La violenza sulle donne e i padri sacramentini di Caserta

Scritto da Francesco di Maria.

 

Il 9 dicembre del 1962, alla fine della prima sessione del Concilio Vaticano II, papa Giovanni XXIII proclamava santo il sacerdote francese Pier Giuliano Eymard con queste parole: «Accanto a Vincenzo de Paoli, a san Giovanni Eudes, al Curato d’Ars, Pier Giuliano Eymard prende posto oggi nella moltitudine degli astri risplendenti che fanno la gloria e l’onore del Paese che li ha visti nascere, ma la cui beata influenza si esercita ben al di là, nella chiesa tutta intera. La sua nota caratteristica, l’idea direttrice di tutte le sue attività sacerdotali, lo si può dire, fu l’Eucaristia: il culto e l’apostolato eucaristico».

La comunità sacramentina, ovvero la prima forma di comunità che nasce nell’ambito dell’esperienza sacerdotale e pastorale di Pier Giuliano Eymard, fu chiamata cosí proprio in ossequio alla particolare e adorante devozione da questi manifestata durante tutta la sua vita verso la santissima Eucaristia. Ma, a parte questo, Eymard, alla sua morte, non aveva ancora chiaramente fissato i princípi statutari e le specifiche finalità apostoliche della sua comunità, tant’è vero che, proprio sotto questo rilevante aspetto, nel ventennio successivo alla morte del fondatore, la Congregazione dei padri sacramentini avrebbe conosciuto una profondissima crisi di identità.

Sarebbero stati altri, quindi, a cercare di mettere ordine nelle sue carte, nei suoi pensieri e nei suoi appunti, per tentare di dare alla Congregazione medesima una legittimazione spirituale e apostolica in grado di rispecchiare in qualche modo l’opera realmente svolta dal sacerdote francese. Se i successori di quest’ultimo siano riusciti e in  che misura a fornire a detta istituzione una legittimazione capace di esprimere e testimoniare il reale pensiero, la vera volontà, i fondamentali scopi che avevano animato la vita spirituale del santo fondatore, è obiettivamente difficile dire. L’unica cosa certa è che oggi i Padri sacramentini hanno una diffusione internazionale resasi possibile grazie a notevoli mezzi finanziari di cui essi hanno potuto disporre nel corso del ‘900 nonostante periodi e vicende molto difficili che li avrebbero visti talvolta in seria difficoltà.

Il padre Eymard aveva sognato di “coprire la terra di una rete di fuoco” e, almeno per quanto riguarda la diffusione materiale e organizzativa del suo “ordine”, pare che il suo sogno stia diventando realtà, anche se, è doveroso precisare, la sua comunità spirituale, che era nata in un quartiere popolare in cui la comunione eucaristica veniva vissuta ed esercitata non solo in senso liturgico ma anche e soprattutto in senso sociale e in termini di mutua e fraterna solidarietà, sarebbe diventata nel tempo una comunità dalle referenze sociali ben diverse, ovvero una comunità operante in quartieri socialmente altolocati e questa diversa connotazione sociale avrebbe rapidamente fatto sí che la stessa prassi eucaristica venisse assumendo una valenza liturgica e cultuale sempre più accentuata e sempre meno incardinata in una sentita, solidale e complessiva esperienza eucaristica e comunitaria di vita.   

Questa è, grosso modo, la storia dei padri sacramentini che  dal 2004 hanno un loro gruppo, noto come Casa Zaccheo, anche nell’italica città di Caserta, dove, come scrivevano un anno fa alcuni suoi esponenti (“Adista”, 2011, n. 36), «cerca di partecipare “da dentro” alle dinamiche sociali e civili della città e del territorio: essa interpreta l’Eucaristia come forza di trasformazione della società».

Ma, a quanto pare, la loro opera non si limita ad essere un’umile e silenziosa opera caritativa svolta tra i poveri, gli oppressi e gli sfruttati tra cui molte donne del territorio casertano, perché questi preti di Caserta tengono a far sentire la propria voce soprattutto quando ritengono che a violare i diritti dei soggetti più deboli e indifesi siano proprio coloro che più degli altri dovrebbero vivere e testimoniare i valori evangelici, ovvero altri preti. E’ cosí accaduto che i sacramentini di Caserta abbiano inveito di recente contro don Piero Corsi, parroco di Lerici e ormai tristemente famoso per aver fatto affiggere sulla porta della sua Chiesa il famigerato “volantino” sulla violenza contro le donne.

Essi hanno sottoscritto infatti una specie di documento in cui dichiarano quanto segue: «Ci associamo alla forte reazione di indignazione e di protesta delle donne -in particolare delle donne di Lerici ferite più da vicino- e del mondo civile laico non solo per il già deplorevole “coraggio” di affiggere l’incriminato volantino ma, cosa ancor più grave, per la esplicita concezione della donna “colpevole del male del mondo” che credevamo superata ma che continua invece ancora ad emergere e addirittura "colpevole di causare quei crimini che contro di lei perpetra il maschio"». E poi, giusto per affondare il dito nella piaga, aggiungono senza nessuna pietà: «Aspetto ancor più allarmante, se non criminale, è la triste constatazione che questa concezione è nella testa di coloro, come tra noi preti, chiamati ad un compito pastorale di formazione delle coscienze secondo lo sguardo e la prassi di Gesù nei confronti della donna contenuti nel Vangelo e secondo quanto lo Spirito ha parlato nel Concilio Vaticano II°. Riferimenti che, evidentemente, don Piero Corsi non ha o non accetta se gran parte del contenuto del volantino contiene, cosa che tutti possono verificare, il contrario del Vangelo, del Vaticano II° e il riferimento esplicito ai tradizionalisti di Lefebvre!».

Tutti possono verificare, sostengono i sacramentini casertani, che don Piero ha agito contro il vangelo. Non tutti, non io che non ho avuto e non ho la stessa apodittica certezza di questi sacerdoti campani. Mi sono già occupato della vicenda e rinvio al relativo articolo coloro che volessero comprendere come e perché da cattolico per niente “tradizionalista” o “lefebvriano” dissento radicalmente da posizioni e giudizi di questo tipo.

Il maschio è cattivo, la femmina è buona; il maschio è buono, la femmina è cattiva: mi chiedo se non sia tempo di finirla con queste volgari e banali semplificazioni o generalizzazioni contrapposte e soprattutto se non sia tempo, da parte di religiosi che dovrebbero fare un uso prudente e meditato della parola di Dio, di smettere di operare maldestri e strumentali riferimenti al vangelo su questioni umane, morali e sociali particolarmente delicate e complesse.

I padri sacramentini di Caserta scagliano una pietra di condanna contro un loro confratello del clero regolare cattolico addirittura nel nome del vangelo e dell’atteggiamento sempre e comunque comprensivo e benevolo che Gesù avrebbe avuto nei confronti delle donne. Certo, nei vangeli sono numerosi gli episodi in cui Gesù si mostra oltremodo compassionevole verso le donne. Ma nei vangeli, che hanno anche una precisa funzione educativa ed emancipativa, questo accade non perché Gesù ritenga i peccati delle donne meno gravi di quelli degli uomini quanto per la condizione di inferiorità psicologica e sociale in cui esse storicamente si trovano rispetto agli uomini. Donne e ancor più donne malfamate, bambini, poveri, non hanno già la salvezza in tasca solo per essere discriminati ed emarginati, ma Gesù si mostra loro particolarmente vicino per sottolineare che Dio è vicino innanzitutto e soprattutto alle creature più indifese e più afflitte, senza che tuttavia ciò comporti in lui prese di posizione aprioristiche e pregiudiziali a sfondo vagamente ideologico.

Nei Vangeli, come tutti sanno, si parla in modo sferzante anche di una certa Erodiade. Se ne parla senza alcuna indulgenza come di una donnaccia, come di un’adultera recidiva cui piacciono ricchezza e potere e totalmente immersa nei vizi e nei piaceri più perversi del mondo; come di una madre depravata che spinge persino la propria figlia sulla via della dissolutezza e del delitto; e infine come di una vera e propria assassina che non esita a sfruttare l’immaturità intellettiva ed emotiva della figlia per ottenere da Erode Antipa la decapitazione di Giovanni Battista. Su questo prototipo di femminilità perversa e omicida, deviata e forse irredimibile, che ha il potere di incattivire o comunque di istigare l’uomo alla violenza e al delitto, il Battista, nella durezza delle sue celebri reprimende, e Gesù, nella relativa pacatezza dei suoi avvertimenti e dei suoi moniti, restano uniti in un giudizio di radicale e incontrovertibile condanna. Il fatto è che Gesù ama le donne non demagogicamente, non come certi “pastori” nostrani che, per motivi spesso inesprimibili o poco edificanti e qualunque cosa le donne pensino o facciano, tendono sempre a scusarle, a giustificarle, a deresponsabilizzarle, minimizzandone colpe talvolta inescusabili e orribili e pensando cosí di apparire agli occhi di Dio e delle donne stesse persone più buone e più sante di quel che realmente sono.

Se una donna abortisce senza darsi troppo pensiero, Gesù è ancora lí a rimproverarla aspramente; se una donna tradisce il proprio uomo in modo spudorato e senza alcun ritegno, Gesù è lí a ricordarle che il perseverare in una siffatta condotta porta dritto all’inferno; se una donna fa di tutto per provocare o incattivire un uomo, Gesù non le sorride affatto ma al più cerca di liberarla dai demoni che si sono impossessati di lei; se una donna religiosissima esteriormente nasconde in realtà una superbia che non si sforza minimamente di ridurre, Gesù di certo non le sarà amica anche se lei si dovesse mettere ai suoi piedi senza pentirsi di nulla. Per non parlare di tutte quelle donne che, oggi attivissime nel farsi promotrici di cause emancipative tanto appariscenti quanto fasulle sul piano comportamentale e nei diversi campi della vita, avrebbero in Gesù un giudice molto severo e intransigente.

Gesù fu duro talvolta persino verso la sua santa madre: come si può pensare che egli sia stato o sia particolarmente riguardoso e per cosí dire capace di una tenerezza malsana verso donne peccatrici? La misericordia di Dio non è una misericordia dolciastra, sentimentalistica, ma resta una misericordia virile ovvero sempre connessa ad un senso forte di razionalità e di giustizia.

C’è qualcosa di anomalo nel pensiero di quel don Angelo Casati che i padri sacramentini di Caserta citano come una specie di padre della Chiesa: «Soffro la sensazione», egli ha scritto in un articolo del 2007, «che nella chiesa, al di là delle parole, la donna sia in qualche misura ancora sospettata, come la si ritenesse portatrice di qualcosa di imprevisto, di oscuro, come se la sua femminilità fosse abitata da una forza pericolosa. Non sarà che anche per questo le donne vengono per lo più celebrate nella chiesa per la loro maternità, la donna madre, che non per la loro femminilità, la donna in quanto donna?» (La mia piccola voce per le donne). Direi: c’è qui qualcosa di anomalo e di specioso, visto che la donna in quanto donna non meno dell’uomo in quanto uomo, come dovrebbe esser noto persino al più sprovveduto dei credenti cattolici, ha determinato il destino mortale dell’umanità che solo il Cristo redentore avrebbe trasformato e riconnesso all’originario destino celeste di gioiosa immortalità.

Ci sono o non ci sono donne che odiano senza validi motivi, che desiderano il male altrui, che vivono licenziosamente, che sono anche dedite a pratiche sociali illecite e corrotte, che si macchiano di crimini abominevoli, che fanno del loro opportunismo la molla principale per tentare scalate di ricchezza di potere o di successo, che trascurano sistematicamente la propria famiglia e i propri figli per perseguire scopi che abbiano a che fare con mere ambizioni personali piuttosto che con reali necessità di vita, che anche professionalmente non sempre risultano capaci integre e irreprensibili? Che dicono don Angelo Casati e i sacramentini di Caserta: esistono o non esistono queste donne, vanno o non vanno duramente riprese e redarguite, meritano o non meritano gli stessi giudizi di biasimo generalmente rivolti agli uomini, sono o non sono corresponsabili con quest’ultimi dei mali del mondo? Perché, se la risposta fosse negativa, bisognerebbe rivolgere loro una domanda più radicale e provocatoria: ma quale vangelo avete letto, meditato, assimilato, approfondito, testimoniato? E quale vangelo state predicando?

Condivido quel che scriveva un paio di anni or sono il Superiore Provinciale dei padri sacramentini italiani, ovvero padre Santi Rizieri: «fa la comunione non chi si limita a mangiare il corpo del Signore o a godere intimisticamente quei momenti quasi mistici, ma chi dalla mensa eucaristica parte per fare del mondo il luogo del ringraziamento a Dio datore di ogni vita» (in “Notiziario” del settembre 2010). Perfetto: la mensa eucaristica non deve essere vissuta solo in senso liturgico ma in un più ampio e partecipato senso esistenziale, ricordando però sempre, in aggiunta alle parole di padre Rizieri, che quella mensa di sapienza e di vita sacramentali è anche una mensa di verità assoluta, anzi è la mensa per eccellenza della verità tout court, e che questo implica un nostro dover stare accanto al prossimo non assecondando in modo istintivo, emotivo, sentimentale i soggetti obiettivamente più deboli come possono essere per esempio ancor oggi sotto il profilo psicologico e sociale le donne o tante donne sole e sfruttate, ma valutandone gli atti e sollecitandoli al bene in modo consapevole, riflessivo, razionale, obiettivo e responsabile secondo i criteri non ipocritamente ma onestamente e rigorosamente veritativi del Logos divino, che sono criteri cui è possibile accedere correttamente solo prestando molta attenzione al modo in cui noi ascoltiamo la stessa Parola di Dio: “Fate attenzione…a come ascoltate, perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere”, ammoniva Gesù (Lc 8, 18).

Perciò, anche la questione della violenza maschile sulle donne va affrontata secondo verità e non, unilateralmente, secondo determinate convenienze storiche, e poco importa che qualche prete che si sente più maschio di altri affermi con intendimenti provocatori forse mal riusciti: «Dove sono i maschi? Poche sono le voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi c’è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un grande bisogno di liberazione» (Casati, op. cit.).

Importa molto di più, invece, che i nostri giudizi e le nostre azioni siano quanto più possibile ispirate dalla sapienza che viene dall’alto, laddove, come ci fa notare l’apostolo Giacomo (3, 17),«la sapienza che viene dall'alto è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace». La donna non può essere difesa evangelicamente se ne facciamo un feticcio, un totem, e se il parlarne con vera e coraggiosa libertà spirituale diventa un tabù per ragioni di mera convenienza o opportunità storico-sociale.