Per una critica evangelica della ricchezza

Scritto da Francesco di Maria.

 

Questo scritto non avrebbe visto mai la luce se non avesse potuto avvalersi dei preziosi apporti esegetico-teologici di don Mario Cascone (in particolare quelli contenuti in un suo scritto del 1974 letto ad Assisi ed intitolato L’uso del denaro e della ricchezza nella vita del cristiano).

Oggi anche tra i cristiani abbondano persone molto facoltose economicamente che, pur non esitando a definire semplici mezzi ma non certo fini della vita il denaro e la stessa ricchezza, in realtà conducono la loro esistenza all’insegna di una continua accumulazione di beni materiali che, se anche talvolta in piccola parte destinati ad opere di carità o di beneficienza, tendono ad incrementarsi senza sosta e in modo illimitato. Questi ricchi cristiani, in un periodo di crisi strutturale come quello che stiamo vivendo, mostrano generalmente di preoccuparsi per la società di cui fanno parte, per i lavoratori sempre più frequentemente espulsi dai processi lavorativi, per i moltissimi giovani cui è impossibile accedervi, per i livelli decrescenti di benessere del popolo nel suo insieme, e auspicano un rigore finanziario, uno sviluppo economico e una rinnovata crescita sociale senza cui ritengono praticamente inimmaginabile una adeguata soluzione della crisi stessa; ma tra essi è davvero difficile trovare chi si preoccupi di andare almeno parzialmente incontro alle necessità materiali e immateriali di tanta gente ormai sul lastrico o priva di mezzi di sussistenza, spesso anche indebitata o afflitta da gravi ed urgenti problematiche familiari, mettendo in qualche misura a repentaglio i propri consueti e pur ingenti profitti e manifestando concretamente il proprio spirito di carità o solidarietà nei confronti di tante persone bisognose e spesso disperate.

Come dire: quando c’è una crisi di questa portata, sembra che anche i ricchi non possano che piangere e meditare sui modi in cui sia possibile proteggere il patrimonio sin lí accumulato. Ma, in realtà, la loro ricchezza, accumulata in tempi economici ordinari senza soluzione di continuità e senza alcuna preoccupazione per i salari bassi o molto contenuti che nel frattempo venivano concessi ad operai o a dipendenti pubblici e privati, è, evangelicamente parlando, una ricchezza disonesta: non nel senso che ci sia anche una ricchezza onesta perché Gesù non definisce mai onesta la ricchezza, ma nel senso che la ricchezza in se stessa, la ricchezza cioè che non viene condivisa comunitariamente e socialmente, non viene messa a disposizione dei non abbienti e dei più poveri, è sempre e comunque “disonesta” anche se è facile illudersi di potersi mettere la coscienza a posto con qualche lauta donazione o con qualche lascito cospicuo.

Gesù, certamente, non condanna ma benedice la ricchezza se di questo suo importante dono si fa l’uso e lo scopo cui è destinata ovvero la partecipazione di tutti ai beni materiali e spirituali che essa consente di produrre e di ottenere, mentre è del tutto evidente la sua avversione spirituale a tutte quelle forme di ricchezza personali o pubbliche che in realtà non siano fatte fruttare nell’interesse di tutti e in funzione della dignità personale di ognuno. E’ un concetto evangelicamente chiarissimo anche se ancora non molto familiare nell’ambito della mentalità cattolica e talvolta persino delle più alte sfere ecclesiastiche della Chiesa di Cristo. Duole doverlo dire, ma questa è la pura e semplice realtà.

Le crisi strutturali prima o poi esplodono nella storia non perché non ci siano più risorse da utilizzare ma semplicemente perché le risorse, più o meno ingenti e più o meno disponibili obiettivamente nelle singole società nazionali e oggi nella società globalizzata internazionale, vengono amministrate e distribuite in maniera sempre più arbitraria e iniqua sino a dar luogo a vere e proprie forme statuali di prevaricazione fiscale e tributaria e di usura legalizzata a loro volta indotte da potentissimi e spregiudicati gruppi finanziari internazionali, nei quali si può trovare di tutto e persino individui affiliati a cosche criminali di varia natura, che vengono lasciati indisturbati nel dettare legge sui mercati, sulle banche, sugli Stati e sui popoli. E la verità è che sono sempre di più quelli che sarebbero contenti di poter disporre almeno “del pane quotidiano” necessario, mentre sono sempre di meno quelli che, cristiani o non cristiani, vivono in condizioni di agiatezza ostentata o in ogni caso opulenta oppure addirittura di lusso sfrenato.

E se, da una parte, la Chiesa ripete con una certa frequenza che il cristianesimo è vita di comunione e non di competizione, di solidarietà e non di egoistico arrivismo, dall’altra la realtà continua ad essere segnata da un macroscopico sbilanciamento della gestione delle ricchezze sia a livello planetario sia a livello territoriale e locale, ed è proprio da questo sbilanciamento sempre suscettibile di aggravarsi ulteriormente che derivano in definitiva tutti gli effetti che abbiamo sotto gli occhi: dalla disoccupazione galoppante alle “nuove povertà”, alle immigrazioni di massa e alle nuove forme di schiavitù di cui il fenomeno sempre più esteso e visibile della prostituzione è certo un segno eclatante, a conflitti di vario genere che potrebbero prima o poi compromettere la sopravvivenza stessa dell’umanità.

Il sistema dell’economia mondiale è manifestamente iniquo e oppressivo e, anche secondo la migliore dottrina politica della Chiesa, i popoli sono o dovrebbero essere ormai legittimati a reagire contro questa forma di manifesta tirannide, se non con la violenza, quanto meno con tutti i mezzi pacifici di resistenza che sono a loro disposizione. Ma ad esser chiamati innanzitutto a vivere in modi più misurati o sobri e ad esercitare responsabilmente e democraticamente il proprio potere di scelta economica, anche al di là delle opzioni economiche spesso inadeguate o risibili dei diversi gruppi politici esistenti, sono i cristiani e i cattolici in quanto singoli e in quanto comunità, anche se si può presumere che ben pochi di essi si pongano almeno la seguente fondamentale domanda: cosa significa per me vivere da cristiano in questa società dell’opulenza e del benessere che sta precipitando rapidamente verso una povertà di massa e verso un malessere generalizzato? Come devo comportarmi concretamente, in base a quel che possiedo e tenendo conto delle mie reali e vitali necessità, per non allontanarmi dal principio evangelico di comunione e condivisione?       

Già nell’Antico Testamento, in cui Dio è presentato come unico e vero padrone della terra e di quanto essa contiene (“Del Signore è la terra e quanto contiene”, recita emblematicamente il salmo 24, 1), il desiderio di possedere e di arricchirsi in modo stabile e illimitato è considerato come un disconoscimento della sovranità di Dio che mette a disposizione di tutte le sue creature i beni della terra. Il desiderio smodato di arricchimento è sancito anche nel settimo e soprattutto nel decimo e ultimo comandamento: “non rubare” e “non desiderare la roba d’altri”, il cui significato in verità viene spesso equivocato o univocamente interpretato nello stesso ambito della dottrina o della teologia cattolica. Infatti, questi due comandamenti non implicano soltanto il divieto corrente e più accreditato di non togliere e anzi di non desiderare di togliere al ricco o a chi sia proprietario di determinati beni la proprietà o parte di essa ma anche e innanzitutto il divieto universale di non volersi arricchire a spese degli altri e soprattutto dei più poveri (orfani, vedove, stranieri, per esempio, secondo quanto si desume da Dt 24, 17 ed Es 22, 20-22), sottraendo loro, non importa se in modo violento o avvalendosi di leggi arbitrarie e ingiuste, quella ricchezza e quelle risorse naturali di cui anch’essi sono destinatari per volontà di Dio.

La Chiesa cattolica, nel corso della sua storia, ha insistito molto più sul primo che non sul secondo di questi due divieti biblici, ma sarebbe il caso che ormai essa ristabilisse pienamente la verità esegetica e chiarisse in modo inequivoco e definitivo che i comandamenti citati vengono implicando in realtà ambedue i divieti, dal momento che, indipendentemente dal fatto che storicamente il popolo ebraico abbia faticato non poco a rispettare in particolare questi due comandamenti, nella religiosità ebraica la difesa e l’accoglienza dei poveri non erano viste in termini di semplice azione sociale ma come riproduzione del modo di agire di Dio stesso nei confronti del suo popolo. Non esistono biblicamente questioni economiche e finanziarie, questioni di bilancio e via dicendo che possano impedire a tutto il popolo e alla struttura statuale in cui è organizzato di provvedere prioritariamente alle necessità dei più poveri, dei più deboli, dei senza potere, dei semplici, di tutti coloro che sono oppressi dal potere dei ricchi e che costituiscono in sostanza “il popolo del Signore”.

Dal punto di vista biblico, l’economia non può essere risanata a spese dei non abbienti perché il soddisfacimento dei bisogni di quest’ultimi è principio fondante e imprescindibile della stessa prassi economica. Si pensi alla vibrante denuncia sociale del profeta Amos che condanna senza mezzi termini il latifondismo creato dal tremendo peso fiscale esercitato su piccoli contadini e commercianti (2, 6-7) e il comportamento gaudente e immorale delle matrone di Samaria, chiamate “vacche di Basan” (4, 1) perché dedite ad una vita di piaceri e di lusso resa possibile dallo sfruttamento e dall’oppressione cui erano sottoposti i più diseredati: Amos mostra bene il nesso intercorrente tra questi peccati di ingiustizia sociale e il culto idolatrico a divinità straniere ovvero ad idoli. Ogni epoca ha i suoi idoli: se al posto delle divinità straniere si mettono i dollari e gli euri è praticamente inevitabile che si perdano di vista i poveri e il senso della giustizia non solo sociale ma della giustizia tout court.

Si pensi anche al colto e raffinato profeta Isaia, che inveisce contro i grandi proprietari di case e di campi perché non esitano ad intensificare i loro profitti ricorrendo ai mezzi più loschi e perversi a spese dei poveri e ad usare la disonesta ricchezza accumulata per corrompere i giudici e condurre una vita dissoluta (Is 5, 8-24). Costoro, peraltro, osservano tanto devotamente quanto ipocritamente le pratiche rituali del culto inducendo il profeta ad usare parole terribili: “Voi alzate le mani che sono sporche di sangue…” (1, 13-17).

Nella cultura religiosa biblica non c’è dunque economia possibile senza sapienza religiosa e il denaro non ha quella ossessiva centralità che oggi occupa nell’economia contemporanea. Quanto alla collocazione sociale di Gesù, egli faceva parte di quel ceto medio in cui rientravano piccoli commercianti e artigiani, per cui non era né ricco come i latifondisti, i grandi commercianti, gli alti funzionari laici e religiosi, né povero come gli schiavi, i braccianti e i salariati. Gesù tuttavia volle vivere deliberamente da povero e il suo giudizio sui beni economici viene dunque da un uomo libero dal bisogno economico: in lui convergono il pensiero profetico e il pensiero sapienziale dell’Antico Testamento. Per lui i beni materiali, per quanto obiettivamente effimeri e inidonei a mettere gli uomini in una condizione di assoluta e definitiva sicurezza esistenziale, possono assumere indubbiamente un posto centrale o predominante nelle loro preoccupazioni condizionandone la condotta di vita e la sensibilità spirituale. Se un uomo vive fondamentalmente in funzione del denaro e della ricchezza, è evidente che la sua umanità e la sua spiritualità risulteranno gravemente alterate rispetto a quell’aspettativa divina di pienezza spirituale o di piena esplicazione di sé cui ogni essere umano è chiamato e destinato ab aeterno.

Ecco allora le celebri e serissime minacce rivolte da Gesù a ricchi e benestanti (Lc 6, 24-26), cui faranno seguito, con pari intensità, le invettive di Giacomo contro i ricchi latifondisti (Gc 5, 1-6) e i giudizi sferzanti dell’apostolo Paolo sul valore effimero ed illusorio dei beni di questo mondo (1Cor 7, 30). Non è che Gesù condanni la ricchezza in se stessa, perché essa è dono di Dio da partecipare a tutti e da condividere con tutti, né egli esalta la povertà che non può certo essere considerata in sé un bene, ma condanna la ricchezza come idolatria se essa non è più usata come mezzo di sostentamento e di benessere personali e comunitari ad un tempo bensí come mezzo di puro e semplice arricchimento personale a qualunque costo  e quindi come fine a se stessa cui risulti subordinato ogni altro valore umano.

Qui non si tratta solo di rinunciare ai beni, perché anche gli stoici hanno questa esigenza, ma di rinunciare ai beni per amore, per utilizzarli in funzione non solo del benessere personale ma di un benessere più grande e più generale quale è il benessere di tutti e in particolare dei più svantaggiati. Qui non è la ricchezza in quanto tale, in quanto abbondante disponibilità di mezzi e di risorse, ad essere presa di mira, ma il modo di concepire e di usare la ricchezza stessa, ovvero la ricchezza come puro e continuo accumulo di denaro e come attività economica e finanziaria completamente indifferente al bene sociale, al bene pubblico o comune a cominciare dal bene dei soggetti e delle categorie più deboli.

Questo è un punto delicato del vangelo che bisogna impegnarsi a comprendere bene se si vuole evitare di svuotare di senso e di valore l’insegnamento di Gesù, che non si limita a dire: “non ha importanza che voi siate ricchi ma ha importanza che voi non vi rendiate schiavi della ricchezza”, perché con una formuletta cosí generica sarebbe sempre molto facile tacitare la propria coscienza di ricco sfondato e tuttavia capace di compiere tante opere caritatevoli senza perdere un centesimo del proprio capitale ma anzi continuando ad accrescerlo a dismisura. No, Gesù chiede a tutti indistintamente di essere realmente generosi e caritatevoli non privandosi del superfluo ma, ove la situazione lo richieda, persino di una parte del necessario, il che significa che da persone ricche come Zaccheo si aspetta ancora di più, vale a dire la capacità di privarsi in modo sostanzioso o rilevante dei propri beni per consentire a chi ha molto di meno di condurre una vita quanto meno dignitosa.

L’elogio evangelico della povertà non ha motivazioni estetiche o vagamente etiche, ma motivazioni spirituali e religiose strettamente connesse alla necessità pratica, e quindi economica sociale e politica, che nessuno sia lasciato troppo indietro rispetto ad altri. Tale elogio, specialmente in epoche di scarsità economica come quella attuale, è funzionale non già ad ideali pauperistici e antieconomici ma ad un progetto altamente economico e produttivo di consapevole e responsabile partecipazione umana e sociale quanto più possibile corale alla gestione e alla produzione dei beni materiali del mondo. L’umanità sarebbe certamente più ricca e più evoluta nel suo insieme se non solo alcuni ma tutti potessero essere messi nella condizione di cooperare, in modi naturalmente diversi, al potenziamento e allo sviluppo dei suoi beni, mentre un’umanità il cui sviluppo sia affidato a ristretti gruppi di potere, che dispongano a proprio piacimento di tutto e di tutti, può dirigersi solo verso la sua autodistruzione.

La Chiesa apostolica delle origini aveva capito perfettamente il senso delle parole di Gesù, perché, come recitano gli Atti degli apostoli, “Chi aveva proprietà e sostanze, le vendeva e ne faceva parte a tutti secondo il bisogno di ciascuno” (At 2, 45); “Nessuno infatti tra loro era bisognoso perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli: e poi veniva distribuito secondo il bisogno di ciascuno” (At 4, 34-35). Non mancarono certo i problemi, anche nella Chiesa apostolica, come dimostra l’episodio di Anania e Saffira (At 5, 1-11). Ma in generale ci fu la presa di coscienza che i beni terreni vanno dati e condivisi. Si chiede infatti S. Giovanni: “Se uno ha ricchezze in questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimorerà in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3, 16-17).

Le esperienze di comunione dei beni della prima Chiesa di Gerusalemme, ha scritto giustamente don Mario Cascone, «dimostrano chiaramente la contrarietà ad una concezione di proprietà privata, come è stata elaborata successivamente da alcune teorie economiche. Sono anche lontane da certe indicazioni della teologia morale classica, che insegnavano a dare ai poveri solo il superfluo. La Parola di Dio ci dice che l’obiettivo non è di avere i poveri per potere fare opere buone, ma di aiutarli a non essere più poveri. E per fare questo bisogna mettersi dalla parte dei poveri: come ha fatto il Signore, che si è fatto povero per noi per arricchirci mediante la sua povertà (cfr. 2 Cor 8, 9)». Riflessi precisi di tali indicazioni evangeliche ed apostoliche si colgono poi nei Padri della Chiesa. Nella Didaché si legge: "Non respingerai l'indigente e farai partecipe di ogni cosa il tuo fratello; e non dire che ci sono cose private: se avete in comune le cose immortali, quanto più logicamente non dovete avere in comune quelle mortali?". Tertulliano scrive: "Da noi tutto è comune, tranne le mogli. Sono i pagani che, gelosi custodi della proprietà, iniziano la comunanza là dove i cristiani la terminano". E Giovanni Crisostomo afferma: "Il tuo e il mio, questa fredda parola: qui scoppia il contrasto, qui sorgono le inimicizie. Dove invece codesta distinzione non esiste, non si vedono sorgere né conflitti né rivolte. Di modo che la comunanza è nostro retaggio, più che la proprietà".

Piaccia o non piaccia, la fede cristiana originaria comportava una concezione e una pratica sociali fondate sulla comunione dei beni materiali e spirituali in modo tale che nessuno mai fosse troppo agiato e nessuno troppo povero. Ognuno era chiamato a dare liberamente secondo le sue capacità anche contributive e ad ognuno si cercava di dare secondo le sue reali necessità. A chi osserva che questa sarebbe nient’altro che una visione comunista della società e della storia, si deve replicare che non fu il cristianesimo a prendere l’idea di comunione o di messa in comune di tutte le risorse disponibili dal comunismo ateo di Marx ma fu semmai quest’ultimo ad ereditare tale idea dalla tradizione biblico-ebraica e dallo stesso cristianesimo.

Per questa ragione, quindi, non il cristianesimo comunitario avrebbe ereditato un certo marxismo ma piuttosto quest’ultimo avrebbe ereditato il primo pur attraverso una radicale opera di laicizzazione ateistica che l’avrebbe privato della sua ispirazione religiosa. Tuttavia, non c’è dubbio che tra cristianesimo e marxismo comunista resta una non superabile incompatibilità, non solo in ordine alla fede in un regno extrastorico che cristianamente verrà pienamente rivelandosi  o compiendosi alla fine dei tempi ma anche là dove il primo postula una comunione dei beni da affidare esclusivamente alla libera scelta di coloro che costituiscono la comunità mentre il secondo prevede una società di eguali sotto l’egida di un violento potere coercitivo.

         La logica evangelica e patristica è dunque una logica di comunione e condivisione, non di privatizzazione e competizione. Uno può certo usare i beni di questo mondo, a condizione che non li consideri come di sua assoluta proprietà ma come suoi solo in senso relativo e convenzionale, a condizione cioè che sappia bene che ciò che possiede deve essere messo anche a disposizione degli altri in caso di bisogno e che dunque la o le sue proprietà non potranno mai avere un valore assoluto ma pur sempre relativo. Come diceva bene san Tommaso d’Aquino: quello che possediamo lo abbiamo certo per usufruirne noi stessi ma anche e in certi casi soprattutto per darlo e condividerlo e per darlo anche largamente, cioè generosamente o, per usare le stesse parole di Tommaso, “con facilità”.

Pertanto, non è che evangelicamente non ci sia un diritto alla proprietà privata, ma quel che è inaccettabile evangelicamente e tomisticamente è che questo diritto possa essere esercitato in chiave egoistica nella completa dimenticanza dell’intrinseca funzione sociale della stessa proprietà; ne deriva, sempre secondo Tommaso d’Aquino, che il diritto di proprietà privata, più che essere un diritto naturale primario, è piuttosto un diritto secondario e strettamente connesso al dovere primario di porsi al servizio del bene comune. Che nella stessa vita della Chiesa ci si sia talvolta allontanati non poco dallo spirito evangelico, è vero, ma ciò non toglie che esso, su ricchezza e povertà, su proprietà personale e comunione dei beni, su libertà individuale e condivisione comunitaria, non possa essere né frainteso né equivocato in alcun modo, ove si abbia la disponibilità ad ascoltare e ad intendere la Parola di Dio senza preconcetti di sorta o interessi precostituiti.

Ad entrare però in decisa rotta di collisione con queste elaborazioni teologiche del cristianesimo sarebbe stato il pensiero laico e liberale moderno, a partire da Locke secondo il quale la proprietà privata sarebbe un diritto naturale non secondario ma assoluto perché legato all’essere stesso dell’individuo che decide di vivere in società con altri individui solo per motivi utilitaristici e quindi per pura e semplice convenienza. Questa formulazione teorica prepara il terreno al capitalismo più spietato (ed è il caso di ricordare che non esiste un “capitalismo buono” e un “capitalismo cattivo” oppure un “capitalismo mite” e un “capitalismo selvaggio”, dal momento che le diverse tonalità del capitalismo moderno e contemporaneo sono funzionali esclusivamente all’immutabile logica capitalistica dello sfruttamento e del profitto a tutti i costi) nel quale determinate preoccupazioni morali pure presenti tendono a cedere ineluttabilmente il passo, fin quasi a scomparire del tutto, ad istanze prettamente economicistiche e finanziarie non già di estesi gruppi sociali ma di oligarchie di potere sempre più ristrette.

Dove però è utile precisare che, contrariamente a un luogo comune cui lo stesso don Mario Cascone sembra a torto indulgere, quella formulazione teorica di origine lockeana non può essere attribuita più o meno strumentalmente anche al padre della scienza economica moderna, ovvero ad Adam Smith, che, in quanto professore e studioso di filosofia morale, ebbe ben chiaro lo stretto legame intercorrente tra economia ed etica e il concetto per cui non tutto si esaurisce con il mercato e che molti beni, come per esempio la cultura, la giustizia, la scuola, l’assistenza sociale ai soggetti più deboli, non possono essere assoggettati alle leggi del mercato, cosí come d’altra parte fu consapevole del fatto che la ricchezza o il capitale è certamente di fondamentale importanza per avviare un sistema di produzione industriale ma che questo non potesse in nessun caso implicare una sottovalutazione o una penalizzazione del lavoro, essendovi o dovendovi essere anzi tra capitale e lavoro non già un rapporto conflittuale ma un rapporto di reciproca funzionalità e convenienza. D’onde prive di fondamento sono ancora oggi tutte quelle interpretazioni che, in un’epoca in cui il capitale finanziario pretende di esistere e di incrementarsi senza o contro il lavoro, tendono a presentare Adam Smith come il «padre del liberismo economico fondato sul cheering nichilism (radicale individualismo privo di senso, scopo e valore etico)» (C. Tabarro,   Contratti "zero hours": distruzione della dignità umana nel lavoro, in “Zenit” dell’8 agosto 2013).

Ma, riprendendo la pur sommaria disamina storica, contro la “sacralità” liberale della proprietà privata si sarebbero schierati, sia pure con finalità profondamente diverse o opposte, l’ateo marxismo ottocentesco e postottocentesco e la Chiesa cattolica di fine ottocento e della prima metà del novecento. E’ significativo che, sia pure sotto l’influsso della travolgente avanzata del socialismo e del movimento operaio, papa Leone XIII nella sua enciclica “Rerum Novarum”, pur in un’ottica antitetica a quella marxiana, prenda a difendere vigorosamente gli interessi della classe operaia contro i soprusi del sistema capitalistico; che successivamente Pio XI con la “Quadragesimo anno”, pur difendendo il diritto di proprietà privata, introduca e accentui chiaramente nella dottrina sociale della Chiesa princípi di sussidiarietà e solidarietà finalizzati al perseguimento del bene comune; che infine con il Concilio Vaticano II venga sottolineata energicamente la funzione sociale della proprietà privata.

A chiusura dello stesso Concilio venne votata e promulgata il 7 dicembre 1965, dopo essere stata oggetto di intenso dibattito e occasione di serrato e libero confronto soprattutto nella terza sessione conciliare (28 ottobre-10 novembre 1964), la Costituzione pastorale “Gaudium et spes”, di cui qui si riporta un brano particolarmente significativo:  «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all'uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità. Pertanto, quali che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli secondo circostanze diverse e mutevoli, si deve sempre tener conto di questa destinazione universale dei beni. L'uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano giusto i Padri e dottori della Chiesa, i quali insegnavano che tutti gli uomini hanno l'obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo».

In questo modo il cerchio si chiudeva, nel senso che veniva pienamente ripristinato con queste parole, dopo alcuni secoli di parziale “dimenticanza” o “omissione”, il senso più originario e genuino della dottrina evangelica sull’uso dei beni economici anche se non ancora la stessa prassi della Chiesa delle origini. In effetti, non può non rilevarsi che le indicazioni del Vangelo, dei Padri della Chiesa e del Magistero pontificio ed ecclesiale, sarebbero risultate non funzionali ma antitetiche all’economia del mondo contemporaneo, la quale sottopone a dura prova sia l’esistenza personale del cristiano sia la sopravvivenza di buona parte dell’umanità. E’ infatti in esso sempre più difficile distinguere tra “guadagno”, “profitto” e “usura”, come anche tra “giusto interesse” e “giusto prezzo”: il cosiddetto libero mercato è sempre più impersonale, anonimo, arbitrario, irrazionale e anarchico, e i confini tra ciò che è lecito e ciò che è illecito sono diventati cosí sottili da risultare del tutto evanescenti.

Nell’impostazione dell’economia globalizzata è cambiato il significato del possesso del denaro rispetto al passato, in quanto ormai si studiano scientificamente i modi in cui la vita economica, alimentata dal desiderio di voler possedere sempre di più da parte di chi già molto possiede, possa creare un profitto sempre maggiore e libero da preoccupazioni morali di qualunque tipo. Oggi la domanda del sistema economico mondiale non è: di che cosa ha bisogno veramente e vitalmente il mercato fra sei mesi o un anno, ma: che cosa si deve fare perché il mercato chieda quello che per gli imprenditori conviene produrre e, ancora più radicalmente, che cosa si deve fare, nel caso in cui il mercato sia comunque poco dinamico e si instauri una crisi economica non già congiunturale ma strutturale come quella odierna, per soddisfare le permanenti esigenze di profitto dei vari livelli gerarchici del sistema economico-finanziario internazionale.

In tal modo la tendenza più caratteristica dell’economia mondiale sarà quella per cui la ricchezza verrà concentrandosi nelle mani di oligarchie finanziarie sempre più ristrette che, a loro volta, verranno concentrandosi in cartelli e holdings ancora più potenti e tendenti al monopolio dei prezzi. La conseguenza sarà la creazione di enormi masse di poveri, con tutte le implicazioni sociali e politiche che tutti oggi possono vedere. Don Mario Cascone, già nel lontano 1974, notava come i mali dell’economia contemporanea fossero ben sintetizzati sulla tomba di Gandhi su cui appaiono scritti i sette peccati sociali individuati da quest’ultimo: politica senza princípi, ricchezza senza lavoro, piacere senza coscienza, sapienza senza carattere, commercio senza moralità, scienza senza umanità, culto senza sacrificio. Se già nel 1974 questi erano i terribili mali dell’economia e della società occidentali, non c’è dubbio che essi oggi lo siano ancora di più.

Nei monasteri benedettini non esiste, per volontà esplicita del suo fondatore, alcuna forma di proprietà essendo ogni cosa comune a tutti e da tutti condivisa. Certo, non è possibile trasformare il mondo, e specialmente il complesso mondo globalizzato di oggi, in un immenso monastero benedettino, però oggi la proprietà privata sta assumendo forme veramente mostruose e direttamente o indirettamente sempre più nocive al pubblico interesse e al bene comune. I cristiani non possono mettersi la testa sotto la sabbia confidando semplicemente in un intervento speciale e risolutore dal Cielo, perché infinita è senza dubbio la misericordia celeste a condizione però che essa trovi una giusta cooperazione tra gli uomini e soprattutto la disponibilità a sacrificarsi realmente per gli altri da parte di coloro che fanno professione di fede in Cristo. I cristiani, oggi come ieri, non possono non ricordare che c’è una povertà subìta, il più delle volte creata dalle umane iniquità e che come tale va combattuta perché è fonte e condizione di infelicità universale, e che poi c’è anche una povertà scelta liberamente che rende beati, secondo la promessa di Cristo, e che costituisce il modo migliore di contrastare la prima forma di povertà. Essi devono dunque farsi il più possibile poveri, in tutti i sensi, per poter lottare contro le molteplici forme di povertà esistenti nel mondo.

E’ stato recentemente osservato che sulla scena politica contemporanea mancano uomini politici e uomini di Stato capaci di dare un impulso significativo di cambiamento alle dinamiche dell’economia nazionale ed internazionale attraverso politiche governative e/o intergovernative puntate a riorientare gli stessi processi economici e finanziari in funzione del benessere di tutti o almeno di molti piuttosto che ad assecondarne l’odierna funzionalità al benessere moralmente illegittimo ed economicamente e socialmente distruttivo di pochi individui o di pochi gruppi (C. Tabarro,Veramente l’Europa è fuori dal tunnel della recessione?, in “Zenit” del 19 agosto 2013). Non solo singole personalità, si direbbe, ma nuove forze politiche organizzate in grado di dare veramente uno scossone ad una situazione paludosa da cui si rischia di non uscire più vivi: questo, almeno nel panorama politico nazionale italiano, è ciò che soprattutto sembra mancare. 

Una politica europea e una politica nazionale responsabili che cosa ormai dovrebbero mettere all’ordine del giorno se non la disoccupazione ipergaloppante, l’aumento visibile delle diseguaglianze economiche e sociali, il risanamento delle banche alla luce di criteri compatibili con le sacrosante esigenze dei risparmiatori, delle imprese e delle famiglie, la ritrattazione di trattati economici internazionali rivelatisi completamente sbagliati? Ma, in realtà, il messaggio politico che istituzione europee e governi nazionali continuano a veicolare e a propagandare è che, senza politiche di rigore, senza riforme di struttura (il cui cinico significato è ben noto ai non sprovveduti), senza il rispetto dei vari patti di stabilità, senza un qualche rilevante programma di sviluppo, il destino dei paesi più deboli dell’area euro sarà identico a quello che ha già travolto la Grecia e Cipro! Stando cosí le cose non c’è dubbio che la parola “solidarietà”, pur talvolta proferita dalle autorità politiche europee e dai governanti di singole nazioni, venga da tutti percepita come parola totalmente vuota di senso e di valore.

I cristiani, se vogliono esserlo non solo di nome ma soprattutto di fatto, non hanno alternative: devono scendere anche nell’arena politica per cominciare a restituire al denaro la sua giusta dimensione, sforzandosi di ridurne il ruolo arbitrariamente acquisito di pericoloso e tirannico padrone e di potenziarne invece quello (che dovrebbe correttamente esercitare) di utile e buon servitore. Essi sanno infatti che Mammona o la ricchezza non è iniqua solo se diventa “cibo dei poveri” e che in tutti gli altri casi essa è ingiustificata e palesemente contraria alla volontà di Dio.

Il loro impegno politico non potrà non tener conto di un preciso e non eludibile insegnamento evangelico: che se persino il povero è tenuto, ove o quando sia necessario, a solidarizzare concretamente con chi abbia bisogno d’aiuto, il ricco, la cui ricchezza non è mai onesta ma sempre ingiusta per il semplice fatto che chi accumula in un modo o nell’altro non può non sottrarre agli altri, deve quanto meno cercare di “farsi degli amici con le ingiuste ricchezze” (Lc 16, 9), e quindi con il denaro, con i capitali, con il benessere di cui dispone, come dice Gesù; dove evidentemente gli amici cui si fa qui riferimento sono poveri o persone che comunque versano in uno stato di difficoltà economica. Sono proprio questi gli amici che testimonieranno un giorno a favore di quei ricchi che, volendo entrare nel regno dei cieli, avranno saputo privarsi di una parte consistente dei loro beni per soccorrere i propri fratelli indigenti ed ottenere l’eterna salvezza.

I cristiani in politica dovranno essere soggetti capaci di invertire la visione politica delle cose oggi dominante: non continuando ad avallare politiche economiche e politiche tout court  volte a spogliare o a spolpare un’intera popolazione e persino i più poveri dal punto di vista fiscale, tributario e retributivo, per far fronte a “debiti pubblici” costituitisi sulla base di contratti e parametri del tutto unilaterali, arbitrari e alla fine indiscutibilmente usurai che andrebbero contrastati e cambiati oltre che dichiarati immorali e illegali, e predisposti a crescere a dismisura quali che siano i sacrifici economico-finanziari imposti dai governi alle masse, ma mettendo le poche o molte risorse economico-finanziarie dello Stato sempre e comunque innanzitutto al servizio di esigenze insopprimibili di lavoro, di assistenza pensionistica e sanitaria, di formazione scolastica e culturale, di vita almeno accettabile e dignitosa per tutti, e assumendosi al cospetto dei poteri politico-finanziari europei e internazionali la responsabilità di porre dei paletti invalicabili a richieste di tassazione o di riscossione finanziaria di qualsivoglia natura.

I cristiani dovranno fare politica senza illudersi di trovare facili consensi o alleanze disinteressate ma forti della speranza di poter fare comunque di Cristo “il cuore del mondo” e di rendere questo nostro mondo un po’ più simile a quel regno di Dio in cui tutti in un certo senso sono signori! Già, perché Gesù è il Signore e questa sua prerogativa egli la comunica e la estende ad ognuno di noi, ad ognuno di noi che è chiamato ad essere signore. Il regno di Dio è un regno di “signori”, ma non di ricchi. La differenza non è di poco conto, perché il ricco è colui che ha, il signore è colui che dà, e di conseguenza l’unica politica economica praticabile cristianamente su questa terra è o deve essere una politica economica sostenibile e pur sempre compatibile con l’istanza etica prioritaria di salvaguardare la dignità umana, una politica non dell’avido possesso personale, non del profitto ad ogni costo, non del capitale senza o contro il lavoro, non del risanamento finanziario senza equità, non dello sviluppo senza giustizia sociale, non del progresso civile contro la dignità morale degli uomini, ma una politica del risanamento e dello sviluppo per l’appunto sostenibili, della disponibilità a farsi concretamente e coerentemente carico delle vitali necessità del prossimo più sofferente e a correggere storture o anomalie del sistema economico con provvedimenti pur sempre avveduti e ragionevoli e ispirati a criteri di equa e solidale condivisione.

Se i cristiani si mobiliteranno sul piano politico lungo queste direttrici spirituali, nella preghiera e nell’onesto lavoro quotidiano, essi potranno cambiare ancora una volta con Cristo il mondo, anche se non dovessero fare in tempo a vedere il successo, per quanto parziale, della loro opera.