marzo 2012).

Povero Bregantini che ha avuto il torto, comune a tanti di noi, di ritenere un grave errore la decisione di «lasciare fuori la Cgil dalla riforma, quasi che il primo sindacato italiano per numero di iscritti non sia una cosa preziosa per una riforma del lavoro…Dietro questa fetta di sindacato c'è tutto un mondo importante, cruciale, da coinvolgere per camminare verso il futuro. Altrimenti c'è il rischio che questa parte sociale, con i suoi milioni di iscritti, resti disillusa, arrabbiata, ripiegata su atteggiamenti difensivi, su un passato che non c'è più. Lasciare fuori la Cgil sarebbe una perdita di speranza notevole, un grave errore». Ma l'autorevole esponente Cei fa poi un altro rilievo alla riforma targata Fornero-Monti: «Ci voleva un po' più di tempo per mettere in atto una riforma cosí importante. Non era necessaria questa fretta cosí evidente. La questione è chiusa, è stato detto da parte del premier Mario Monti. Si poteva dire: la questione è posta, ora dialoghiamo, nelle fabbriche, negli uffici, in Parlamento, nella società civile, ovunque perché il lavoro è il tema cruciale del nostro Paese».

Sí, un cattolico non può ragionare diversamente da come ragiona Bregantini, che, pur svolgendo meravigliosamente la sua opera evangelizzatrice, non è un eroe, non è un prelato dotato di particolare sensibilità sociale o di eccessivo zelo apostolico (come qualche presunto cattolico potrebbe maliziosamente etichettarlo), ma semplicemente un cristiano e un cattolico, un fedele seguace di Cristo che non può non avere la sensibilità che per l’appunto Bregantini ha verso i lavoratori e il mondo sociale. Non è dato sapere se i vari Monti, i vari Fornero, i vari Napolitano, sempre più manifestamente complice e promotore di una delle più ambigue e reazionarie manovre della storia politica italiana dal ’45 ad oggi e proprio oggi allarmato “per il crollo delle aziende” più che “per facili quanto improbabili licenziamenti” (!), siano davvero convinti di poter essere giudicati prima o poi dal “popolo” quali soggetti morali e politici dotati di elevato senso patriottico o addirittura di un afflato religioso di cui in realtà, vangeli e ultrasecolare dottrina sociale della Chiesa alla mano, sono molto carenti (anche se Napolitano non fa mistero del suo personale disimpegno quanto a fede e a religiosità in senso classico).

Cosí come non potranno coltivare questa stessa speranza tutti quei cattolici tecnocrati, burocrati, banchieri, esperti, specialisti, economisti ed intellettuali, che non siano capaci di intendere che il pane materiale come il pane della vita si spezza con tutti quelli che, anche se il primo scarseggia pur essendo prezioso quasi quanto il secondo, ne hanno comunque bisogno e diritto, non in quanto fannulloni ma in quanto persone desiderose di guadagnarselo col sudore della propria fronte. Per alcuni di noi, per nulla predisposti a sputare sentenze e ad emettere facili e definitivi giudizi moralistici sui singoli, che ovviamente regoleranno i propri conti solo con Dio e con la propria coscienza, ma solo preoccupati di testimoniare senza supponenza la loro fede nella verità e nella giustizia divine, molti, anche fra i credenti cattolici e i laici apparentemente più impegnati sotto il profilo etico-civile, sono in vero i senza patria, non nel senso che il cristiano abbia la sua unica patria nel regno dei cieli ma nel senso di un uso semplicemente territoriale e strumentale della propria patria-nazione a tutto vantaggio della patria dei propri interessi personali spesso coincidente con la patria dei grandi interessi finanziari transnazionali, e i senza Dio, incapaci cioè non già di interpretare “dialetticamente”, e quindi anche con i possibili arzigogoli esegetici che la dialettica consente, ma di aderire seriamente e intimamente alle parole del salmo 139: «So che il Signore difende la causa dei miseri, il diritto dei poveri».