I ricchi non cantino ancora vittoria!

Scritto da Francesco di Maria.

 

Uno degli uomini più ricchi della terra come Warren Buffett, noto come re dei mercati finanziari globali ed esponente di punta di un esercito plutocratico chiamato High net worth individuals (individui con un elevato patrimonio finanziario pari almeno a 35 milioni di dollari) e composto da circa 200.000 persone ma suscettibile di continua crescita nonostante la crisi o piuttosto proprio grazie alla crisi, ha dichiarato recentemente con toni trionfalistici che la lotta di classe di cui parlava Marx nell’800 non è affatto finita, come per troppo tempo si è andato dicendo, ma che essa è più che mai viva e vegeta anche se non più guidata egemonicamente come in un passato ormai lontano dalle classi povere bensí dalla classe ricca che starebbe conseguendo vittorie sempre più significative (P. Lambruschi, Marx sconfitto dai super ricchi, in “Avvenire” del 12 settembre 2012).

Buffet si riferisce al fatto che nell’odierno mondo globale i ricchi riescono a rubare ai poveri senza che ciò determini reazioni popolari particolarmente significative in virtù di un supporto intellettuale e culturale, certo élitario ma dotato di articolazioni efficaci in tutte le parti del mondo, che è stato capace di ottenere senza colpo ferire un consenso forse in gran parte passivo ma comunque vastissimo e inimmaginabile anche presso i ceti medi e bassi delle varie popolazioni del mondo. Tale consenso riguarda principalmente un punto: che, per uscire dalla crisi, fossero e sono ancora necessarie misure di austerità perché uno Stato, al pari di una famiglia, può spendere solo in base alle entrate e in esso non c’è sviluppo possibile senza contenimento e riduzione del debito pubblico ovvero senza tagliare la spesa pubblica che comprende anche degli “sprechi” da eliminare ma che non può essere considerata in senso generale come sinonimo di “spreco”.

Questo assunto, che ha fatto incredibilmente breccia nella psicologia delle masse, è manifestamente falso per tutta una serie di ragioni tra cui anche quella per cui non è affatto vero che la crescita economica presupponga necessariamente l’abbassamento o l’azzeramento del debito pubblico e quindi anche il notevole contenimento della spesa sociale, essendo al contrario ben noto come storicamente sia proprio il debito pubblico, che non può essere confuso o identificato con gli sprechi, a finanziare la crescita o la sana economia di uno Stato. Che tuttavia la gente sia stata convinta della ineluttabilità dell’austerità al fine di fronteggiare tanto il debito pubblico quanto la depressione economica è dimostrato dal fatto che, persino in una situazione disperata come quella che si è venuta determinando in Grecia, non è scoppiata alcuna rivoluzione.  

Questo dato ovviamente ha finito per incoraggiare l’offensiva capitalistica mondiale volta ad espropriare quanto più possibile tutti i cittadini del mondo delle loro stesse ricchezze o risorse economiche personali e ha fatto quindi sí che tale offensiva portasse ad un graduale smantellamento nei paesi occidentali dello Stato sociale, dei tradizionali diritti dei lavoratori, della sovranità nazionale e della stessa democrazia. E’ sin troppo facile capire che quanto più irreversibile dovesse risultare questo processo di erosione dei tradizionali assetti costituzionali e giuridico-istituzionali degli Stati occidentali, sia pure attraverso abili accorgimenti e manovre di tipo “riformistico” di sicura risonanza mediatica anche se di molto debole impatto sociale ed economico, tanto maggiore sarebbe la possibilità di ricavare profitti ancora e sempre più alti senza grossi traumi.

Purtroppo, questa è la situazione. E’ bene fissare in mente questo concetto: la lotta di classe sarà effettivamente e irreversibilmente vinta dai capitalisti e dunque dai ricchi di tutto il mondo se si consentirà che la crescita, la ripresa economica, la riduzione del debito sovrano e il rifiorire del benessere sociale, passino tranquillamente attraverso la distruzione dello Stato sociale e della democrazia. Questa, in realtà, è solo la più recente e moderna versione di una poliedrica e flessibile ideologia capitalista che, pur sempre identica nei suoi obiettivi classisti di fondo, cerca di adattarsi pragmaticamente ai diversi mutamenti storici. La domanda è: che fare perché tutto questo non accada?

Sarebbe ingenuo pensare, come pare abbiano fatto i trecento economisti firmatari di un documento pubblicato sul Financial Times, La advertencia de los economistas (Il monito degli economisti), 23 settembre 2013, che l’austerità europea sia solo la ricetta sbagliata (perché capace solo di deprimere la domanda di beni e di servizi, di penalizzare il lavoro e l’occupazione, di scoraggiare i consumi e ogni concreta possibilità di ripresa economica sia nel settore produttivo pubblico che in quello privato) di una teoria economica e di previsioni economiche sbagliate, pur ammettendo che in buona fede questo o quell’economista abbia potuto semplicemente sbagliare i suoi calcoli.

Certi cataclismi o disastri economici non si verificano per semplici errori teorici, specialmente quando tendono a perpetuarsi nel tempo. Anche perché se certi errori teorici potessero davvero provocare situazioni cosí devastanti, si avrebbero a quel punto delle ottime ragioni per non tenere più in alcuna considerazione gli economisti medesimi, qualunque cosa dicano o propongano.

Ma cataclismi e disastri sono dovuti invece a qualcosa di decisamente deliberato e di molto più grave: ad una precisa strategia di lotta, elaborata politicamente dalle principali oligarchie finanziarie del mondo e corredata certo di ogni opportuno supporto “teorico-economico-scientifico”, per appropriarsi, sotto l’egida di un certo numero di trattati e di vincoli finanziari resi legittimi solo da una ristrettissima comunità internazionale di politici, banchieri ed esperti di varia estrazione culturale e organici al disegno capitalista, della maggior parte del valore e quindi del denaro prodotto dalla forza-lavoro di massa esercitata in tutti i sistemi produttivi del mondo. Una strategia che comporta, per l’appunto, l’abbattimento del Welfare State e della stessa democrazia nelle stesse nazioni occidentali di più salda e radicata tradizione democratica. 

Che fare dunque perché questa ennesima barbarie capitalista non infesti irreversibilmente il mondo sino a farne un pianeta di nuovo segnato dal dominio di pochi padroni su una massa sterminata di schiavi? Si può sempre eccepire che l’analisi qui proposta veicoli in realtà certe visioni “mondialiste” e “complottiste” che al più potrebbero rientrare nella categoria delle semplici supposizioni. Ma, pur ritenendo chi scrive che il mondialismo non sia affatto una semplice supposizione bensí una realtà suffragata da dati ormai inconfutabili (non si capirebbe, per esempio, perché certi esclusivi clubs economico-finanziari di cui fanno parte anche numerosissimi politici ed economisti italiani di alto profilo istituzionale operino periodicamente in totale segretezza e senza far trapelare alcunché delle “decisioni di studio” da essi assunte), in realtà anche economisti che non si professano né mondialisti né complottisti riconoscono chiaramente quale sia il vero problema da risolvere.

Un economista come Emiliano Brancaccio ha di recente rilevato sul suo sito che sino a quando resterà inalterata l’attuale deregolamentazione finanziaria con relativa e completa libertà di movimento internazionale dei capitali, la situazione è destinata a non cambiare o a cambiare verso il peggio: «La verità è che in condizioni di libera circolazione dei capitali – e di relativo smantellamento della produzione pubblica – non è certo la volontà dei singoli ma è il meccanismo di riproduzione capitalistica, con la sua instabilità e le sue crisi, che decide della distribuzione, della composizione e del livello della produzione e dell’occupazione» (“Liberare” i migranti senza “arrestare” i capitali? Un suicidio politico, 10 ottobre 2013), dove peraltro, come si intuisce dal titolo dell’articolo, la scottante e attualissima questione degli “immigrati” che sbarcano ormai ininterrottamente sulle coste italiane viene intelligentemente posta non già solo in rapporto a princípi di ordine giuridico e umanitario ma proprio in rapporto al problema di un necessario ed inedito rilancio di «proposte finalizzate al controllo politico dei movimenti di capitale. Dove per controllo dovrebbe intendersi il ridimensionamento dei mercati finanziari e il riassorbimento, nell’ambito della dialettica politica, della questione cruciale del riequilibrio dei conti esteri. Il ripristino di una rete di controlli sui capitali è una delle condizioni necessarie per impedire che lo scontro distributivo e occupazionale continui ad esprimersi solo tra i lavoratori, in particolare tra nativi e migranti» (ivi).

Ma non è che la messa a punto di questi controlli sui capitali richiedano necessariamente tempi biblici; sarebbe sufficiente che le politiche nazionali degli Stati con maggiori difficoltà di tenuta economica e sociale, a cominciare da quella italiana che potrebbe ben decidersi autonomamente al grande e storico passo, sebbene non privo di insidie, iniziassero a lavorare per spostare il loro baricentro dalla preoccupazione di onorare irrazionali impegni “europei”, che andrebbero assolutamente ridefiniti o rimodulati, alla preoccupazione primaria e inderogabile di tutelare e di come tutelare le proprie comunità nazionali molto meglio di quanto abbiano fatto sinora. Prima che sia troppo tardi: prima che la violenza dei popoli esploda in forme incontrollabili e si contrapponga alla controllata ma criminale violenza di quella classe ricca che sta tanto a cuore al supermagnate americano Warren Buffett.

Noi cattolici non possiamo augurarci che la storia dell’umanità evolva o involva verso forme di aggressività e di lotta primordiali e beluine. Ma, proprio per questo, dovremo impegnarci strenuamente per estirpare il più possibile dal mondo, con le armi pacifiche ma oltremodo efficienti della giustizia e dell’amore evangelici, le radici stesse del male: quel peccato personale e sociale che consiste nel voler negare legittimità alla comune e inviolabile dignità degli esseri umani. Noi cattolici, tra l’altro, dovremo fare di tutto, nel vincolo di amore e di fedeltà a Cristo vivo, per contrastare incisivamente quell’immorale ideologia secondo cui i ricchi sarebbero legittimati non solo ad accumulare smisurate ricchezze ma persino a manipolare direttamente e indirettamente le persone allo scopo di far credere loro che il loro diritto all’arricchimento illimitato sia in fondo giusto e che le uniche ricette valide per combattere la povertà e la regressione economica siano quelle della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea.