Che cos'è la mitezza

Scritto da Francesco di Maria.

 

La mitezza nella società contemporanea viene spesso concepita come sintomo o indizio di passività, debolezza e mancanza di coraggio. Ma in realtà, specialmente da un punto di vista evangelico, il mite è il giusto, è colui che ha ricevuto in dono uno spirito di giustizia, e dunque è anche colui che è paziente in quanto non chiede o non pretende nulla per sé perché sempre si dispone ad esser soggetto alla volontà di Dio, colui che non mormora e non si ribella al Signore ma si mette umilmente nelle sue mani. Se il mite è il giusto, è evidente che egli, nonostante le letture distorte o banali che spesso se ne danno, non possa né compiacersi del male né essere indifferente alle tante iniquità del mondo.

Al contrario, il mite-giusto, sempre caritatevolmente dalla parte dei deboli e degli oppressi, non mancherà di stigmatizzare profeticamente comportamenti personali e sociali di peccato e strutture arbitrarie o violente di potere politico ed economico, talvolta ricorrendo anche ad una “giusta ira”, che è poi quella cui ricorse Gesù in modo clamoroso per cacciare i mercanti dal tempio e quindi per preservare la purezza della fede da vili interessi economici o finanziari. La mitezza dunque, secondo il vangelo su questo punto in linea con l’Etica nicomachea di Aristotele, non va disgiunta dal coraggio ma fa tutt’uno con esso. Altro che inerzia, viltà o codardía, come molti erroneamente pensano o sono tentati di pensare a proposito della mitezza!

Questo è quanto viene felicemente chiarendo e precisando lo storico della filosofia Remo Bodei in un suo recente volume scritto insieme a Sergio Givone, Beati i miti, perché avranno in eredità la terra, Torino, Lindau, 2013. La mitezza in senso proprio, argomenta Bodei, va intesa, per l’appunto in termini aristotelici, come giusto mezzo tra l’iracondia – ovvero la tendenza sistematica o l’inclinazione priva di contrappesi a lasciarsi prendere o travolgere dall’ira, dalla collera o dalla rabbia, sino a trasformarsi ogni volta in incontrollato desiderio di vendetta anche violenta per un torto o un danno ricevuto o subíto – e l’eccessiva calma o flemma, ovvero una pazienza o un distacco psicologico e spirituale talmente accentuato dalle cose o dai fatti della vita da poter sfociare persino nell’indifferenza e nell’ignavia.

I cristiani, pertanto, quando parlano di mitezza, di misericordia, di non violenza, devono stare per primi molto attenti a non equivocare il senso di questi fondamentali concetti evangelici. L’ira, se diretta verso un male da contrastare o una tentazione da respingere, sia per ciò che riguarda la propria persona sia per ciò che si riferisce alla comunità di cui si fa parte, è uno strumento di Dio. Il mite non è cristianamente colui che si lascia sopraffare, che accetta l’ingiustizia o la violenza altrui senza reagire: ancora una volta è proprio Gesù a darne conferma allorché al soldato che lo schiaffeggia chiede non certo con il sorriso sulle labbra: “perché mi percuoti”? Essere miti è ben altra cosa dal sottostare vigliaccamente o pavidamente a qualsiasi tipo di sopruso e quindi dall’aver paura di reagire: è infatti la capacità spirituale di stringere i denti, di difendersi quanto più possibile in modo non violento o non vendicativo, anche quando il desiderio istintivo di dare un pugno in faccia a chi sta offendendo la nostra incolumità o la nostra dignità rischia di diventare incontrollabile. 

Il mite è colui che sa rispettare come un fratello anche chi sbaglia ma questo non implica che egli debba giustificare l’errore in quanto tale o essere permissivo verso condotte peccaminose proprie o altrui. Il mite è soprattutto colui che, pur disponendo della opportunità o della forza di annientare un avversario malvagio o in malafede, non infierisce su di lui; è colui che, pur potendo colpire non colpisce ma cerca altre soluzioni; è colui che nei rapporti interpersonali si sforza sempre di perdonare chi attenta alla sua vita o alla sua onorabilità ed affida la sua causa al Signore, o che nei rapporti politici ed internazionali non si stanca di fare uso del dialogo e della diplomazia. Ecco: è questo l’uomo mite che “erediterà la terra”, che riceverà la terra in eredità come dono di Dio.

Benché possa essere caratterialmente collerico, l’uomo mite è colui che si sforza incessantemente di moderare i suoi impulsi, i suoi scatti di nervi, i suoi sfoghi, per amore del prossimo e di Dio. San Paolo, cui avvenne di essere collerico in più di un’occasione (At 15,39) riconosce e consiglia saggiamente che, persino nei casi in cui si è deliberatamente presi di mira, non bisogna farsi giustizia da soli, che l’ira è di Dio e non dell’uomo e che l’uomo è tenuto a rintuzzarla in sé continuamente perché sta scritto: “a me la vendetta, io darò la giusta paga, dice il Signore” (Rm 12,19). Bisogna essere sempre pronti a raffreddare l’ira per cose che riguardano il proprio io, mentre di fronte al peccato pubblico o privato, e sia pure senza cadere in eccessi di arroganza e fanatismo, è del tutto legittimo e in taluni casi necessario partecipare alla “santa ira” di Dio: si pensi all’ira di Mosé contro il suo popolo per essersi costruito il vitello d’oro sul monte Oreb (Es 32, 19-22) o ai fremiti di sdegno provati da san Paolo ad Atene nel vedere “la città piena di idoli” (At 17,16). Al cospetto di tali e simili forme di peccato e di idolatria, come recita Geremia, gli uomini di Dio devono essere “ripieni dell’ira di Jahvé” (6,11 e 15,17).

Il Vangelo recepisce il ragionamento aristotelico dell’Etica a Nicomaco: quello per cui, di contro alla facilità con cui ci si può arrabbiare, bisogna impegnarsi spiritualmente perché ci si arrabbi innanzitutto con la persona giusta, nella giusta misura, al momento giusto e per una giusta causa. E se è vero che la tradizione della Chiesa considera l’ira come il quarto dei sette vizi capitali, è altresì vero che san Gregorio Magno tende ad essere molto più comprensivo verso l’ira per zelo che non verso l’ira per vizio. L’ira è un peccato grave quando scade nell’animalità con la violenza inarginabile delle parole e dei fatti e con una condotta cosí reiteratamente risentita e offensiva da non poter comportare alcuna forma di riconciliazione con il suo destinatario, sebbene alcuni moralisti biblici considerino lecita l’ira giusta, ovvero l’ira di chi si adira ragionevolmente per colpe gravi postulandone anche il relativo e immancabile castigo dal punto di vista religioso oltre e più che giuridico.

La mitezza evangelica non è un dato caratteriale ma una faticosa e continua conquista spirituale, non è una forma di quietismo o di indifferentismo psicologico ed esistenziale ma la ricerca volontaria di un modo di essere di fronte alle costanti provocazioni e prevaricazioni di cui è lastricata la quotidianità. Il mite non è un ingenuo o uno sprovveduto ma un soggetto ben consapevole di come sia arduo vivere con mitezza evangelica in un mondo sovraccarico di abusi e di soprusi, è il giusto-innocente, nel senso etimologico del latino in-nocentia ovvero del non nuocere praticamente e spiritualmente né a sé né agli altri; è colui che, nonostante la sua notevole capacità di discernimento e la sua lodevole integrità morale, si sente sempre sommamente imperfetto e peccatore agli occhi di Dio non per puro scrupolo ma per la conoscenza oggettiva dei suoi limiti reali e possibili che lo sprona appunto a compiere opere utili a sé e agli altri sotto un profilo eminentemente spirituale

Il mite è la persona umile e inoffensiva che comincia a perdere santamente la pazienza solo in presenza di atteggiamenti manifestamente irragionevoli ed ostili verso la propria persona e soprattutto verso il proprio prossimo più indifeso; è la persona che non si agita freneticamente per affermarsi e occupare posti di potere o di particolare visibilità sociale, che non opprime e non sfrutta alcuno, che sopporta serenamente ogni avversità e non fa mai uso della forza se non per motivi di legittima difesa non tanto personale quanto comunitaria, che infine è disposto in particolari situazioni-limite ad immolarsi per il bene altrui o comune.

Il mite evangelico non vuole la pace a tutti i costi perché egli sa che la vera pace è quella di Cristo, e dunque anche una pace strettamente connessa alla verità e alla giustizia. Una pace o una pacificazione contrarie a spirito di verità e di giustizia sono semplicemente false, fasulle, e il mite, che confida sempre in un Dio di verità di misericordia e di giustizia, preferisce una fiera resistenza pacifica anche se votata alla sconfitta piuttosto che una resa comoda e vantaggiosa ma assolutamente ingiusta e disonorevole. Tuttavia, il mite evangelico, che eccelle anche per saggezza, è disposto ad accettare e a subire qualunque torto, qualunque giogo, qualunque violenza se, al fine di preservare almeno vite umane o interessi vitali dei suoi congiunti e in generale dei suoi simili, non gli si dia altra alternativa che la capitolazione e la resa.

Come è stato giustamente osservato in una recensione sul bel libro di Norberto Bobbio “Elogio della mitezza” (Milano, Linea d’Ombra Edizioni 1994), «il mite “non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare,  di confliggere, e alla fine di vincere”. Ma la mitezza non è remissività: mentre il remissivo “rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione”, il mite invece “rifiuta la distruttiva gara della vita” per un profondo “distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più”, per mancanza di quella vanagloria che spinge gli uomini nella guerra di tutti contro tutti, “per una totale assenza della puntigliosità (...) che perpetua le liti anche per un nonnulla”. Il mite non è neppure cedevole, come chi ha accettato “la regola di un gioco in cui alla fine c’è uno che vince e uno che perde”» (E. Peyretti, “Foglio”, mensile di alcuni cristiani torinesi, 2004 n. 308).

Non si può d’altra parte non sottolineare significativamente che la mitezza «oggi è anche “una scelta storica: consideratela come una reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere”», per cui Bobbio conclude: «”identifico il mite con il nonviolento, la mitezza con il rifiuto di esercitare la violenza contro chicchessia”» (ivi). Meno condivisibile però sembra essere la conseguenza pessimistica ma eticamente e politicamente ben poco costruttiva che egli ne viene  traendo in relazione alla prassi politica. Bobbio infatti afferma perentoriamente: «Virtù non politica, dunque, la mitezza. O addirittura, nel mondo insanguinato dagli odii di grandi (e piccoli) potenti, l’antitesi della politica», il che poi lo porta addirittura a rovesciare, sia pure provocatoriamente, la beatitudine evangelica: «Guai ai miti: non sarà dato loro il regno della Terra», per il semplice fatto che «la mitezza non è una virtù politica, anzi è la più impolitica delle virtù» (ivi).

Se la conclusione bobbiana fosse fondata e si accettasse quindi che la mitezza si ponga o debba porsi fuori della politica o in antitesi ad essa, non si abbandonerebbe forse la politica stessa alla menzogna, all’inganno e alla violenza? Che senso avrebbe essere miti dal punto di vista morale e spirituale se non si avesse la concreta speranza di poter fare avanzare la mitezza nello stesso mondo politico, di poterlo migliorare modificandone i meccanismi perversi a tutto vantaggio di modalità più umane, più civili, più fraterne di azione politica? Certo, il cristiano sa bene che questo mondo sarà sempre pieno di negatività ma questo non è per lui motivo di desistenza e di fuga dal mondo politico bensí motivo di resistenza e di lotta per evangelizzare ed umanizzare nel miglior modo possibile tutti gli ambiti della vita storico-mondana, a cominciare proprio da quello politico.

Ma il laico Bobbio regala altri spunti di riflessione davvero pregevoli e preziosi anche per il cristiano. La mitezza, egli rileva, è il contrario dell’arroganza ovvero “dell’opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione”, e quindi il mite non ostenta nulla, neppure la propria mitezza di cui anzi dubita talvolta sinceramente. Infatti, la virtù ostentata, la virtù mostrata vistosamente o sfacciatamente, si converte inevitabilmente nel suo contrario: ostentare la carità vuol dire mancare di carità, ostentare la propria intelligenza vuol dire dimostrare la propria stupidità, a meno che ad una certa misurata ostentazione di sé non si ricorra volutamente a titolo provocatorio solo per contrastare e ridimensionare efficacemente, sotto il profilo etico-civile, la perversa e tracimante ostentazione di chi ha più l’abitudine di parlare e sentenziare che non di riflettere e argomentare.

Un’ultima osservazione, che riflette perfettamente lo spirito evangelico e che i cristiani non possono non sottoscrivere, è che «il mite non serba rancore, non è vendicativo, non ha astio contro chicchessia. Non continua a rimuginare sulle offese ricevute, a rinfocolare gli odii, a riaprire le ferite. Per essere in pace con se stesso deve essere prima di tutto in pace con gli altri. Non apre mai, lui, il fuoco; e quando lo aprono gli altri, non si lascia bruciare, anche quando non riesce a spegnerlo. Attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità» (op. cit.). La mitezza evangelica è propria di coloro che sanno che oggi potrebbe essere l’ultimo giorno della loro vita terrena, l’ultimo giorno prima di trovarsi sottoposti al giudizio di Dio.