Per amare Dio

Scritto da Francesco di Maria.

 

Dobbiamo amare il Signore non solo o non tanto per educazione o per abitudine ma anche e soprattutto per intima convinzione e per una spinta affettiva superiore a quella che noi sperimentiamo per gli esseri umani a noi più vicini e per le cose più belle del creato. Dobbiamo amarlo senza riserve più di come si può amare una persona o una realtà da cui dipenda interamente la nostra felicità, dobbiamo in lui e con lui sentirci al sicuro più di quanto ci si possa sentire sicuri e protetti con un uomo potente che ci abbia preso sotto la sua custodia e sia disposto ad elargirci continuamente i suoi beni e la sua regale amicizia. Dobbiamo amarlo con l’assoluta certezza che, se ci poniamo lealmente al suo servizio pur con la nostra fallibilità, egli non tradirà mai le nostre aspettative di amore e di giustizia, quali che siano le contrarietà della nostra esistenza terrena.

Amarlo deve significare per noi non metterlo mai in discussione, non dubitare mai né del suo amore né della feconda veridicità dei suoi insegnamenti, non chiedergli di appagarci nelle nostre incipienti o insorgenti ambizioni personali ma di concederci ciò di cui abbiamo realmente bisogno per affrontare il nostro pellegrinaggio terreno e per ereditare il suo regno di giustizia e di pace. Amarlo bisogna non come si può amare un personaggio nobile ma lontano, una fonte meramente ideale di conforto e di speranza, ma come si ama una persona in carne e ossa cui si tiene più che alla propria vita e che ne costituisce una risorsa preziosa e irrinunciabile, come si ama qualcuno con cui si possa parlare e discutere con profondo affetto, qualcuno con cui talvolta sia possibile interloquire anche vivacemente o animatamente non per difetto ma per eccesso d’amore e di fiducia, qualcuno che si possa anche tradire per debolezza o per viltà ma che non possa mai tradirci.

Chi ama Dio, chi ama il Padre, chi ama il Figlio e il loro Santo Spirito, chi ama la loro creatura preferita ovvero la Santa Vergine Maria, sa o meglio sente intimamente che essi gli sono accanto nella gioia e nel dolore, nei momenti luminosi come in quelli più oscuri, nella vita e nella morte, e dopo la morte. Ma chi li ama non può amarli a prescindere dalla loro volontà, dai loro insegnamenti, dalle loro paterne e materne aspettative o secondo una rappresentazione falsa e meramente soggettivistica della stessa divinità.

Chi li ama è tenuto non già ad essere perfetto ma a sforzarsi di essere spiritualmente sempre più perfetto nel rispetto delle loro leggi, è tenuto ad approfondirne continuamente la conoscenza, a chiedere loroininterrottamente di non essere abbandonato nelle ricorrenti tentazioni della vita, a confidare con la stessa spontaneità e lo stesso candore di un bambino nella loro presenza amorevole e protettiva.

Chi li ama, li ama senza calcoli di sorta e semplicemente perché è profondamente convinto che i comandi divini, se intesi o interpretati correttamente, sono giusti e santi comandi, concepiti non contro gli esseri umani ma a loro favore, non per mortificare ma per esaltare la loro libertà e la loro dignità, non per condannarli all’infelicità ma per farli entrare in una vita gioiosa e senza fine.

Amare Dio e Maria, sua madre e sposa, obbliga ad ottemperare, per amore appunto e non per paura, alle chiare e sante raccomandazioni divine già contenute in un antichissimo libro quale il Levitico: «Non ruberete né userete inganno o menzogna a danno del prossimo. Non giurerete il falso servendovi del mio nome: profaneresti il nome del tuo Dio...Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo; non tratterrai il salario del bracciante al tuo servizio fino al mattino dopo. Non maledirai il sordo, né metterai inciampo davanti al cieco, ma temerai il tuo Dio…Non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai con parzialità il povero né userai preferenze verso il potente: giudicherai il tuo prossimo con giustizia. Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai alla morte del tuo prossimo…Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, cosí non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19, 11-18).

Questo è uno dei passaggi veterotestamentari più significativi che sarebbero confluiti senza correzioni e aggiustamenti nel vangelo stesso di Cristo, tanto che ancora in san Paolo, specialmente dove si parla dei nemici, non si perde occasione per ribadirne e ricordarne l’attualità: «Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina. Sta scritto infatti: Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo, dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12, 17-20).

C’è poco da fare: per amare Dio bisogna donarsi agli altri, soffrire per gli altri, dimenticare se stessi per gli altri, se necessario morire per gli altri, non genericamente, non secondo un concetto meramente retorico o ipocrita di carità, ma alla luce di moniti duri e impegnativi come quelli che sono stati citati. Per amare Cristo non si può vivere nell’ambiguità. Bisogna scegliere tra la verità e la tranquillità. La tranquillità dell’ambiguità è la tentazione di molti cristiani, indipendentemente dai ruoli da essi ricoperti nella società o nella Chiesa: interpretare i dogmi, destreggiarsi con i comandamenti, abbassare le esigenze, adattare Cristo al mondo...Cosí facendo, prima o poi si finisce per non essere più cristiani ma schiavi o servi del mondo.

A volte ci si illude di essere fedeli a Cristo solo perché ci si accosta frequentemente ai sacramenti da lui istituiti, senza che ci si renda conto che senza interiore e incondizionata adesione ai suoi esigenti precetti i riti sacramentali non sono molto dissimili dai riti magici. Non era una fedeltà puramente sacramentale, una formale fedeltà sacramentale e non anche profondamente spirituale ed esistenziale, la fedeltà di cui parlava Gesù quando diceva: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32).

Per amare Dio bisogna anche guardarsi dalla tentazione della autosufficienza e dell’autoreferenzialità, dalla presunzione di credere che “gli altri” non possano mai aiutarci a conoscerlo meglio, a comprendere più chiaramente le più interne articolazioni dell’annuncio salvifico divino e a comportarci più virtuosamente di quanto facciamo. Tante volte nella stessa comunità ecclesiale, per respingere critiche tanto sgradite quanto giuste ed efficaci, si sentono pronunciare, non solo da parte dei comuni fedeli ma anche da parte di ecclesiastici di ogni ordine e grado, espressioni del tipo “solo Dio sa”, “importante è solo il giudizio di Dio, non il vostro o il tuo”, o ripetere con intenti del tutto strumentali e mendaci massime evangeliche come “chi non ha peccati scagli la prima pietra” e cose di questo genere.

Ma in tal modo Dio, e la stessa partecipazione alle assemblee eucaristiche, fungono solo da comoda copertura retorica alla nostra pochezza spirituale, alla nostra incapacità di emanciparci da un culto inconfessato ma dannoso del nostro io e da una sostanziale indisponibilità ad apprendere qualcosa di buono o di utile persino dal prossimo più lontano dai nostri rapporti amicali e affettivi oppure dall’ordine dei nostri gusti e delle nostre simpatie personali.

Infatti, già in un libro dell’Antico Testamento, viene raccomandato non solo di benedire in ogni circostanza il Signore e di chiedergli «che ti sia guida nelle tue vie e che i tuoi sentieri e i tuoi desideri giungano a buon fine» ma anche di chiedere «consiglio a ogni persona che sia saggia» e di «non disprezzare nessun buon consiglio» (Tb 4, 18-19). Certo, perché il Signore può parlarci attraverso chiunque e con qualunque mezzo, non necessariamente o esclusivamente attraverso i suoi “ministri” posto che i “ministri” siano sempre realmente all’altezza del loro compito.

Anzi, il Signore spesso si serve di persone socialmente poco influenti per imprimere nella vita delle persone come nella storia dei popoli i segni della sua grazia e della sua volontà. Ed egli affida generalmente la trasmissione della sua sapienza non ai sapienti riconosciuti ed onorati di questo mondo ma ai suoi “stolti” (come stolti erano i suoi profeti o i suoi apostoli), a quelli che, mentre vivono, non godono di particolare visibilità sociale e culturale e che, costantemente ispirati dall’alto, parlano con rigoroso spirito di verità e di giustizia senza fare calcoli e compromessi di sorta, senza preoccuparsi di scontentare amici e nemici, senza darsi pensiero di ledere gli interessi costituiti di alcuno.

Questi stolti visionari, però, non si montano la testa, non si insuperbiscono perché si sentano designati da Dio come i suoi giusti e i suoi profetici annunciatori o testimoni ma, con tutti i loro limiti di cui sinceramente si dolgono, si mettono umilmente al servizio della loro comunità religiosa di appartenenza, facendo quanto il Signore si aspetta che essi facciano per la salvezza propria e dei fratelli: «Molto potente è la preghiera fervorosa del giusto. Elia era un uomo come noi: pregò intensamente che non piovesse, e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. Poi pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto. Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Gc 5, 17-20).