La Chiesa cattolica e la critica del capitalismo

Scritto da Francesco di Maria.

 

Jean-Jacques Rousseau individuava l’origine della diseguaglianza tra gli uomini nella proprietà privata, da cui molto rapidamente sarebbe derivata una diseguaglianza economica a sua volta veicolo di una disuguaglianza sociale e politica con cui essa avrebbe finito per coincidere. Il possesso comporta il potere, e più grande è il possesso più grande è il potere: la grande proprietà privata tende storicamente a concentrarsi nelle mani di pochi, per cui un’élite sempre alquanto ristretta di proprietari deciderà quale debba essere il sistema giuridico e come esso debba articolarsi dal punto di vista normativo.

Si può ragionevolmente eccepire che, in realtà, non sia la proprietà privata in sé a generare il finimondo ipotizzato dal filosofo illuminista francese, non la proprietà privata intesa come proprietà personale cui ogni essere umano ha pieno diritto in quanto frutto del suo lavoro, delle sue capacità d’iniziativa o d’imprenditoria, del suo spirito economico o di risparmio e di investimento, delle sue qualità morali volte a rendere interdipendenti profitto individuale e profitto altrui ovvero profitto di collaboratori o operai, di intere comunità o collettività, ma l’uso egoistico e abusivo della proprietà che tenda ad ignorare o a sopprimere con la forza, la frode o l’inganno, l’altrui diritto alla proprietà stessa, e ad accaparrarsi tutte le risorse e la ricchezza disponibili. 

Se si fosse riusciti o si riuscisse ad evitare con una diffusione sociale capillare e democratica della proprietà la costituzione di grossi blocchi di possesso e di potere in senso lato, il discorso rousseauiano dovrebbe essere verosimilmente corretto ed integrato. Tuttavia, l’analisi o meglio l’ipotesi di Rousseau è non solo realistica e fondata storicamente ma ancor oggi molto utile per capire i meccanismi che sono alla base di un sistema economico e finanziario capitalista che ha già strangolato in passato e continua a strangolare sempre più cinicamente l’economia nazionale di molti Stati tra i quali sempre più numerosi sono quelli occidentali ed europei.

Le metamorfosi storiche del capitalismo moderno e contemporaneo, per venire a ciò che specificamente ci interessa, sono molteplici e frequenti e le stesse conquiste civili, i diritti democratici conseguiti attraverso grandi e talvolta sanguinose lotte di massa, l’affermarsi di uno Stato sociale, hanno certo ostacolato e rallentato ma non impedito la corsa di potenti forze economiche di natura non di rado criminale che agiscono sempre nel sottosuolo della storia, in stretto e sia pure mediato contatto con le forze politiche di volta in volta al potere, e che al momento opportuno tentano di liberarsi con metodi subdoli o violenti da tutti quei vincoli legislativi, giuridici, istituzionali e culturali che per l’appunto si frappongono al totale dispiegarsi del loro potere sulla volontà e sulla vita di milioni di uomini e di popoli liberi, anche se in mezzo agli uni e agli altri esiste una moltitudine di persone a loro volta pesantemente condizionate da logiche prettamente egocentriche e antisolidaristiche, ovvero sostanzialmente indifferenti al bene altrui e al bene comune.

Orbene, queste organizzazioni nascoste ma che hanno un volto e un’identità ben precisa, queste consorterie internazionali che tramano oscuramente per procurarsi ricchezza e potere illimitati, nella nostra contemporaneità e in specifico riferimento all’area europea, sono quelle che hanno avuto l’abilità di far scrivere ai loro adepti più qualificati trattati praticamente inamovibili (per esempio, di Maastricht o di Lisbona) che stabiliscono una volta per tutte i princípi e le regole cui devono sottostare rigorosamente tutti gli Stati europei membri della UE soprattutto in materia economica e di politica economica interna ed estera. Trattati, princípi, regole, che a ben vedere costituiscono un attentato, scientificamente programmato, alla politica in quanto tale, a tutte le istituzioni democratiche europee e al diritto dei popoli ad un’effettiva autodeterminazione.

Come infatti ha scritto un autorevole economista francese, è accaduto che, proprio per mezzo di quei trattati, di quei regolamenti, di quei criteri, ritenuti non rivedibili, leve fondamentali come «politica monetaria, uso dello strumento del bilancio, livello dell’indebitamento pubblico, forme di finanziamento dei deficit», venissero «fossilizzate nel marmo. In che modo si potrebbe discutere del livello d’inflazione desiderato quando questo è stato consegnato nelle mani di una Banca centrale indipendente e tagliata fuori da tutto? Come si potrebbe deliberare su una politica di bilancio quando il suo saldo strutturale è predeterminato (“regola d’oro”) e al suo saldo corrente è fissato un tetto massimo? In che modo decidere di un ripudio del debito, quando gli Stati non possono più finanziarsi se non sui mercati dei capitali?» (F. Lordon, Contro un’austerità in perpetuo. Uscire dall’euro?, in “Le monde diplomatique”, agosto 2013). E’ come pretendere di irreggimentare la realtà storica, sempre fluida e imprevedibile, nei rigidi e unilaterali schemi della teoria economica e finanziaria!

La stessa globalizzazione, pur continuando ad essere salutato come un prodotto significativo del complessivo processo emancipativo dell’umanità, non appare per nulla sottratta ad usi sempre più ambigui e perversi che se ne vengono facendo in sede commerciale e finanziaria. La base stessa dell’alimentazione, nell’era della globalizzazione, appare sempre più minacciata, dal momento che «risorse necessarie alla vita, come l’acqua e la terra coltivabile, sono sempre più logorate. Sul piano mondiale si perde sempre più terreno coltivabile. Le riserve di acqua scompaiono. Il cambiamento climatico minaccia i raccolti. Non si devono sottovalutarne i segni premonitori. I prezzi delle materie prime agricole nell’ultimo decennio sono aumentati tanto fortemente come mai lo furono nei precedenti cinquant’anni. Questo lo avvertono anche i tedeschi. I generi alimentari diventano più cari. Dall’inizio del nuovo millennio sul piano globale i prezzi degli alimenti sono più che raddoppiati», specialmente nei Paesi più poveri come quelli africani (Silvia Lybrich, Equa ripartizione degli alimenti. Stato d’emergenza nel supermercato globale, inSüddeutsche Zeitung online” del 29 dicembre 2013).

Quali possano realmente essere, dunque, le alte finalità umane di una globalizzazione che continua a produrre disagio sociale e povertà economica non più solo nelle tradizionali aree sottosviluppate del mondo ma ormai anche nei Paesi occidentali tradizionalmente più ricchi e progrediti, francamente è sempre più difficile sapere, benché gli Stati più industrializzati e organizzazioni come la Banca Mondiale non si stanchino mai, beati loro, di decantare i vantaggi della globalizzazione.

Se la globalizzazione, come sta accadendo ormai da diverso tempo senza soluzione di continuità, tende più a togliere che a creare il lavoro, la ricchezza e il benessere sociale in molte aree anche sviluppate dello stesso mondo occidentale, e se essa tende ormai a produrre arricchimento solo per pochi per via di sistematico sfruttamento della mano d’opera e di prelievo finanziario e fiscale di ingenti quote di ricchezza a danno di intere popolazioni; se essa per contro e di conseguenza comporta inesorabilmente una povertà crescente per molti, obbedendo a invisibili e ingarbugliate ma concrete e redditizie logiche di natura marcatamente privatistica e utilitaristica totalmente organiche ad associazioni oligarchiche di potere ben nascoste nel guscio protettivo delle ormai molto ambigue cornici giuridico-istituzionali democratiche, senza che gli Stati possano fare alcunché per regolamentarle e renderle più funzionali ad  esigenze e ad interessi popolari e collettivi, a causa di rigide e immodificabili norme e clausole contenute nei vari trattati internazionali dagli stessi governi nazionali sottoscritti nel tempo, è evidente che, se non ci si voglia completamente suicidare, occorra cambiare radicalmente e immediatamente strada.

In Italia si continua ad agitare insistentemente il problema del rinnovamento generazionale come problema in gran parte risolutivo della crisi politica e della stessa crisi economico-finanziaria che ci attanaglia, ma probabilmente non è molto lontano dal vero chi afferma che il giovanilismo e l’efficientismo del principale fautore del ricambio generazionale almeno nella classe politica del suo partito, ovvero Matteo Renzi, possono suscitare solo drammatiche illusioni, e che, in effetti, «riporre speranze in lui per il rinnovamento della nostra casta politica è come sperare che le nuove generazioni di mafiosi possano costruire una mafia compatibile con le esigenze dello Stato» (G. Mula, 2013, Bilancio di un anno triste, in blog “Fondazione Sardinia”, 1 gennaio 2014).

Crescita, sviluppo, produttività, competitività, e poi rigore nei conti pubblici, revisione di spesa, taglio della spesa sociale, riduzione delle tasse, sono parole d’ordine di questa triste e decadente stagione della storia umana, ma sono soprattutto parole false, ipocrite e ossessive che hanno la sola funzione di distogliere l’attenzione delle pubbliche opinioni del mondo dal vero problema di questo tempo: il problema di un capitalismo finanziario internazionale che, con la diretta o indiretta complicità di amplissimi settori della politica, dell’economia, della cultura e del mondo massmediale nonché dello stesso mondo bancario e finanziario, tenta oggi come non mai, per via apparentemente legale, di impadronirsi letteralmente del pianeta terra cercando di costringere molte nazioni tra cui l’Italia a vendere a bassissimo costo o a svendere la sua forza-lavoro complessiva, le sue risorse economiche e produttive, e porzioni sempre più consistenti del suo patrimonio paesaggistico, artistico e immobiliare.

Ora, per chi riesca a capirlo, non c’è dubbio che si debba voltar pagina molto alla svelta. Il problema dell’occupazione o della drastica riduzione della disoccupazione nelle società occidentali è cruciale, come giustamente ha ammonito Paul Krugman (L’economia della paura, in “New York Times” del 27 dicembre 2013), e non ci sono molti modi per affrontarlo e risolverlo. Bisogna che gli Stati, a cominciare dall’Italia, tornino a spendere per il lavoro, per l’occupazione, con veri e propri piani di sviluppo che non tengano più conto in modo ossessivo e spesso farisaico di concetti quali “competitività ad oltranza”, “debito pubblico”, “risanamento finanziario”, “revisione di spesa” e quant’altro, concepiti esclusivamente alla luce di criteri di pura e semplice contabilità amministrativa e finanziaria e non soprattutto di veri e propri programmi di investimento volti a riqualificare o a riconvertire realmente tutti i settori produttivi nazionali senza smantellare ma rinnovando le stesse strutture fondamentali dello Stato sociale.

Bisogna che gli Stati imparino a far valere nei confronti di banchieri, burocrati della finanza mondiale, speculatori e comuni delinquenti travestiti da gentiluomini del mondo economico e culturale, il principio per cui ogni debito e ogni relativo interesse maturato potranno e dovranno essere pagati solo alla luce di una verifica e di una revisione pubbliche e non ermetiche o esoteriche dei criteri e delle tabelle di calcolo e soprattutto solo compatibilmente con le necessità prioritarie e inderogabili dei popoli e degli individui. Bisogna che le classi dirigenti di domani abbiano la forza di dire: “prendere o lasciare”, quali che siano le conseguenze, tuttavia non necessariamente peggiori dei prezzi terrificanti che si devono pagare attualmente, e che in pari tempo sappiano amministrare tutti i beni e le risorse dello Stato senza sprechi e senza ingiustificate e aprioristiche erogazioni di fondi soprattutto ai privati.

Cosa si aspetta ancora in Italia davanti a milioni di giovani stabilmente disoccupati o impossibilitati a trovare un lavoro adeguato alle proprie attitudini? Quale ripresa dell’economia potrà mai verificarsi con una forza-lavoro cosí inutilizzata ed emarginata? Ma: i soldi? I soldi si trovano benissimo cominciando per l’appunto a mettere politicamente in discussione l’Unione Europea e tutti i suoi maggiori organismi decisionali. Si trovano cambiando regole e politiche monetarie e fiscali, si trovano rimanendo padroni in casa propria e non succubi degli apparati burocratici, dei regolamenti, degli stessi tribunali europei che vorrebbero dettar legge persino sui tribunali dei singoli Paesi. Si trovano ripristinando una propria Banca Nazionale, riproponendo delle politiche governative totalmente autonome e sganciate dagli imperativi ossessivi di una crescita a tutti i costi, elaborando delle politiche economiche e commerciali convenienti ai nostri interessi nazionali, e naturalmente prestando molta attenzione a soddisfare istanze e bisogni collettivi nei limiti delle risorse disponibili e delle reali e non fittizie possibilità finanziarie dello Stato.

D’altra parte, come rileva Krugman, non è vero quel che sostiene la maggior parte degli economisti: che cioè le diseguaglianze economiche e sociali che, dopo la crisi del 2008 e per nulla legate alle capacità e ai meriti professionali dei singoli, sono venute accentuandosi sempre più in USA come in Italia come in tanti altri Paesi occidentali, non avrebbero alcuna incidenza sul problema della auspicata ripresa economica, per il fatto che, come ripete stancamente la maggior parte degli economisti, il problema sarebbe la ripresa economica, non il modo in cui vengono divisi o distribuiti gli utili della crescita (La crisi e la disuguaglianza, in “La Repubblica” del 21 dicembre 2013).

Questi “maestri” della scienza economica, evidentemente dimentichi o ignari della filosofia morale del loro stesso padre ovvero Adam Smith, non riflettono sul fatto che, dopo l’inizio della crisi, «il continuo spostamento dei redditi della classe media verso una piccola élite è stata di ostacolo per la domanda dei consumatori, e di conseguenza la disuguaglianza è collegata sia alla crisi economica sia alla debolezza che le ha fatto seguito» (ivi). Tuttavia, precisa l’economista americano, «dal mio punto di vista,…il ruolo veramente cruciale rivestito dalla disuguaglianza nella catastrofe economica è stato di natura politica» (ivi).

Infatti, da una parte la deregulation voluta da tutti i governi occidentali che si erano infatuati del verbo liberista ha notevolmente contribuito a determinare la crisi, dall’altra la svolta altrettanto disinvolta verso l’austerità fiscale dei centri mondiali ed europei di comando con l’avallo ancora una volta colpevole delle classi governative occidentali ma più specificamente europee ha ostacolato pesantemente la ripresa.

In ambedue le circostanze, altro non si è fatto, chiarisce Krugman, che assecondare gli interessi e i pregiudizi classisti «di una élite economica la cui influenza politica è balzata alle stelle in parallelo con la sua ricchezza», influenza politica che è venuta concretizzandosi nella richiesta ossessiva di tagliare le spese relative a “previdenza sociale” e a “servizio sanitario statale”, là dove tuttavia «questa ossessione non ha mai avuto senso, dal punto di vista economico: in un’economia depressa con tassi di interesse bassi quasi da record, il governo dovrebbe spendere di più e non di meno. Oltre a ciò, un’epoca di disoccupazione di massa non è certo il momento più opportuno per concentrarsi sugli eventuali problemi fiscali nei quali ci imbatteremo a qualche decennio di distanza. L’attacco a questi programmi, per altro, non è avvenuto su richiesta dell’opinione pubblica. I sondaggi condotti presso i soggetti molto facoltosi, tuttavia, hanno messo in evidenza che — a differenza dell’opinione pubblica in generale — essi considerano i deficit di bilancio una questione cruciale e sono favorevoli quindi a ingenti tagli nei programmi assistenziali e alle reti di sicurezza. Indubbiamente, le priorità di quelle élites hanno il sopravvento sul nostro discorso politico» (cit.).

Priorità ben nascoste ma pur sempre veicolate efficacemente da quella pomposa anche se menzognera pubblicizzazione di ricette e rimedi non politici, non di parte, ma tecnocratici, la cui funzione dovrebbe essere principalmente quella di occultare il rilevante peso che nella crisi l’ineguaglianza e i ceti sociali da essa più colpiti sono venuti assumendo ben oltre limiti di tollerabilità economica e sociale, con la probabile conseguenza, che forse in astratto non sfugge agli stessi tecnocrati, di una progressiva e pericolosa riduzione della capacità di tenuta del “sistema”.

Ma l’analisi di Krugman comporta la possibilità di radicalizzare ulteriormente e non arbitrariamente la critica del contemporaneo sistema capitalista, della sua organizzazione del lavoro, della produzione, della distribuzione e del consumo, perché, come ha evidenziato recentemente l’economista francese Jean-Marie Harribey, «la crisi del capitalismo globalizzato…lungi dall’essere una questione di congiuntura, affonda le sue radici nelle contraddizioni sociali ed ecologiche spinte all’estremo limite nella fase neoliberista. Da una parte, la svalutazione della forza-lavoro rispetto alla sua produttività provoca una situazione di sovrapproduzione in gran parte dei settori industriali. Le classi abbienti malgrado ciò si arricchiscono in misura scandalosa, grazie agli sgravi fiscali di cui beneficiano e ai loro esorbitanti redditi finanziari. Ne consegue disoccupazione endemica, precarietà, diminuzione della protezione sociale e crescente disuguaglianza. Dall’altra parte, l’accumulazione infinita del capitale preme sui limiti del Pianeta: minaccia l’equilibrio degli ecosistemi, esaurisce una grande quantità di risorse naturali, impoverisce la biodiversità, causa inquinamenti multipli e sconvolge il clima.

Da queste due serie di contraddizioni nascono la difficoltà e, a un certo punto, l’impossibilità d’imporre alla forza-lavoro di produrre sempre più valore economico e di monetizzarlo sul mercato. In altre parole il capitalismo non può andare al di là di un certo limite di sfruttamento dell’essere umano senza mandare in rovina le sue possibilità d’espansione e non può nemmeno superare una certa soglia nello sfruttare la natura, senza deteriorare o distruggere la base materiale dell’accumulazione. Con la crisi finanziaria apertasi nel 2007 svanisce l’illusione che la finanza avrebbe potuto liberarsi dalla costrizione sociale e materiale e diventare una fonte di valore endogena e autosufficiente. Queste due costrizioni sono insuperabili»(Capitalismo e pipistrelli. Creare ricchezza, non valore, in “Le monde diplomatique”, dicembre 2013).         

Dunque, la soggettività politica delle classi sociali e popolari maggiormente penalizzate da questo forsennato attacco del capitalismo mondiale deve potersi ormai ribellare respingendo nuovamente quest’ultimo verso posizioni difensive e non più violentemente offensive attraverso iniziative appropriate: in primis la riaffermazione della politica come fulcro della vita economica e sociale, riaffermazione che non ammette interferenze né da parte delle forze economiche in campo, né da parte di potenti gruppi finanziari, né da parte delle istituzioni economiche e politiche internazionali che dovranno accontentarsi di proporre senza la pretesa di imporre la loro lettura delle dinamiche economiche nazionali e planetarie ed eventuali indicazioni su come fronteggiarle e amministrarne lo sviluppo in modo efficace; in secondo luogo una saggia e proficua utilizzazione politica della socializzazione della produzione e della trasmissione delle conoscenze in vista della ineluttabile collisione tra tale socializzazione e il tentativo di appropriazione privata e di monetizzazione di queste stesse conoscenze: «questa contraddizione», scrive Harribey, «sta al centro della crisi del capitalismo contemporaneo, che ha difficoltà nel fare funzionare il sapere come capitale, ossia nel farne oggetto di profitto» (ivi), e di questo principalmente bisognerà fare tesoro.

"Questa economia uccide", ha scritto papa Francesco nella esortazione apostolica Evangelii gaudium: non è solo una obiettiva constatazione ma un invito rivolto innanzitutto al mondo cattolico a reagire, a farsene carico con un programma di umile ma convinto intervento sul piano culturale e politico. I cattolici, ha inteso dire il papa, devono assumersi “un compito speciale”: quello «di contribuire ad avviare dibattiti sul futuro del mondo e accompagnarli», di partecipare attivamente e criticamente ai dibattiti pubblici senza cedere alla tentazione di ritirarsi, «per paura dello sferzante vento della critica e dell'opposizione, in un mondo per cosí dire speciale religioso» (R. Marx, Una società nella quale si invita all’elogio dell’avidità è sulla via dell’alienazione. Oltre il capitalismo, in “L’Osservatore Romano” del 10 gennaio 2014). L’ingerenza di papa Francesco nella politica, udita in tutto il mondo, va esattamente in questo senso.

Ora, questa ingerenza ha trovato consensi ma anche critiche e critiche generalmente risentite e velenose. Infatti, benché sia ben noto come anche «la politica, l’economia e la cultura rientrino nella missione evangelizzatrice della Chiesa», non tutti accettano che la Chiesa si ingerisca in questioni per cosí dire temporali di cui si occupano solitamente se non esclusivamente soggetti laici individuali o enti laici collettivi. Si avverte cioè fastidio per una religione che non si limiti ad occuparsi della salvezza dell’anima come se la salvezza dell’anima potesse ottenersi anche accettando passivamente le storture e le iniquità di questo mondo!

Soprattutto aspre sono le critiche rivolte alla Chiesa sul piano economico: essa, si sente dire, disprezza i ricchi e non capisce il capitalismo che ha reso migliore il mondo contribuendo anche «al miglioramento delle condizioni di vita dei poveri» (ivi). Sono davvero fondate queste critiche? I fatti, spesso anche tragici, degli ultimi anni, sono sotto gli occhi di tutti e tali critiche dunque, almeno alla luce di questi fatti, sembrano rivelarsi decisamente false o inattendibili. Ma l’esortazione apostolica del papa vuole essere in realtà un’esortazione profetica, non certo il tentativo di fornire un’interpretazione universalmente valida della realtà socioeconomica o degli strumenti teorico-pratici specifici di lotta contro le iniquità del sistema.

Un’esortazione profetica rivolta ai cattolici, per cui l’evangelizzazione non può consistere semplicemente nella conoscenza e nell’accettazione dei contenuti di fede del catechismo e nell’amministrazione-ricezione dei sacramenti ma anche nello sforzo sempre rinnovato di trovare «un nuovo modo di vivere, una nuova comunità e un nuova concezione del futuro di tutti gli uomini…Occorre un'evangelizzazione completa, che includa la cultura, la società, la politica e l'economia. Ciò che questo comporta per la Chiesa in una società moderna, pluralistica, libera e aperta, non è ancora stato ben compreso e tanto meno messo in pratica» (ivi, corsivo mio).

Ma un’esortazione profetica rivolta anche al mondo esterno o al mondo tout court: qui essa produce i maggiori attriti, le reazioni più dure, perché «con un approccio integrale si disturbano sempre i singoli interessi e le differenziazioni. I sistemi parziali sufficienti a se stessi, come l'economia o la politica, si difendono dalle ingerenze esterne. Infatti, ci siamo naturalmente abituati alla differenziazione degli ambiti di vita che i sociologi descrivono per il mondo moderno. E tuttavia…se vogliamo essere una collettività, un popolo, una comunità di popoli su questo pianeta, allora non possiamo partire dai nostri interessi e da ambiti di vita differenziati separati, ma dobbiamo osare guardare all'insieme» (ivi).

Per il papa non è possibile accettare che la vita nella globalità dei suoi aspetti sia ridotta alla categoria dell’economico (che era esattamente il pensiero del vecchio Marx sia pure in un diverso contesto storico-teorico e nel quadro di una concezione non religiosa della società e della storia degli uomini), e che di conseguenza ogni ambito dell’esistenza sia giudicato esclusivamente sulla base di un criterio di “economicizzazione”. Il papa reputa che l’economicizzazione, nuovo dogma della ragione utilitaria contemporanea, non abbia significato e non significhi altro «che rendere il ritmo della società dipendente dagli interessi dello sfruttamento del capitale, e ciò a livello globale. Ovvero, in sostanza, rendere il capitalismo il parametro globale e complessivo, e ciò sullo sfondo di un'ideologia faziosa, che intende il progresso come processo di evoluzione di tale capitalismo, al quale gli uomini, le loro culture e i loro stili di vita si devono adeguare. Il capitalismo, in sostanza, viene considerato come un evento naturale, e il compito degli uomini e della politica è quello di adattarsi» (ivi).

Il papa contesta che il capitalismo debba necessariamente essere l’unico sistema economico possibile della storia umana, l’unico modo di produzione e di distribuzione, l’unico modello di organizzazione del lavoro e del sapere, l’unico contesto culturale in cui l’uomo possa forgiare la sua libertà e la sua dignità. Pensare che, attraverso la libera concorrenza debba emergere sempre e comunque il bene o il meglio, significa fare pura e semplice ideologia: «Il capitalismo non deve diventare il modello della società perché - per dirlo in maniera esasperata - non tiene conto dei singoli destini, dei deboli e dei poveri. È questo che il Papa critica» (ivi). Ma questa critica «non c'entra nulla con il rifiuto dell'economia di mercato, che è necessaria e sensata, ma che deve servire l'uomo». In effetti,  «l'esortazione ammonitrice del Papa è compatibile con l'obiettivo di sviluppare una politica sociale d'ordinamento globale per l'economia, orientata alla convinzione che ogni uomo ha sempre bisogno di una nuova opportunità» (ivi).

Ma la domanda decisiva posta dall’esortazione pontificia è la seguente: «dove sono i partiti politici» che si impegnano realmente e coerentemente per una trasformazione qualitativa del mondo attuale? «Dove sono i cristiani, uomini e donne, che s'impegnano nell'ambito della politica, dell'economia e della società? È vero: criticare il capitalismo non è una soluzione. Occorrono programmi che pongano il mercato, la società e lo Stato in un nuovo rapporto reciproco, e tutto ciò globalmente» (ivi).

Contrariamente a quel che hanno scritto alcuni importanti esponenti ed opinion leaders della destra americana, non è vero, scrive il cardinale Reinhard Marx nella conclusione del suo lucidissimo articolo, che la Chiesa cattolica disprezzi i ricchi ma certo essa «ricorda che i beni materiali sono solo mezzi per raggiungere un fine e non possono rappresentare il senso della vita. Una società nella quale si può invitare pubblicamente all'elogio dell'avidità è sulla via dell'alienazione e divide le persone.

 In fondo, la democrazia e l'economia di mercato sono nate sul terreno del cristianesimo, e non sono necessariamente contrarie allo spirito del Vangelo. Ma nelle aberrazioni da esse assunte già nel capitalismo primitivo riappaiono gli antichi demoni. Sí, è vero che il dibattito sull'ideale della povertà e sull'opzione per i poveri accompagna la storia della Chiesa. Ma non è vero che il Papa, nel difendere questa opzione, vuole lasciare poveri i poveri; egli esorta anzi a non escluderli, a creare una società dell'inclusione e della partecipazione e a combattere la povertà in modo non solo caritativo, ma anche strutturale.

Per questo il posto della Chiesa deve essere accanto ai poveri, perché solo a partire da loro e con loro possiamo guardare all'insieme della società, dell'economia e della politica, altrimenti perdiamo di vista ciò che è prioritario. Ed è questo che interessa il Papa anche nella sfida dell'evangelizzazione. Non si tratta in prima linea di uno sforzo caritativo a favore dei poveri, bensí di evangelizzazione, di coinvolgimento dei poveri, che vivono materialmente e/o anche esistenzialmente nelle periferie. Non sono oggetto della nostra assistenza, ma devono trovare un posto nella Chiesa e nella società. Se non cerchiamo di guardare con gli occhi dei poveri non vediamo il mondo in maniera corretta. Senza questo sguardo abbiamo una visione incompleta della realtà. È questo che fa notare il Papa, in continuità con il Vangelo.

L'appello a pensare oltre il capitalismo non è una lotta contro l'economia di mercato o una rinuncia a qualsiasi ragione economica, ma, proprio dinanzi alla crisi reale del capitalismo, un importante e necessario intervento del Papa, un invito a riordinare le priorità e a vedere il mondo come impegno di costruzione, che deve essere assunto liberamente e con responsabilità. Il futuro non è il capitalismo, bensì una comunità mondiale, che lasci sempre più spazio al modello di una libertà responsabile e che non accetti che popoli, gruppi e singoli vengano esclusi ed emarginati. È davvero una cosa tanto sbagliata e fuori dal mondo?» (ivi).

Ora, chi, dentro la Chiesa e fuori della Chiesa, vuole intendere, intenda: avrebbe detto Gesù!