Peccatori e corrotti

Scritto da Giorgio Surgente on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Peccatori siamo tutti, inevitabilmente; peccatori restiamo anche se lavati dal battesimo, rigenerati dallo spirito e redenti dall’offerta sacrificale di sé in Cristo per amore verso Dio, perché, anche se liberi sacramentalmente ed eucaristicamente dal peccato originale, continuiamo a restare soggetti ai cosiddetti peccati “attuali” sino alla fine della nostra vita; peccatori non smettiamo di essere persino quando ci adoperiamo con tutte le nostre forze a servire il Signore e ad amare il prossimo, perché anche in tal caso siamo inevitabilmente soggetti alla tentazione e al peccato di crederci spiritualmente autosufficienti e capaci di raggiungere umilmente, sia pure con l’aiuto forse più dichiarato che implorato di Dio, uno stato di soddisfacente santità. Se cosí non fosse, bisognerebbe ritenere falsi o falsamente modesti tutti quei santi canonici che si sono sempre dichiarati peccatori tra i peccatori agli occhi di Dio.

Però, e fermo restando che non tutti sono peccatori nello stesso modo e con la medesima indegnità, essere peccatori che hanno e conservano il senso del peccato e dei propri peccati e si sentono pertanto spinti al pentimento e al ravvedimento, è sempre meglio che non l’essere irriducibilmente corrotti, ovvero incapaci di vero pentimento e di reale volontà di trasformazione interiore. E’ ciò che si legge chiaramente in un libro di papa Francesco, intitolato “Guarire dalla corruzione” e pubblicato dalla casa editrice EMI nel 2013.

Meglio un peccatore incallito, scrive il papa, ma consapevole di esserlo  e portato a dolersene onestamente, che non una faccia dipinta di candore, una faccia “da santerellino” addottorato in “cosmetica sociale” e sempre in grado di fare ragionamenti edificanti o impegnati pur coltivando in realtà, in modo più o meno inavvertito, nient’altro che un miserevole culto di sé o della propria egoità. Se, in quanto peccatori, ci pentiamo sinceramente e, profondamente contriti, durante tutta la vita, torniamo sempre a chiedere umilmente perdono a Dio, possiamo ben sperare di poter sempre ottenere il perdono di Dio, mentre il cuore corrotto «è talmente arroccato nella soddisfazione della sua autosufficienza da non permettere di farsi mettere in discussione».

Ma la corruzione spirituale non è forse un peccato come gli altri? No, è molto peggio di un semplice peccato, perché peccatori come il pubblicano Matteo, il ricco esattore Zaccheo, l’eretica samaritana o l’eversivo ladrone crocifisso vicino a Gesù, avevano coscienza delle loro debolezze, dei loro limiti, e appunto delle loro colpe, mentre altri peccatori come i farisei, i sadducei, gli esseni o gli zeloti, erano tutti orgogliosamente convinti di essere uomini giusti anche al di là dei loro errori o delle loro trasgressioni giornaliere perché sicuri di conoscere e di aver interiorizzato Dio meglio di chiunque altro, per cui non riuscivano più a sentire i moniti della coscienza e la stringente necessità di chiedere e ottenere il perdono di Dio.

Questa essenziale distinzione tra peccatore e corrotto vale naturalmente anche per il nostro tempo. Anche oggi è molto diversa la situazione di chi, nonostante una sincera e profonda conversione a Cristo, pecchi di superbia, di concupiscenza o di altro, in quanto l’uomo nuovo che pure in lui si è dischiuso non riesce ancora a sconfiggere definitivamente l’uomo vecchio che in lui tenta di sopravvivere, e sia comunque cosciente del male che continua a commettere, nonché ardentemente desideroso di riconoscere e confessare i propri peccati per ottenere il perdono del Signore, rispetto alla situazione del peccatore corrotto, in quanto questi si è talmente invaghito delle proprie idee, delle proprie opere, della propria ipotetica integrità spirituale e del proprio modo abitudinario o istituzionale di pregare e di servire il Signore, da percepire ormai se stesso quasi come avvolto da una specie di nube esistenziale di santità che gli procura la sensazione di essere come stabilmente protetto da ogni genere di manchevolezza verso Dio e verso gli uomini.

E, anzi, osserva il papa, generalmente un uomo del genere, ovvero il corrotto, è anche particolarmente suscettibile, nel senso che «si offende dinanzi a qualunque critica, discredita la persona o l’istituzione che la emette, fa in modo che qualunque autorità morale in grado di criticarlo sia eliminata». Un uomo del genere è portato a danneggiare non solo se stesso dal punto di vista spirituale, ma anche il costume culturale, sociale e politico della comunità locale o nazionale cui appartiene, perché è un uomo che, non mettendosi mai in discussione, cerca di salvare sempre le apparenze (i “sepolcri imbiancati” presi di mira da Gesù), di giustificare sempre i propri errori anche se molto gravi e di colpevolizzare sempre a dismisura gli errori altrui anche se non particolarmente scandalosi.

Anche oggi per la persona corrotta, in cui il senso della verità tende ad attenuarsi notevolmente e che si può definire come un peccatore potenziato e molto più a rischio di perdizione eterna rispetto al peccatore per cosí dire ordinario, il mondo si divide in buoni che sarebbero i suoi “complici” e in cattivi che sarebbero i suoi “nemici”, tutti coloro cioè che la pensano diversamente. A quali risultati possa condurre un tale modo di ragionare in tutti gli ambiti della vita associata, è facilmente intuibile.

Ma la cosa più terribile è che uno non diventa corrotto improvvisamente, essendo invece la corruzione il portato di un lungo cammino fatto sempre nella direzione sbagliata sino a diventare inavvertitamente una radicata e non più facilmente eliminabile abitudine di vita. E’ come quando uno che non si sa lavare o non presta attenzione a lavarsi per bene, comincia ad emanare un odore sgradevole di cui non si rende conto sino a quando qualcosa o qualcuno non lo costringa molto bruscamente a prenderne atto e a porre rimedio.

Fuor di metafora: a volte il corrotto può essere svegliato dal torpido sonno della sua ragione e della sua coscienza solo da qualche malattia o lutto improvvisi, da qualche inattesa débâcle professionale o finanziaria, o da un qualunque altro possibile evento fortemente traumatizzante. Ma anche in questi casi non è detto che la guarigione sia sicura. Non c’è dubbio che ogni essere umano prima o poi si trovi a dover vivere la “notte del peccatore” e che Gesù tuttavia abbia o serbi sempre una “carezza” per tutti. Però, nota sapientemente papa Bergoglio, c’è notte e notte, perché ad esempio la notte della Maddalena non è uguale alla notte di Giuda, definito da Gesù “figlio della perdizione”. La notte di Giuda è la peggior notte perché è la notte definitiva, quella in cui il cuore si è chiuso per sempre, ed è diversa dalla notte del comune peccatore, ancora sensibile al senso del peccato e capace di vedersi nella propria miseria al di là di ogni sforzo pure sincero verso la santità, perché questa notte, come scrive il papa, «è provvisoria, poi la speranza si fa largo e ci spinge a un nuovo incontro con Gesù».

Nel sito “Aleteia”, si legge, a commento del libro del papa, il seguente pensiero: «La corruzione è l'erba cattiva del nostro tempo che si nutre di apparenza e accettazione sociale, si erge a misura dell'agire morale, e può consumare dall'interno, in atteggiamenti di “mondanità spirituale” quando non di “sclerosi del cuore”, anche la stessa Chiesa. E se per il peccato esiste il perdono, per la corruzione no. Per questo la corruzione deve essere guarita». Poiché «la corruzione non è un atto, ma uno stato, uno stato personale e sociale, nel quale uno si abitua a “vivere”, attraverso “il generarsi di abitudini che vanno deteriorando e limitando la capacità di amare”», essa può essere considerata come radicalizzazione progressiva e spesso irreversibile di una incapacità quasi congenita di percepire il senso del peccato.

Ora, «il processo che porta dal peccato alla corruzione è un processo di “sostituzione di Dio con le proprie forze”. La genesi si rintraccia in una “stanchezza della trascendenza”: di fronte al Dio che non si stanca di perdonare, il corrotto si erge come autosufficiente nell'espressione della sua salvezza: si stanca di chiedere perdono». Non è che tale stanchezza venga eliminando la trascendenza, ma viene certamente rendendola “frivola”, troppo leggera cioè per poter essere percepita nella sua effettiva “grandiosità” e “terribilità”, e di conseguenza la trascendenza è presente troppo tiepidamente nel peccatore corrotto per poterlo indurre a mettere ogni volta in radicale discussione la sua stessa vita (M. Testa, Papa Francesco: il peccato? Meglio della corruzione, in “Aleteia” del 26 marzo 2013).

Da ciò deriva che il corrotto, anche quando predica il bene ed esorta gli altri a non giudicare, in realtà, essendosi già collocato psicologicamente al di sopra degli altri e delle loro presunte o reali bassezze,  tende ad ergersi a «giudice degli altri» e a farsi «misura del comportamento morale». E, inevitabilmente, finisce per scivolare anche in una sorta di “mondanità spirituale” e in un connesso “trionfalismo” secondo cui il suo sguardo spirituale risulta rivolto molto più «all’uomo e al suo perfezionamento» che non «alla gloria di Dio» (ivi).

Stando cosí le cose, il corrotto, poiché tende a valutare tutti secondo la propria misura morale, il più delle volte non conosce né fraternità, né amicizia, ma solo «la complicità»: infatti, scrive il papa, «la corruzione è proselitista» e «si camuffa da comportamento socialmente accettabile» come succede con «Pilato che fa come se il problema non lo riguardasse, e perciò se ne lava le mani, anche se in fondo è per difendere la sua zona corrotta di adesione al potere, a qualsiasi prezzo».

Infine particolare attenzione dedicava già nel 2005, l’anno in cui scriveva su questa tematica, l’allora cardinale di Buenos Aires alla corruzione dei “religiosi”. Come bene rileva Mirko Testa, l’autore del commento citato al libro di papa francesco, Bergoglio «fa poi una disamina molto lucida degli “stati di corruzione quotidiana” che lentamente “fanno arenare la vita religiosa”. Si tratta di una specie di paralisi che si produce quando un'anima si adatta a vivere tranquillamente in pace. All'inizio, c'è “il timore che Dio ci imbarchi in viaggi che non possiamo controllare”. Ma cosí facendo…“gli orizzonti si rimpiccioliscono a misura della propria desolazione o del proprio quietismo. Si teme l'illusione e si preferisce il realismo del meno alla promessa del più”.  E qui si annida il pericolo, perché “nella preferenza per il meno che sembrerebbe più realista c'è già un sottile processo di corruzione: si arriva alla mediocrità e alla tiepidezza (due forme di corruzione spirituale)”, un piano inclinato che conduce “allo scoraggiamento dell'anima”, in una “lenta, ma definitiva, sclerosi del cuore”. Ecco allora che l'anima si aggrappa a tutti i prodotti che “il supermercato del consumismo religioso” gli offre, e quindi tenderà a interpretare la “vita consacrata come una realizzazione immanente della sua personalità”, oppure inseguirà la “soddisfazione professionale”, quando si compiacerà della stima altrui, o si dedicherà a una intensa vita sociale. Di qui l'invito dell'allora arcivescovo di Buenos Aires: “la nostra indigenza deve sforzarsi un poco per aprire uno spazio alla trascendenza”, perché “il Signore non si stanca di chiamarci: 'non avere paura...'. Non temere, che cosa? Non temere la speranza...e la speranza non delude”» (ivi).