Mancuso: l'eretico e il vero cattolico

Scritto da Francesco di Maria.

 

Dopo aver visto l’ultimo libro dell’eretico Vito Mancuso, “Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana”, Roma, Campo dei Fiori, 2012, ribadisco quel che scrivevo su di lui qualche tempo fa: «se vuole essere libero verso i “dogmi” (e dogmi sono la Santissima Trinità, Cristo figlio unigenito di Dio, la duplice natura umana e divina di Gesù, Maria Madre di Dio, la perpetua verginità di Maria e la sua Immacolata Concezione, la transustanziazione e via dicendo) come si può sostenere che Mancuso muova dal vangelo e abbia buone ragioni per considerarsi cattolico e interno alla Chiesa anche se in dissenso con la Chiesa? C’è modo e modo di essere in dissenso con la Chiesa e con l’ortodossia: non ogni dissenso è necessariamente segno di allontanamento della Chiesa ma quando il dissenso verte sui dogmi, ovvero sui pilastri della fede cristiana e cattolica, che hanno sempre avuto la funzione storica di arginare e contrastare tutte le eresie sorte in seno alla Chiesa, non si può più pretendere di essere “dentro” la Chiesa anche se alla ricerca di un “confronto”».

E poiché Mancuso nel libro sopra citato, pur reiterando alla Chiesa cattolica critiche talvolta giuste, soprattutto in relazione all’annosa questione dell’esercizio del potere, ma non nuove né sorprendenti per il cattolico medio, punta in modo spesso fanciullesco a servirsi di Cristo stesso per suscitare dissidio e seminare zizzania nella comunità cattolica, è qui opportuno ribadire che, piaccia o non piaccia a questo intraprendente ma mediocre teologo, egli è fuori della Chiesa e fuori della Chiesa resta e resterà sino a quando il suo orgoglio luciferino non gli consentirà di obbedire liberamente agli insegnamenti di Gesù dei quali, malgrado insufficienze o ritardi sul piano esegetico teologico e pastorale, è fedele custode la sua santa Chiesa che ha sede in Roma.

Qualcuno sarà curioso di sapere in che senso l’autore in parola si serva fanciullescamente di Cristo. Nel senso che, per esempio, scrive: «non è possibile che Gesù sia “la” verità, perché un singolo personaggio storico non può essere la verità, allo stesso modo che una bottiglia di acqua minerale non può contenere l’oceano. Gesù non è la verità». Chi può dire che l’avverbio da me usato per qualificare l’esegesi dell’accademico lombardo sia esagerato? Come fargli capire che Gesù non è semplicemente “un singolo personaggio storico” ma un personaggio storico o meglio una persona storica in cui, almeno per ciò che riguarda lo stato  dell’umanità, le condizioni morali e spirituali del suo ritorno alla patria celeste, le regole di comportamento individuale da seguire ai fini della propria salvezza, si è riversata tutta la sapienza di Dio? E che paragonare Gesù ad una bottiglia di acqua minerale significa essere affetti da una grave minorità intellettuale?

Però, scrive Mancuso, se non è la verità, Gesù è certamente la via, la via che conduce alla verità. Come dire: se Gesù è già la verità, io Mancuso che ci sto a fare? Io Mancuso, invece, dicendo che la verità va ben oltre la figura di Cristo, facendo un uso flessibile della sua Parola e dei suoi insegnamenti, e quindi usando Gesù come “metodo in funzione della verità” naturalmente “altra” da quella pure significativa di Cristo, ho buone argomentazioni per sostenere che oggi, anche grazie all’opera di Gesù, possiamo metterci alla proficua ricerca della verità. D’altra parte, osserva Mancuso convinto di utilizzare un’argomentazione vincente, Gesù non ha forse parlato di una “verità tutta intera” che ancora deve venire e che gli uomini ancora non possono intendere? Non significa questo che la verità di Gesù non esaurisce in sé tutta la verità, ma indica per l’appunto solo una direzione intellettuale e spirituale verso cui orientare la propria ricerca? Ora, Gesù dice: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento (ancora) non siete capaci di portarne il peso» (Gv 16,12). Per cui, sarà lo Spirito di verità, lo Spirito Santo, che “vi annunzierà le cose future” guidandovi “alla verità tutta intera” (Gv, 16, 13).

Ove, dunque, si evince in modo inequivocabile che Gesù conosce quel che per motivi di opportunità non può dire, conosce anche quello che, a causa della impreparazione intellettuale e spirituale della generazione di uomini con cui ha a che fare, i suoi interlocutori al momento non potrebbero comprendere e che altre generazioni invece, sotto l’azione dello Spirito Santo, potranno poco per volta comprendere. E lo stesso Spirito di verità non è altro da Cristo, ma è Dio stesso, l’unico e vero Dio, nelle due distinte persone di Dio Padre e Dio Figlio, che agiscono nella storia degli uomini per mezzo del loro Spirito divino, dello Spirito che è tanto misterioso quanto Santo proprio perché, in modi e tempi imprevedibili e inattesi, esprime la loro profonda e indissolubile relazione e condivisione di verità, d’amore e di giustizia, incidendo lentamente ma profondamente sulla storia e sulla vita degli uomini.

Come diceva Giovanni Paolo II nell’udienza generale del 17 maggio 1989, lo Spirito Santo poi «conduce la Chiesa verso un costante progresso nella comprensione della verità rivelata. Veglia sull’inseguimento di tale verità, sulla sua conservazione, sulla sua applicazione alle mutevoli situazioni storiche».  

Ma, come tante volte gli è stato autorevolmente rimproverato, Mancuso nega il peccato originale, nega che ci sia una salvezza che necessiti di «un soccorso dall’alto» e che non possa risolversi «in un tranquillo esercizio di vita morale», nega che il “regno di Dio” abbia un valore trascendente oltre che immanente, nega persino la risurrezione di Cristo, non curante del fatto che, per usare la dotta espressione di Bruno Forte (suo maestro), «la confessione della morte e risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo è l'articulum stantis aut cadentis fidei Christianae!». Guai poi a parlargli dell’eternità dell’inferno, che sembra essere stato escogitato di proposito dalla gerarchia ecclesiastica per incutere timore nel teologo eretico che, in quanto eretico, avrebbe il coraggio di liberare la ricerca teologica dalle forzature e dalle distorsioni ideologiche della dogmatica!

Questo è Mancuso. Egli può fare tutte le acrobazie concettuali che vuole, tutte le disamine più spregiudicate in sede storica e teologica: alla fine, la sua fede appare nella sua profonda natura cimiteriale, priva com’è di certezze positive come l’origine divina della nostra anima, il potere della grazia divina di trasformare profondamente la vita degli uomini, la risurrezione di Cristo e la conseguente fondatezza della speranza umana di una vita piena ed eterna dopo la morte. Senza queste certezze, non c’è teologia, né fede, né verità, né vita, né bene, né felicità, né paradiso che possano interessare minimamente gli uomini dotati di ragione e di ragionevolezza. Potrà mai capirlo Mancuso?

Egli ammette che la Chiesa sia capace praticamente di fare il bene: «a questo livello il sale non ha perso sapore, e la gente lo sa, e nonostante gli scandali per lo più si fida della Chiesa quando si tratta di agire, educare, accudire, soccorrere, consolare». Fare il bene: è principalmente quello che, unitamente all’invito a predicare il vangelo e ad evangelizzare i popoli e i non credenti, nostro Signore ha raccomandato di fare alla sua Chiesa e a tutti i suoi seguaci. Ma la cosa che Mancuso ritiene imperdonabile è l’incapacità teorica della Chiesa «di far risplendere il vero cristianesimo…a causa di una dottrina incoerente, prigioniera di una visione superata del mondo e dell’uomo, e quindi non più in grado di tradurre efficacemente in idee la luminosa attività della prassi, anzi talora persino tale da produrre orientamenti opposti rispetto allo spirito della novità evangelica (come sono, ritengo, alcune posizioni dottrinali in materia di bioetica, morale sessuale, prassi sacramentale…Come mai questo divario tra la prassi e la dottrina? Come spiegare questa trappola nella quale la mia religione è caduta?».

Qui è veramente difficile stabilire se Mancuso sia realmente incapace di discernimento o faccia di tutto per provocare il mondo cattolico e per indurlo a cambiare rotta almeno in parte. Un divario tra prassi e dottrina, purtroppo, ci sarà sempre ma non certo nel senso da lui inteso, mentre la trappola in cui la religione cattolica potrebbe cadere sarebbe solo quella per cui la Chiesa, pur di non perdere influenza nel mondo, rafforzasse il suo abbraccio con tutte le voci “disoneste” e con tutti i poteri “forti” del mondo stesso.

Quanto all’enfasi con cui Mancuso esalta il pensiero eretico di tutti i tempi come unico pensiero veramente capace di perseguire la verità, egli viene spesso esprimendo idee altrettanto confuse e generiche, su cui francamente non sembra il caso di soffermarsi se non per notare due cose. La prima è che altro è il pensiero critico, altro il pensiero eretico, altro il pensiero che sa ben coniugare le ragioni della ragione con quelle della fede, altro il pensiero che ritiene di poter elaborare verità, princípi, valori religiosi al di fuori di uno specifico quadro di riferimento che, con le sue verità, i suoi princípi, i suoi valori già acquisiti, imponga all’indagine pesi e contrappesi argomentativi o fattuali adeguati che limitino quanto più possibile il rischio di interpretazioni unilaterali e di conclusioni affrettate. La seconda cosa è che ci sono eretici ed eretici, eretici più degni di essere considerati umanamente e teologicamente ed eretici meritevoli solo di essere compatiti ed amati in quanto fratelli. Di ciò non sembra affatto consapevole Mancuso che dedica il suo libro a tutti gli eretici, «martiri della libertà religiosa, testimoni obbedienti del primato della coscienza», come se tutti i cattolici che obbediscono alla loro Chiesa, ovvero agli insegnamenti dogmatici e ai precetti morali da essa prescritti, non potessero essere al tempo stesso, in tutta autonomia di giudizio e con intelligente spirito critico, “testimoni obbedienti del primato della coscienza”.

Per esempio, quando Mancuso propone di considerare papa Leone X, che voleva che gli eretici fossero messi al rogo, molto più eretico di Lutero secondo cui era “contro la volontà dello Spirito che gli eretici” fossero “bruciati”, omette di ricordare lo scritto luterano del 1525, intitolato Contro le bande brigantesche e assassine dei contadini, in cui il riformatore di Wittenberg si scaglia contro i contadini tedeschi in rivolta contro principi e feudatari accusandoli di essersi ribellati al potere costituito e quindi alla divina volontà e incitando gli stessi principi, che avrebbero poi stroncato la resistenza delle masse contadine nella battaglia di Frankenhausen, a colpire, scannare, massacrare i ribelli, per fermare la loro aggressività omicida.

Oppure, quando l’eretico Mancuso esalta un campione dell’eresia moderna come Giordano Bruno, non si avvede probabilmente di esaltare più un “reazionario” che un “rivoluzionario”, un individuo che in realtà solo arbitrariamente può essere messo in relazione alla rivoluzione scientifica moderna di cui ignorò persino i princípi più elementari, un cultore di riti magici e superstiziosi di epoche lontane con i quali se avesse avuto l’opportunità di riformare il papato avrebbe riempito probabilmente la Chiesa accrescendone il tasso di permeabilità ad un paganesimo stravagante e incomprensibile, un uomo intollerante e solitario, spesso intrattabile e ingrato soprattutto verso coloro che gli facevano del bene. Altro che “martire del libero pensiero”! Bruno fu anche un “folle”, non tanto nel senso eroico ma proprio nel senso patologico della parola; un soggetto autodistruttivo, come ha sostenuto non a torto in un suo articolo del 2006 intitolato “The folly of Giordano Bruno” il prof. Richard W. Pogge della Ohio University.    

Da un punto di vista cristiano, gli eretici non meritano né il rogo né l’incenso, né la denigrazione né l’esaltazione, ma è necessario che essi vengano combattuti con le armi della ragione e della fede e non per odio alle loro persone quanto alle idee mendaci e ingannevoli che essi vengono esprimendo. Dio sarà il loro e nostro giudice, ma su questa terra siamo tenuti a testimoniare risolutamente la nostra fede in Cristo anche contro periodiche e pericolose distorsioni della verità. 

A cosa serve la libertà di coscienza, l’autonomia di giudizio, lo spirito critico, se accade che, anziché mettersi in cammino verso la verità, ci si metta di fatto in cammino contro la verità? In fondo, senza intendimenti spregiativi, s’intende qui in senso semplicemente giuridico-ecclesiastico il significato del termine “eresia”. Come ha ben scritto Karl Rahner: «Sotto il profilo giuridico-ecclesiastico, eretico è definito colui che, dopo il battesimo, e conservando il nome di cristiano, ostinatamente si rifiuta o pone in dubbio una delle verità che nella fede divina e cattolica si devono credere» (Che cos'è l'eresia?, Paideia, 1964, p. 29).

Certo, forse il cristianesimo oggi rischia di non produrre cultura in misura adeguata a causa di una lettura non particolarmente attenta o approfondita del mondo contemporaneo e dei processi strutturali e sovrastrutturali che vi si stanno svolgendo. Qui, in parte, si può concordare con Mancuso che afferma: “Magistra ecclesia, sed magis magistra veritas”. Purtroppo Mancuso ritiene superfluo aggiungere, e l’omissione non è occasionale, l’espressione in Christo: magis magistra veritas in Christo, ovvero nostra maestra in ultima istanza dev’essere pur sempre la Verità che è Cristo, Ragione divina incarnata e Salvatore dell’umanità, e che consiste in quello che egli ha pensato, ha sentito, ha insegnato e ha vissuto. Nostra maestra, in ultima istanza, dev’essere pur sempre la Verità che è quello stesso Cristo che si sacrifica per l’umanità versando il suo sangue per ognuno di noi, in espiazione dei nostri peccati: sangue di cui siamo chiamati ad essere compartecipi.

Mancuso sembra ignorare o trascurare il complesso e profondo significato simbolico e teologico del sangue di Cristo ai fini dell’economia della salvezza. Scrive infatti con disinvolta sentenziosità: «Dio non ha bisogno del sangue per salvare gli uomini, il Padre si prende da sempre cura dei suoi figli dando loro da sempre la possibilità di essere con lui», per cui la salvezza è già presente nella creazione il cui ordine non è stato mai violato da alcuno e da alcuna colpa e Gesù Cristo, pur essendo un decisivo rivelatore dell’amore, della sapienza e della giustizia del Padre, non avrebbe affatto portato la salvezza con il suo sangue.

Ecco: la differenza fondamentale, dalla quale ogni altra differenza deriva, tra un eretico come Mancuso e un vero cattolico è data dal sangue di Cristo. Se si vuole, persino da un punto di vista politico – dove dovrebbe essere più facile essere coerentemente dalla parte degli ultimi per un eretico di forte sensibilità civile che depreca «lo scollamento tra etica e politica», lamenta che «in Italia, a differenza degli altri paesi occidentali, manca una religione “civile”, capace di legare responsabilmente l’individuo alla società», e dice di voler lottare come cristiano «per il bene e la giustizia di tutti» – la teologia mancusiana, pur presumendo di essere una teologia liberante, mostra limiti evidenti che, in questo caso specifico, sono gli stessi di parte della gerarchia ecclesiastica: con il governo Monti, ha detto recentemente, «forse stiamo iniziando a risalire. Non per tessere l’elogio del governo in carica, ma se penso a quello precedente, a certe figure di ministri, e guardo i loro successori, mi sento consolato» (Mancuso: i politici al punto più basso. Ora si può risalire, in “Il Messaggero Veneto”, 7 aprile 2012, p. 42).

Capite? Con Monti, lo Stato italiano è oggi sull’orlo del fallimento finanziario, migliaia e migliaia di famiglie e di nostri connazionali sono stati privati nel frattempo persino del necessario a svolgere una vita almeno un tantino più alta della semplice sopravvivenza, mentre sostanzialmente intatti sono rimasti i grandi patrimoni e i redditi più alti, e l’eretico Mancuso, pur avendo ragione sull’impresentabilità morale del precedente governo, che dice? Dice di sentirsi consolato da un governo come quello presieduto dal suo collega accademico Mario Monti. Alla faccia della carità cristiana e della ricerca spregiudicata della verità e della giustizia! Non è meglio tenersi una Chiesa difettosa ma ortodossa che sui temi del bene e della giustizia, pur talvolta sbagliando, abbia come suo unico e severo interlocutore il Cristo, piuttosto che una Chiesa priva di ortodossia, all’altezza dello “spirito del tempo” e dello “spirito del mondo”, e libera di esprimere giudizi di convenienza o “realistici” sostanzialmente svincolati da rocciosi criteri ontologici e religiosi di verità?