Supplici di Maria per fare il bene

Scritto da Francesco di Maria on . Postato in I miei scritti mariani

 

Chi non è pronto ad anteporre la sequela di Cristo al perseguimento di altri pure legittimi interessi come la propria famiglia, gli amici, l’onore, la vita stessa, non è degno di Cristo. Cristo non fa mancare il suo perdono a chi, di volta in volta e posto che sia capace di sincero pentimento, lo tradisce per questo o quel motivo, in questa o quella circostanza, ma chi fa di se stesso il centro assoluto della sua attenzione affettiva si rende indegno di lui. Chi non è capace di rinunciare a quello che ha o a quello che è per amore verso di lui, non può essere suo discepolo (Lc 14, 33). Gesù, con il suo linguaggio massimalistico e severo, vuol far intendere che, nella e per la vita degli uomini, nulla è più prezioso dell’adesione incondizionata alla sua persona, dal momento che la sua persona è unica e vera fonte di salvezza.

Nella vita reale degli esseri umani, non accade generalmente che il Signore ponga un’alternativa assoluta e insuperabile tra i loro affetti e il loro amore verso Dio, tra i loro beni materiali e i beni immateriali dello spirito, tra la difesa della propria dignità personale e la rinuncia persino ad essa, ma egli vuol farci intendere che, là dove una cura male intesa degli affetti dovesse comportare un allontanamento dagli insegnamenti e dai precetti evangelici oppure la tutela della proprietà privata dovesse assumere un valore assoluto e come tale intangibile anche in presenza di oggettive situazioni di povertà sociale o comunitaria o infine una difesa ad oltranza della propria dignità dovesse risultare conflittuale con la volontà stessa del Padre (come accadde allo stesso Gesù), la via maestra da percorrere per essere a lui graditi è quella di conformarsi senza tentennamenti alla logica dell’amore più grande e quindi di un amore che, nel nome, per conto e in funzione di Cristo, non può non travalicare, se necessario, qualsiasi condizionamento personale di natura affettiva, familiare, economica e finanziaria, oppure semplicemente psicologica e morale.

Dio non pretende da nessuno rinunce aprioristiche alla variegata gamma di doni che egli stesso elargisce ad ognuno di noi ma chiede e si aspetta che ognuno di noi, al momento opportuno e a seconda della particolare chiamata divina che prima o poi riceverà nel corso della sua vita, si ponga seriamente il problema di cosa fare o di come usare il o i doni ricevuti, come affetti, averi, potere, intelligenza e via dicendo, per il perseguimento di un dono o di doni più grandi, anche se implicanti sacrificio e sofferenza, e rispondenti non più semplicemente ai nostri pure legittimi progetti umani ma ai superiori progetti divini.

Non è stato cosí per lo stesso Gesù? Non gli mancava nulla, aveva ricevuto tutto dal Padre, nessuno mai se avesse voluto avrebbe potuto mai oltraggiarlo, catturarlo, condannarlo e crocifiggerlo; ma ha voluto addossarsi i peccati di tutti, persino degli esseri umani più immondi e spregevoli, perché tutti, per mezzo del suo sangue, potessero essere redenti e salvati dal Padre. Fatte le debite proporzioni tra l’immolarsi di Cristo per la salvezza universale dell’umanità e l’immolarsi cui ognuno di noi è chiamato in segno di compartecipazione alla passione di Cristo e al fine di collaborare operosamente alla costruzione del suo Regno già su questa terra, non c’è vero cristiano che non possa e non voglia sforzarsi sinceramente ed onestamente di seguirne l’esempio in tutte le vicissitudini esistenziali.

La prima ad indicarci in tal senso la strada è Maria. Non è per un mero esercizio retorico che Maria deve considerarsi come la prima discepola di Gesù, perché è del tutto realistico ritenere che ella abbia appreso con Gesù e da Gesù il profondo senso salvifico della croce. Ancora ragazzina offre interamente la sua vita al Signore, respingendo risolutamente le sollecitazioni dei sensi e della carne, sposando e amando un uomo di nome Giuseppe ma continuando a restare vergine, concependo un figlio divino per opera dello Spirito Santo che ne avrebbe non poco movimentato l’esistenza e che avrebbe visto morire su una croce come un comune malfattore, trasformando per ordine del suo Cristo morente la sua maternità celeste in una maternità anche terrena ed il suo incolmabile dolore non già in un prevedibile e scontato motivo di odio e di disperazione ma in una eccelsa ragione di perdono di amore e di speranza per se stessa e per l’intero genere umano.

E’ proprio ai piedi di quella croce sulla quale “tutto viene compiendosi” che Maria comprende appieno che cosa occorre essere disposti a fare e a sopportare per essere realmente figli di Dio e suoi discepoli di fatto. Ella capisce perfettamente in quel momento che la serenità e le gioie, come gli affetti, i beni materiali e spirituali, le normali attività del corpo e dell’anima come una vita buona o virtuosa, il senso della libertà e della dignità personali, pur essendo certo elementi e momenti integranti e del tutto legittimi di una vita vissuta alla luce del volere divino, non ne esauriscono in se stessi il significato e il valore che consistono anche e soprattutto in quel “di più” o in quel “di meno”, in quella ulteriore offerta d’amore o in quell’ennesima e dolorosa privazione di benessere e quiete personali, che il Signore si riserva di chiedere ad ognuno di noi per il nostro bene oltre che per il bene altrui e che ognuno di noi dovrebbe sempre accogliere ed accettare con generosità, fede e persino gratitudine.

Qui, si badi, il problema non è semplicemente quello di non fare del male, e quindi di non uccidere, non rubare, non fornicare, non mentire, non nominare il nome di Dio invano, non disonorare il padre e la madre, non odiare e via discorrendo, che sono peraltro precetti generalmente meno rispettati di quanto si possa essere tentati di credere nello stesso mondo cattolico,  ma è quello di fare il bene, anche perché, nel non fare il male talvolta si può essere molto aiutati da circostanze particolarmente favorevoli della vita che sono invece assolutamente ininfluenti là dove si desideri operare realmente ed evangelicamente il bene. Non fare personalmente il male è importante ma molto più importante è voler fare il bene nel nome e per conto di Cristo.

Gesù non ci ha insegnato una semplice e indolore etica di vita: egli ha vissuto tranquillamente e onestamente sino ai 30 anni, in un rapporto d’amore e di preghiera filiali con il suo Padre celeste, ben voluto e stimato da tutti i suoi conterranei, con una fama già molto accreditata di rabbino e di uomo giusto e con una condotta specchiata e semplicemente esemplare di vita. Ma egli non si è limitato a questo, non si è limitato ad evitare il male facendosi gli affari propri, proprio perché consapevole che altra e più impegnativa era la sua missione terrena.

E Maria lo ha imitato perfettamente sia quando, essendo il figlio ancora in vita, si prodigava sempre a favore degli altri (Cana è solo un evento simbolico della sua quotidiana e speciale sensibilità per le necessità del suo prossimo), sia nel momento in cui ne raccoglie il testamento spirituale sotto la croce diventando madre dell’intera umanità e cominciando ad esercitarsi da quel momento nella difficile arte materna di allevare ed assistere tutti con il medesimo amore ma senza trascurare di sottoporre ciascuno ad un sapiente trattamento individualizzato e di alimentare in ciascuno, in proporzione alle complessive capacità spirituali individuali, il senso della propria responsabilità di fronte a Dio e agli uomini.

E i cattolici oggi hanno in Maria un modello  esclusivamente umano di fede operosa, che si traduce tanto nella volontà di non violare i canonici dieci comandamenti di Dio quanto nella volontà di contrastare il male in ogni sua forma, anche se o quando esso non sia espressamente diretto verso la sfera strettamente personale ma piuttosto verso quella di più ampie relazioni interpersonali e comunitarie o sociali, e infine nella volontà di fare il bene, di intervenire con spirito di carità e a fin di bene in qualunque situazione si ritenga onestamente di poter essere utili a qualcuno in misura più o meno grande, e più specificamente a persone particolarmente bisognose di aiuto.

Cosí dei cattolici che non siano riusciti ad evitare il divorzio a Maria non potranno chiedere la grazia di conoscere altri partners e di poter essere finalmente felici con loro sul piano amoroso e sentimentale, ma la grazia di poter vivere serenamente il più possibile al riparo del tumulto dei sensi e di poter dare senso alla propria esistenza con atti di dedizione disinteressata al prossimo in  una costante attività di preghiera. Allo stesso modo quanti siano affetti da omosessualità non potranno certo invocarne la presenza rivendicando pubblicamente il cosiddetto orgoglio omosessuale (orgoglio di che, per che) e il diritto a convivere a tutti i livelli con soggetti dello stesso sesso fino a poter contrarre con essi un normale rapporto matrimoniale, ma faranno bene a chiederle di aiutarli a fronteggiare dignitosamente e cristianamente anche in ambito sociale il loro stato di handicap al fine di poter esprimere compiutamente il vero valore della loro vita. In fin dei conti di sesso non è mai morto nessuno, anche se gli esseri umani possono soffrire moltissimo a causa di disturbi sessuali o di una natura troppo passionale e impetuosa. E cosí tanti disinvolti abortisti cattolici, quali che siano gli specifici casi in cui abbiano optato per un aborto, non potranno rivolgersi alla Madre della Vita prima di aver pianto amaramente e di essersi reiteratamente e sinceramente pentiti per il delitto compiuto contro una vita nascente.

Sono solo esempi con i quali si intende chiarire il significato poliedrico che oggi può assumere il concetto di male e il male stesso che si tratta cristianamente di evitare. Ma poi c’è l’altro versante che non può restare inevaso: quello su cui bisogna stare attenti a fare il bene, ad operare scelte di umanità, di verità, di giustizia per sé e per gli altri nel rigoroso rispetto delle indicazioni e delle finalità evangeliche, a non rimanere inerti nelle nostre nature tendenzialmente o spesso egoistiche e indifferenti a vicende umane e a situazioni che fuoriescano completamente dai nostri orizzonti personali o familiari e dai nostri affetti diretti o indiretti.

Anche qui può bastare qualche indicazione concreta. Il cristiano non può limitarsi a manifestare la sua fede in chiesa e a parole, occultandola invece in situazioni in cui essa potrebbe procurarci critiche o contumelie (a proposito, per esempio, di ragionamenti molto alla moda sui “diritti” degli omosessuali, dei malati terminali, sul diritto dei coniugi a separarsi e a divorziare senza troppe complicazioni psicologiche e procedurali, sul diritto umano in genere a tutta una serie di soluzioni edonistiche o quanto meno sbrigative e idonee a non “appesantire” oltre misura la vita della gente), cosí come il cristiano non può fingere di non sapere che c’è qualcuno, magari un semplice conoscente o un vicino di casa, solo o malato, che può avere bisogno di lui, di una sua parola di conforto o di un suo piccolo segno di solidarietà, né può permettere con un silenzio complice della altrui cattiveria che una persona conosciuta per la sua onestà venga deriso ed emarginato per la sua timidezza e la sua debolezza.

Un cristiano, su certe cose e in certi casi, non può permettersi di sentirsi stanco o svogliato o di aver fretta: egli non può voltarsi dall’altra parte ma è tenuto ad aiutare una persona magari anziana che si trovi in difficoltà lungo la strada, è tenuto a tentare di far direttamente o indirettamente da paciere là dove scoppi un litigio o una rissa suscettibili di degenerare in pericolosi atti di violenza anziché mostrarsi completamente disinteressato a ciò che sta osservando, è tenuto insomma ad agire caritatevolmente nel segno del bene piuttosto che a tirarsi preventivamente fuori da impicci di qualunque genere tutte le volte che abbia coscienza di poter fare qualcosa a esclusivo beneficio degli altri e del prossimo.

Laddove tutto questo non accada, laddove cioè non ci si faccia carico di problematiche confliggenti con la propria presunta tranquillità psicologica, non una volta ma frequentemente, il cristiano è già lontano da Dio, anche se continua a pregare, a leggere la Bibbia e ad accostarsi ai sacramenti. La pace del cristiano è solo nella sua continua mobilitazione spirituale e per difendere e conservare la sua pace egli non può consentire alla pigrizia spirituale, all’indolenza, alla svogliatezza di mettere radici nella sua mente e nel suo cuore, nella sua intelligenza e nella sua volontà. L’accidia, cioè la negligenza, l’indifferenza, «è il vizio capitale che attacca in modo subdolo la vita del cristiano» e non si può non segnalare in spirito di verità e con spirito di carità che forse in quest’epoca molti cattolici vivono la loro fede in modo estremamente epidermico. Molti di noi non sono né carne né pesce, eppure si proclamano cattolici, ma quel che è più drammatico è che non si preoccupano quasi mai di riflettere sulle parole monitorie di Gesù:  “Conosco le tue opere, tu non sei né freddo né caldo. Ma poiché tu sei tiepido sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,15-16).

Non è che non siano umanamente comprensibili il disagio psicologico, le carenze affettive, le frustrazioni che ognuno di noi porta dentro di sé sia pure nel quadro di diverse esperienze di vita, tutti fattori che ovviamente incidono sulla fatica del vivere quotidiano, ma il vero cristiano non può non capire come egli debba sempre sforzarsi di non cedere stabilmente alla pigrizia, all’inerzia, all’indifferenza a tutto ciò che si svolga al di fuori del suo specifico e personale contesto esistenziale. Il cristiano non può essere un mediocre da un punto di vista spirituale. Può esserlo intellettualmente, culturalmente, scientificamente, teologicamente, può esserlo persino professionalmente se fa di tutto per non esserlo, ma non può esserlo spiritualmente e, tutte le volte, che gli capita di arrendersi all’accidia non può e non deve fare altro che chiedere perdono a Dio invocandone la grazia illuminante e fortificante.

Maria, ai piedi della croce, nel momento più doloroso della sua vita, pur attraversata interiormente da un profondo turbamento esistenziale e probabilmente dall’intimo desiderio di gettare la spugna e di morire insieme a suo figlio, riesce, ancora una volta sorretta dallo Spirito Santo, a farsi forza, a resistere ad una pulsione autodistruttiva, a far rifiorire incredibilmente la sua fede in Cristo e ad obbedire di nuovo ai suoi comandi: “Io muoio e mi accingo a lasciare questa terra”, le dice il Signore, “ma Tu, donna prescelta da Dio come sua sposa e come madre del suo Figlio unigenito, preparati a cooperare alla mia opera di salvezza in quanto Madre dell’umanità e di tutti i viventi nella grazia redentrice di Dio. Da oggi in poi dovrai amare, nel mio nome, tutti gli esseri umani con lo stesso amore con cui hai amato me”.

A chi di noi non capita talvolta di sentirsi morire e di rinchiudersi nel suo dolore o nella sua disperazione? A quanti di noi, continuamente bersagliati dalla malasorte, non capita di sentire talvolta vacillare la propria fede o di smarrirla completamente?

Ecco: persino nei casi più drammatici ed estremi il cristiano può trovare in Maria un punto solidale e decisivo di forza e di reazione spirituale agli eventi negativi della sua vita e può chiedere direttamente il suo aiuto e il suo conforto materni. Figuriamoci dunque cosa il cristiano, ognuno secondo le sue possibilità e capacità, non sia tenuto a fare, con la richiesta assistenza della Santa Madre di Dio, in tutti i casi ordinari seppur sofferti ed impegnativi dell’esistenza, in cui non sono ancora in pericolo i propri affetti familiari, la vita delle persone più care o la stessa vita propria, la propria stabilità o il proprio decoro economico, la propria dignità personale, ma in cui c’è sempre da aiutare qualcuno che sta peggio di noi, con una parola o con un po’ di denaro, con un gesto ospitale o amichevole, con un fare altruista e generoso; e in cui c’è sempre da lottare profeticamente ed evangelicamente a favore dei poveri e degli ultimi in uno spirito non di polemica o di odio ma di verità e di carità sociale!

Come può oggi, per esempio, un cattolico tacere su quei governanti che, nel nome del rigore economico e della crescita, e sempre agitando lo spettro di un “debito pubblico” di cui continua ad essere ignota la specifica genesi e la complessiva composizione, oltre che le reali responsabilità di soggetti altrettanto anonimi che l’avrebbero contratto in passato non si sa bene se per cose strettamente necessarie o per necessità del tutto opinabili, stanno letteralmente saccheggiando le nostre case e la nostra patria per trasferire i nostri beni, e più segnatamente i beni di tante persone e di tante famiglie disagiate o già al di sotto del limite di sopravvivenza, nei forzieri dorati dei grandi magnati della finanza internazionale e di tutti quegli esponenti del mondo economico e alto-industriale, politico e istituzionale, accademico e culturale, giornalistico e massmediatico, i cui interessi professionali, monetari e ideologici sono organici proprio alla tutela di quei forzieri o intorno ad essi gravitanti?

I cattolici che possono devono darsi da fare anche per i cattolici che obiettivamente non possono, mentre devono dire apertis verbis che i fratelli di fede che potrebbero fare e non fanno o addirittura si rendono complici delle palesi, molteplici e spesso volute iniquità di questo mondo saranno chiamati severamente da Dio a rendere conto del loro operato. Quando un cattolico si lascia divorare dai dubbi, da discorsi opportunistici che inevitabilmente distruggono i valori fondamentali della vita, da ripensamenti continui circa il rigore spirituale ed evangelico con cui occorrerebbe impegnarsi e testimoniare la propria fede sui molteplici versanti della comune quotidianità, egli diventa un pusillanime privo di dignità e di coraggio, un vile incapace di testimoniare la sua fede, un essere pronto persino a rinnegare la sua fede e ad offrire idolatricamente se stesso a quei mercanti che, per ragioni appunto mercantili e non etici né spirituali, dovessero ipoteticamente corrispondere, chissà quando e in quale misura, a sue mere aspettative materiali.

I buoni cattolici oggi sono quelli che, avendone piena facoltà, si espongono sia per contrastare le false e perverse etiche di una postmodernità malata che troppo spesso disconosce la natura umana e confonde i suoi reali bisogni con le sue deviazioni o irregolarità patologiche e reclama diritti inesistenti là dove sarebbe il caso di chiedere giudizi più umani ma anche più onesti e veritieri, sia anche per contrastare il risorgente potere di Mammona in ogni sua forma e di tutti i suoi disonesti sostenitori che disonesti sono o restano anche quando vogliano apparire solerti ed integri funzionari del diritto politico-finanziario internazionale. Non importa poi che i loro sforzi abbiano o non abbiano successo: saprà il Signore come e quando utilizzarli e valorizzarli. L’importante, anche in questo caso, è seminare, è gettare semi di amore, di giustizia anche sociale, di fraterna e sincera solidarietà a tutti i livelli, in modo non violento ma risoluto, per finalità non sovversive ma evangelicamente innovative e realmente comunitarie che notoriamente in questo mondo non potranno mai essere perseguite in maniera lineare e agevole.

Certo, questi sforzi non avranno alcun valore se non facendo esperienza e prendendo coscienza della propria condizione e questo non sarà possibile «per decreto o semplicemente enunciando princípi scopiazzati da vecchi libri malamente interpretati» né, tanto meno, sulla base di un impegno civile e religioso tanto equivoco e supponente quanto sterile e velleitario, ma solo per mezzo di una silenziosa ed intensa attività di preghiera e di un umile e costante affidamento alla infinita misericordia di Dio. Lungo il cammino sarà indispensabile invocare la vicinanza e l’assistenza della Madre celeste, di Colei da cui, come è stato ben scritto recentemente, «impariamo solo gesti e segni di vera comunione – perché Lei di questo è vissuta, in terra, ed eternamente vive in Cielo - in una responsabilità condivisa, che rende anche noi protagonisti del nostro destino e di quello del mondo» (Maria Santissima, promotrice di bene e luce di speranza, in “Zenit”, 13 luglio 2012).

Nessuno più di lei, al momento opportuno, potrà ricordare a noi tutti, affetti dalla tendenza «a pretendere tutto per noi» – cose, affetti, attenzione e riconoscimenti altrui – adombrandoci «se ci sentiamo messi da parte», che Gesù non disse mai «è mio!; ma: Io sono tuo, ti appartengo, liberamente e totalmente. Rinnego me stesso, fino all’obbrobrio della Croce, perché tu sia felice» (Ivi). Pare che la madre di Gesù, nel luglio del 1917, abbia mostrato per qualche istante ai tre pastorelli di Fatima l’inferno, «aggiungendo, il mese successivo, che molti si perdono per la indifferenza e la tiepidezza degli altri» (Ivi), ovvero di noi stessi che, come credenti cattolici, e sia pure in forme e misure diverse, non possiamo non assolvere, al meglio delle nostre forze, la funzione di soldati di Cristo perennemente in servizio e al servizio di Dio e del prossimo. Teniamo presente anche questo. Stolti saremmo, peraltro, se dessimo per scontato che il racconto dei tre pastorelli sia falso.

Siamo dunque supplici di Maria per resistere al male, per compiere attivamente e responsabilmente il bene, portando sulle spalle una croce che ci renda concretamente partecipi della passione e dell’opera salvifica di nostro Signore Gesù.