The Catholic Church cannot remain silent about Israel's crimes*

Scritto da Francesco di Maria.

 

Ci risiamo. In Palestina le cose vanno sempre peggio, a conferma del fatto che anche il male come il bene può essere talvolta illimitato. Adesso le critiche, anzi le accuse di genocidio ai danni del popolo palestinese non vengono solo “da fuori”, non sono “esterne” al “conflitto” o meglio alla sistematica persecuzione in atto nei territori palestinesi, non possono più essere considerate semplicemente faziose e inattendibili. E’ da gangli fondamentali dello Stato di Israele che si alzano oggi chiaramente e coraggiosamente voci di denuncia e di condanna nei confronti della politica governativa e in parte della stessa società israeliane.

Sul portale canadese “Global Research” è stato pubblicato in data 30 agosto 2012 il comunicato di un’associazione di veterani israeliani denominata “Breaking the Silence” (che, ben nota in Israele con la sigla BTS, si può tradurre con “Rompiamo il silenzio” o “Usciamo dal silenzio”) che hanno combattuto nell’esercito dello Stato di Israele a partire dalla seconda Intifada esplosa a Gerusalemme il 28 settembre del 2000 a seguito della visita provocatoria e sprezzante del premier Sharon al Monte del Tempio.

Tale associazione ha raccolto sinora più di 700 testimonianze di soldati  provenienti da tutti i settori della società israeliana. Soldati sinceri e coraggiosi, anche se coperti provvisoriamente dall’anonimato per proteggersi da rappresaglie di Stato, soldati che narrano fatti oggettivi perché rigorosamente controllabili e verificabili e ulteriormente comprovati da testimoni oculari e da materiale d’archivio che è stato opportunamente consegnato ad organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani. I fatti raccontati sono stati «scrupolosamente controllati» per verificarne l’esattezza.

Nel comunicato o documento di cui sopra, intitolato “Israeli Soldiers Break Silence” ovvero “Soldati israeliani rompono il silenzio”, che non è il primo in verità pubblicato da BTS ma che si distingue dai precedenti per il particolare sdegno che viene espresso nei riguardi delle autorità politiche e militari israeliane, si susseguono in realtà centinaia di testimonianze di militari che hanno combattuto sino a poco tempo fa al servizio di Israele e la cui identità è stata accertata da organi di indagine e di stampa assolutamente attendibili anche se, come detto, non resa pubblica. Questi militari hanno avvertito ora il bisogno civile e morale di far venire alla luce quello che veramente succede, al di là dei resoconti ufficiali di parte israeliana e delle prese di posizione talvolta solo propagandistiche dei nemici stessi di Israele, nei Territori Occupati.

Essi, pur obbligati per legge al segreto, raccontano, con il preciso intento di informare il pubblico israeliano di fatti precisi e circostanziati per sollecitarlo a dibattere apertamente e responsabilmente le scelte e i crimini del suo governo, che l’Inferno non può essere più brutto di quel che l’esercito israeliano, inclusi purtroppo per il passato non pochi di loro, vede e soprattutto ha fatto e continua a fare in Palestina contro una popolazione del tutto inerme.

Gli abusi e i crimini da essi rivelati sono semplicemente raccapriccianti e fanno emergere chiaramente una immoralità e una barbarie non solo deplorevoli ma sistematiche e infami dell’occupazione militare israeliana. Nonostante la motivazione ufficiale di tale occupazione, cioè proteggere lo Stato di Israele e rafforzarlo, l’esercito è andato nel tempo e va ancora oggi ben oltre questo compito per dedicarsi in modo del tutto arbitrario e criminale al saccheggio, alla distruzione delle legittime proprietà palestinesi, al massacro reiterato di civili e persino di bambini. Gli ordini e le direttive ricevuti dall’esercito non hanno niente a che fare, dichiarano militari uomini e donne della BTS, con la sicurezza di Israele, pur minacciata dai terroristi, ma sono finalizzati esclusivamente al potenziamento del controllo israeliano sul popolo palestinese.

Nel documento dei veterani si legge: «non continueremo a combattere in questa guerra degli insediamenti…Non continueremo a combattere oltre le frontiere del 1967 per dominare, espellere, affamare e umiliare un intero popolo…Dichiariamo che continueremo a servire le Forze della Difesa di Israele in ogni missione che miri alla difesa di Israele», ma che «le missioni di occupazione e oppressione non servono questo obiettivo e non vi parteciperemo» (ivi). Alcune donne-soldato non solo confermano le testimonianze dei loro colleghi ma condannano esplicitamente lo stato di corruzione in cui versano le forze armate israeliane. Queste donne dicono che tutti i soldati di Israele, maschi e femmine, non possono più voler partecipare agli orribili crimini commessi anche a nome di tutti coloro che dissentono drasticamente dalle strategie messe in campo dai governi e dai più alti vertici militari.

Si leggono parole di condanna e di disprezzo per Sharon che non solo ha calpestato moralmente la dignità palestinese con atteggiamenti smargiassi e oltraggiosi ma è giunto a massacrare persino dei bambini, trasformando la Palestina in un campo di concentramento completamente isolato e utilizzando vigliaccamente carri armati e caccia bombardieri contro civili inermi. I suoi successori non hanno certo desistito e ridotto il grado di atrocità dei crimini contro i palestinesi: Barak, Netanyahu, e tutti i fautori della “linea dura”, sono chiara espressione del male, non del bene d’Israele e del male palestinese ma del male dello stesso Israele che non fa che alimentare l’odio altrui verso se stesso e propositi di vendetta sia nei palestinesi sia anche nelle popolazioni di tante nazioni civili del mondo: un odio che storicamente, prima o poi, produce sempre i suoi frutti avvelenati o catastrofici.

Perseguitati semplicemente perché indesiderati e perché di peso per le mire espansionistiche e le necessità di sviluppo dello Stato d’Israele, i palestinesi, commenta Stephen Lendman, sono oggetto ormai da decenni «di un interminabile ciclo di violenza, depravazione e degrado. A Gaza il lento genocidio si converte in politica. In Cisgiordania e Gerusalemme Est i soldati israeliani operano come nazisti. Hitler aveva un problema con gli ebrei. Israele ha un problema con i palestinesi. Non se ne può liberare e quindi li maltratta senza pietà. I soldati di Bts vogliono svelare queste verità scioccanti. Tutti hanno il diritto di sapere. Gli israeliani devono sapere in che società vivono. Il cambiamento è possibile se tutto questo viene alla luce del sole.

I media statunitensi occultano. In Europa lo fanno molto spesso. Le eccezioni sono rare. Confermano la regola. La corrispondente del Guardian di Londra, Harriet Sherwood, ha usato il titolo “Ex soldati israeliani rivelano maltrattamenti di bambini palestinesi” e dice: appartenenti di Bts “descrivono pestaggi, intimidazioni, umiliazioni, insulti e arresti notturni”» (in “Adista”, Contesti, n. 33, 2012).

Ma risulta che la pratica più atroce sia quella di torturare i bambini perché, anche se innocenti, confessino reati o delitti del tutto inesistenti. Alcuni avvocati inglesi hanno accusato Israele di gravi violazioni del diritto internazionale soprattutto «nel trattamento di bambini detenuti dai militari». Anche le donne sono molestate e umiliate continuamente dai militari in missione di guerra. Naturalmente tutto ciò non ha conseguenze né disciplinari né penali dal momento che l’impunità è la politica ufficiale, per cui crudeltà e barbarie istituzionalizzate passano completamente inosservate.

Un soldato confessa: «Eravamo indifferenti. Diventa un’abitudine. Si picchiava ogni giorno. Lo facevamo sul serio. Bastava che ci guardassero in un modo che non ci piaceva, direttamente negli occhi, e li colpivamo. Versavamo in un tale stato di frustrazione ed eravamo stanchi di stare lì». Un altro dice: «Spesso provocavamo disordini (a Hebron). Andavamo in pattuglia, camminando per il paese, ci annoiavamo e così distruggevamo negozi, picchiavamo qualcuno, sai com’è. Cercare di distruggere tutto! Volevamo una rivolta? Andavamo alle finestre di una moschea, distruggevamo i vetri, lanciavamo una granata per stordire, provocavamo un’esplosione e ottenevamo la rivolta»; ma non manca chi ha il coraggio di riferire che «ogni volta diamo la caccia a bambini arabi. Li catturiamo e premiamo i fucili contro il loro corpo. Non si possono muovere, sono completamente paralizzati…Eravamo veramente cattivi. Solo molto tempo più tardi, quando ho cominciato a pensare a queste cose ho capito che avevamo perso ogni tipo di pietà». E a dire che gli israeliani si offendono quando qualcuno li accusa di adottare metodi nazisti e anzi di essere tout court dei nazisti!

Peraltro tutte queste pratiche terroristiche ed omicide vengono continuamente intensificate o diversificate dai comandanti di più alto grado dell’esercito israeliano, incoraggiate dai rabbini più oltranzisti, avallate altresí da molti cittadini israeliani che fanno finta di non sapere pur sapendo bene quel che succede a due passi dalla propria abitazione.

Sino a quando questi soldati che hanno rotto il silenzio potranno rimanere anonimi? Ormai il loro documento è di dominio pubblico e non si può pensare che alla lunga l’intera società israeliana, a cominciare dai suoi leaders politici, possano rimanere indifferenti a rivelazioni cosí scandalose ed infamanti e possano non pensare di dover prendere provvedimenti oltremodo severi nei confronti di chiunque, non importa se ebreo, si metta di traverso ad una politica governativa e militare che è di semplice sterminio programmato, di lento ma inesorabile genocidio, dal momento che c’è oggi un’opinione pubblica mondiale non particolarmente coraggiosa e determinata a dire il vero verso i crimini israeliani ma al cui cospetto il popolo palestinese non potrebbe certo essere annientato in poche ore, magari nel quadro di un’unica, drastica e risolutiva operazione militare di pulizia etnica.

Sino a quando questi soldati israeliani non saranno costretti a deporre con tanto di prove in qualche tribunale, essi forse potranno vivere in una condizione di relativa sicurezza. Ma se arriverà quel momento, è molto difficile prevedere cosa potrebbe loro accadere, a meno che, ma non si possono coltivare al riguardo seri dubbi, tutta la società italiana non decida a sua volta di rompere il silenzio e di partecipare attivamente al fronte della verità. Quel che è certo è l’assoluta inattaccabilità delle loro testimonianze che rivelano il “male oscuro” di Israele, distruggono il mito veramente mai parso incrollabile di una democrazia israeliana integra ed esemplare, gettano pesantissime ombre di infamia su tutta la politica israeliana e sulla stessa storia dello Stato ebraico. 

Ora, mi pare proprio che, davanti a rivelazioni sempre più sconcertanti e ripugnanti su Israele, la Chiesa cattolica non possa più limitarsi a qualche vago e generico monito nei riguardi delle autorità israeliane, né la sua solidarietà verso i palestinesi possa continuare a ridursi ad opere pure meritorie di assistenza e di carità. E’ tempo che la Chiesa tolga sul serio dalla naftalina del suo album di famiglia quell’antica e nobile funzione profetica che, assolta con la determinazione di chi parla nel nome e per conto di Dio, in tanti momenti di epoche precedenti era stata capace di incutere profondo timore nell’animo dei potenti e di ottenere talvolta risultati apparentemente insperabili o irraggiungibili.

Conteranno certo anche i rapporti politici, le relazioni diplomatiche, gli scambi teologici e culturali, ma non c’è politica, non c’è diplomazia, non c’è teologia e cultura che valga la pena di salvaguardare se in gioco c’è la vita di una moltitudine di persone innocenti e la sopravvivenza stessa di un popolo. La Chiesa, in certi casi, non può assolvere il suo ruolo profetico in modo accademico o curiale e con la ineccepibile compostezza che deve scandirne gli ordinari ritmi istituzionali. La Chiesa, in un caso come quello che riguarda l’oppressione senza fine del popolo palestinese, deve reagire come reagiva Gesù quando gli facevano perdere le staffe, deve annunciare il vangelo sbracciandosi, compromettendosi, rischiando di attirare su di sé l’odio e la violenta reazione di quanti vorrebbero perseverare impunemente in pratiche scellerate e omicide.

Non si vuole, né si potrebbe certo idealizzare la Chiesa e pretendere che essa ripristini, nella sua attività evangelizzatrice e pastorale, la sua figura mitica delle origini. Si può e si deve chiedere, però, in spirito di umiltà, che la Chiesa, e perciò anche noi tutti ed ognuno di noi che ne facciamo parte e siamo in noi stessi Chiesa, sia sempre una Chiesa nascente o rinascente sotto il soffio perenne e vivificatore dello Spirito di cui essa deve saper percepire per tempo le sollecitazioni sempre nuove ed urgenti. Né si pensa minimamente che la Chiesa debba salire in cattedra per dare lezioni di morale e di spiritualità a destra e a manca, perché il cristiano sa che la prima cosa da fare per annunciare il vangelo è testimoniarlo nella propria condotta di vita. Però la Chiesa ha una cattedra che le appartiene di diritto essendo stata istituita e ad essa assegnata da Cristo in persona e questa cattedra è tenuta ad onorare non tanto accademicamente ma con riflessiva ed accesa passione evangelica la quale annovera tra le sue possibili implicazioni anche l’audace e umile capacità di dire all’avventato potente di turno: “Adesso basta, adesso fermati, altrimenti il nostro e il tuo Dio sarà costretto a punirti severamente, come ha sempre fatto anche in passato verso i popoli e i sovrani empi ed iniqui”.

D’altra parte, la Chiesa profetica, che, è opportuno ribadire secondo quanto insegna il “Catechismo della Chiesa cattolica”, non si riduce alla sola gerarchia ma si estende a tutti i laici credenti, è anche una Chiesa che sta in ogni senso vicino agli oppressi e ai perseguitati, pronta essa stessa a subire persecuzioni; è una Chiesa che evangelizza mentre conforta, mentre consola gli orfani, le vedove, i poveri. Quanti ce ne sono oggi in Palestina che desidererebbero essere, indipendentemente dalla loro fede religiosa, confortati, consolati, aiutati ad uscire definitivamente dall’inferno in cui sono rinchiusi loro malgrado! In Occidente, in Italia, non ci si può limitare ad esaltare il martirio cui si sottopongono ogni giorno tanti nostri fratelli e sorelle a causa della loro fede in Cristo in tante parti inospitali ed ostili del mondo, ma, noi che siamo qui in Occidente e in Italia molto più al sicuro di loro, non possiamo esimerci dall’essere almeno “politicamente scorretti” tutte le volte che non sussistano dubbi sulla violazione di elementari diritti naturali in questa o quella parte del mondo.

Come potremmo tacere noi, quando oggi in Cina centinaia di nostri fratelli sono in carcere proprio perché si rifiutano di tacere e di confinare nel proprio privato la loro fede in Cristo? Come potremmo tacere sulla natura violenta dell’Islam quando tanti fratelli che vivono nei Paesi islamici sono uccisi, perseguitati e privati di diritti di cui godono invece i cittadini di fede islamica? E perché mai, per l’appunto, dovremmo tacere sul feroce e quotidiano olocausto cui sono sottoposti i fratelli islamici della Palestina o sulle pesanti restrizioni imposte da Israele agli stessi cristiani residenti in Palestina? Dovunque c’è un uomo che patisce fame o iniquità, là deve esserci una Chiesa capace di soccorrerlo e di offrire persino la vita per la sua difesa. Parola di Dio.

Altrimenti, in che modo la Chiesa potrebbe realmente fungere da “portavoce di Dio” e da sale che dà sapore alle cose della terra se optasse sempre o spesso per la mediazione e la riconciliazione a tutti i costi e non anche per una dura e radicale contestazione di quei poteri violenti diffusi nel mondo che infrangono regolarmente le leggi di Dio? Come ha scritto Paolo: «Se cercassi di piacere agli uomini, non sarei servo di Cristo». (Galati 1, 10). Il ruolo profetico della Chiesa consiste nella radicalità del suo annuncio e delle sue posizioni: non si tratta di addomesticare tali posizioni per venire incontro a presunte irrinunciabili esigenze umane dei fedeli, o per non dispiacere troppo a talune influenti personalità o gruppi politici della società civile, o per non rischiare di alterare troppo i rapporti con i potenti del mondo, perché, al contrario, senza dover necessariamente sacrificare il senso di umanità alla presunta rigidità della ragion teologica, essa è tenuta ad agire senza sdoppiamenti e con assoluta coerenza morale soprattutto nelle situazioni in cui più alto si preannunci il costo da pagare per servire la causa della verità e del servizio in Cristo.

Ma la natura profetica, e quindi il rigore o l’intransigenza dell’annuncio ecclesiale, non sono fini a se stessi bensí condizioni o strumenti necessari per stimolare, pungolare, provocare specialmente quanti siano a corto di rettitudine e spirito di giustizia a mettersi in discussione e, se necessario, a ravvedersi. E’ questo risultato che l’azione apostolica e pastorale della Chiesa deve produrre, perché altrimenti è sempre in agguato la possibilità che il Signore debba dire anche a noi: «Perché sei tiepido e non sei né freddo né fervente, io ti vomiterò dalla mia bocca» (Apocalisse 3,16). Se sugli efferati crimini di Israele contro i palestinesi hanno rotto il silenzio persino i veterani dell’esercito israeliano, perché non dovrebbe fare altrettanto, e con accenti biblico-evangelici veementemente profetici, la Chiesa universale di Cristo, sempre ricordando che la fonte (che richiede dunque l’attento ascolto del profeta) come lo scopo di ogni profezia è Cristo medesimo con i suoi insegnamenti e le sue promesse, la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione?

 

*Il titolo in inglese risponde all’esigenza spirituale di rendere virtualmente più visibile questa testimonianza di fede ad un pubblico più ampio di quello italiano.