Il Vangelo e la politica

Scritto da Maurizio Tenuta.

 

Quando si sente dire, anche in ambito cattolico, che Dio con la politica non c’entra niente, che il suo messaggio di salvezza riguarda l’uomo nella sua realtà integrale e non questo o quel determinato aspetto della sua esistenza, che il mondo come la politica passano mentre la Parola di Dio rimane, non sempre forse ci si rende conto che, contrariamente all’intenzione di magnificare il divino e il suo universale piano di salvezza, il rischio è proprio o ancora quello di vanificare o di ridurre la portata dell’incarnazione e della risurrezione di Dio in Cristo. Perché è vero che Cristo non è venuto a salvare l’uomo sotto l’aspetto politico o quello economico o quello sociale ma ben al di là di ogni sua particolare condizione umana sia dal punto di vista politico che economico e sociale e via dicendo, e tuttavia è del tutto evidente che questo non implica affatto che la sua opera salvifica non riguardi e non comporti un mutamento qualitativo e liberante, una progressiva trasfigurazione spirituale di tutte le dimensioni essenziali in cui la stessa vita umana e per l’appunto nella sua interezza viene manifestandosi e svolgendosi.

E’ semplicemente errato pensare che, siccome quel che conta alla fine è la salvezza eminentemente spirituale dell’uomo, allora l’impegno degli uomini non debba esercitarsi anche in tutti i campi della sua vita spirituale ma fondamentalmente sul piano religioso, come se la religiosità significasse disinteresse o tiepidezza per tutto ciò che è costitutivamente umano. Al contrario, proprio perché il nostro compito dev’essere quello di trasformare profondamente la nostra vita personale, non potremo sottrarci, ognuno s’intende nei limiti delle sue possibilità e delle sue attitudini, al dovere di tendere ad una progressiva trasformazione della nostra vita interiore in rapporto a tutti i particolari contesti della nostra complessiva esperienza di vita.

Ancora tanta gente pensa che il vangelo non abbia una sostanziale incidenza sulla politica e che dal vangelo non derivino specifiche opzioni politiche in quanto esso sarebbe funzionale alla salvezza di ciascuno indipendentemente dalle sue scelte e dai suoi atti politici ed in quanto è funzionale a quel Regno di Dio di cui possono far parte tutti coloro che sinceramente avranno cercato di rivedere continuamente la propria vita in direzione dell’amore e della giustizia verso tutti e verso i nostri stessi nemici. Certo: è cosí.

Ma, appunto, il Vangelo, in quanto insieme degli insegnamenti di Gesù, non è equidistante, non è neutrale rispetto alle scelte che ognuno di noi compie non solo ma anche in sede politica. Il Vangelo predica il perdono incondizionato e dunque, a prescindere dalla correttezza del nostro modo di credere in Dio e di operare in società, predica la divina disponibilità a riabbracciare quanti si siano onestamente sforzati di convertire la propria vita alla parola di Verità del Cristo, laddove questa parola viene altresì articolandosi in uno spirito molto esigente ed  inesauribile di carità e di giustizia. Dunque, il Vangelo indica una precisa direzione di marcia da cui non sarà possibile derogare a colpi di sottili argomentazioni dialettiche o di mistificanti razionalizzazioni.

Evangelicamente, uno può essere monarchico ma a condizione che la sua fede monarchica non si traduca poi in una esaltazione indiscriminata del monarca e in una difesa ad oltranza dei diritti di Cesare contro i diritti del supremo e trascendente Monarca e contro i diritti del popolo; un altro può essere conservatore ma a condizione che la difesa della tradizione e di determinati assetti politici e sociali di potere non coincida con una rimozione dell’obbligo morale di favorire innovazioni necessarie al bene comune e cambiamenti richiesti da una legittima volontà popolare di maggiore partecipazione decisionale alla gestione del bene e dei beni pubblici; un altro può essere progressista, ma senza pretendere di violare, nel nome dell’emancipazione sociale, princípi naturali ed etici di comprovata e consolidata validità biblico-evangelica come la sacralità della vita umana in tutte le sue forme e le sue fasi, l’indissolubilità del matrimonio e la difesa della famiglia nella sua unica ed esclusiva struttura eterosessuale, un diritto sia pure relativo a possedere beni privati, un rispetto non idolatrico verso qualsivoglia forma di Stato, una ricerca onesta e permanente di forme non demagogiche e sempre migliori di uguaglianza giuridica e giustizia sociale. E via dicendo.

In altri termini, aver fede nel vangelo significa credere che in ogni cosa che facciamo, in ogni nostro pensiero e in ogni nostro atto, quali che siano gli ambiti in cui ci troviamo ad operare (familiare, sociale, economico, politico, ecclesiale, monastico, genericamente interpersonale, strettamente intimo e personale, ecc.), non possiamo fare a meno di chiederci senza infingimenti di sorta e in modo assolutamente rigoroso: qui ed ora, al posto mio, che farebbe o come farebbe nostro Signore Gesù? E, se anche a volte non è affatto facile discernere tra giusto ed ingiusto, ciò non ci esime in nessun caso dall’assumerci precise responsabilità al cospetto di Dio.

Bisogna dire con molta franchezza che qui il problema non sarà quello di stabilire in astratto se i cristiani debbano essere tradizionalisti o progressisti e se la Chiesa debba o non debba allearsi con il mondo moderno. I cristiani invece saranno tradizionalisti o progressisti a seconda dei casi e quindi non acriticamente. Da un punto di vista politico, per esempio, saremo cristiani tradizionalisti o progressisti nel ritenere che la comunione dei beni materiali e spirituali debba essere, come evangelicamente è, un principio fondante di una comunità e di una società cristiane? Direi che saremo sia tradizionalisti, perché si tratta di un oggettivo principio evangelico assai ricorrente seppure con diverse tonalità nella santa tradizione della Chiesa, sia progressisti perché farsi fautori di questo principio significa entrare il più delle volte in rotta di collisione con molteplici forze sociali e politiche di segno non di rado anche cristiano e cattolico che resistono all’idea e al progetto di una equa divisione dei beni in uno spirito di fraterna e caritatevole condivisione.

Siamo sicuri, per esempio, che proprio su questo terreno la modernità, per quanto disseminata di errori e di giudizi fallaci, non possa offrire contributi più precisi, qualificati e attendibili anche in sede religiosa, di quelli spesso forniti da prese di posizione prevalentemente propagandistiche e demonizzanti della Chiesa cattolica in genere? Avrà avuto ragione l’insigne studioso e sacerdote cattolico argentino padre Julio Meinvielle nell’accusare il mondo moderno di essere morto «da laicista e da ateo» e di avere «le sue radici nel fatto che cerca in primo luogo la realtà temporale, e così rimane senza la realtà eterna e finisce addirittura per perdere la realtà temporale» (Si allude alla sua ponderosa opera su “Concezione cattolica della politica” pubblicata recentemente da Edizione Settecolori 2011, curata da padre Arturo A. Ruiz Freites e molto considerata in parte del mondo cattolico); ma, parliamoci chiaramente e senza ipocrisia, questa stessa considerazione non può valere anche per la stessa prassi storica della Chiesa e del mondo religioso in genere? E’ solo la rivoluzione borghese-capitalista e la rivoluzione proletaria-comunista che hanno corrotto la politica e l’economia, come sostiene Meinvielle, o lo stesso effetto non è stato per caso prodotto da tante stagioni reazionarie della storia umana e della nostra stessa contemporaneità magari nel nome della democrazia, del moderatismo e della pace sociale?

Si comprende bene che specialmente un uomo di Chiesa sia portato ad accentuare molto la centralità di Dio nella vita e nella storia degli uomini; quello che si comprende meno è che lo si voglia fare assolutizzando il valore dei propri strumenti di analisi e di giudizio e lasciandosi andare a generalizzazioni e colpevolizzazioni francamente unilaterali o arbitrarie. Come la seguente: «Il problema primo dell’uomo è il destino eterno dell’uomo. Il problema primo dell’uomo è la situazione dell’uomo verso Dio. E’ un problema interiore, un problema che si trova entro l’anima, che non si risolve dandogli da mangiare, ma si risolve dandogli Dio». Bene, ma non sarà forse un modo per dire ancora una volta che l’uomo che ama Dio non deve vivere anche di pane e non deve pensare tanto a come procurarselo sia pure con l’aiuto di Dio stesso?