Il giusto e Dio

Scritto da Francesco di Maria.

 

Non c’è giusto più grande di Cristo. In senso assoluto, Cristo è l’unico giusto. Ma biblicamente il termine “giusto” è usato anche in senso relativo e sta a denotare colui che, pur peccando sette volte al giorno, è capace di chiedere perdono a Dio con cuore realmente contrito ogni volta che pecca e di confidare continuamente nella sua misericordia. Il giusto, in questo senso, non è un uomo perfetto come Cristo ma è molto gradito a Dio per la sua sincera volontà di perfezionamento e di santificazione, per la sua capacità di reiterargli la sua fedeltà al di là dei molteplici e inevitabili marosi dell’esistenza.

Il giusto è colui che, nonostante le sue debolezze e i suoi errori, non si giustifica, non si crea alibi, ma, dolendosene profondamente, si accusa  davanti al Signore implorandolo di restargli amico; il giusto è colui che fa del suo meglio per agire correttamente e per non recare danno a nessuno. Ma è anche colui che non esita a denunciare le iniquità del mondo anche a costo della sua incolumità, colui che, specialmente quando i tanti poteri costituiti vorrebbero costringerlo a rispettare leggi ingiuste o modi di pensare peccaminosi, non tarda a rispondere: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti 5, 29). Infine, è colui che, qualunque cosa accada, non recrimina mai contro Dio né si oppone ai suoi progetti, sebbene possano sembrargli oscuri o incomprensibili, ma mette completamente la propria vita nelle sue mani.

Giusto è evangelicamente chi in sostanza si lascia giustificare da e in Cristo, dichiarandosi pronto a vivere e ad offrire la sua vita per Cristo, chi manifesta concretamente e coerentemente, con parole e opere, la sua riconoscenza per la salvezza ottenuta da Cristo. Oggi come ieri il giusto è sempre in lotta con la concupiscenza della carne (passioni e desideri smodati e contrari alla volontà divina), con la concupiscenza degli occhi (non solo il desiderio di avere ciò che Dio non ha dato e non dà, ma anche e soprattutto l’artefatta tendenza a darsi uno sguardo contegnoso e sussiegoso deliberatamente volto ad attirare gli sguardi altrui su se stessi), e con la superbia della vita (che, come è stato ben scritto da uno studioso gesuita, «è il vizio dei “perfetti”…di coloro che si credono tali e presumono di essere autosufficienti…di coloro che, consci dei loro punti “forti”, non fanno nulla per respingere la tentazione di sentirsi importanti e superiori agli altri e non coltivano, se non a parole, quell’atteggiamento di consapevolezza interiore che il vangelo chiama “vigilanza”…e in definitiva di coloro che, forse anche senza badarci, si servono delle proprie presunte o reali capacità per dominare gli altri» (cfr. Gv 2, 15-16).

Il giusto non disprezza, né per sé né per gli altri, “la correzione del Signore” e non si perde d’animo quando è “ripreso da Lui”, perché sa bene che “il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio” (Ebrei 12, 5-6). D’altra parte, non dubita che come Egli strazia cosí guarisce, come Egli percuote cosí medica le ferite e risana (Osea 6, 1). Il giusto smaschera ogni tipo di inganno e di violenza, ma non odia nessuno o riesce a far prevalere, con l’aiuto di Dio, un sentimento di amore su un sentimento di odio.

E’ sempre in guerra col mondo ma solo perché il mondo abbia pace nella verità e nella giustizia, e pur predicando carità e condivisione di beni materiali oltre che spirituali con indigenti, esclusi ed oppressi, non si dà particolare pensiero per se stesso di cose pure essenziali alla vita come il mangiare, il bere o il vestirsi, mentre le sue maggiori preoccupazioni riguardano “il regno di Dio e la sua giustizia”, ben sapendo che il Signore è molto munifico verso coloro che al centro della loro agenda spirituale hanno posto e pongono la ricerca del suo regno e della sua giustizia (Mt 6, 30-34).

Il giusto è sempre grato al Signore per i doni, piccoli o grandi, che gli ha elargito e si riconosce nelle parole di san Pietro: “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!” (1Pt 4, 10-11).

Tuttavia, molto o poco istruito che sia, non esita a domandare a Dio la sapienza con fede, essendo cosciente del fatto che “chi esita somiglia all’onda del mare, mossa e agitata dal vento” e che “un uomo cosí” non può pensare “di ricevere qualcosa dal Signore” perché “è un indeciso, instabile in tutte le sue azioni” (Gc 1, 1-11). Al tempo stesso ai giudici del suo tempo, nei diversi ambiti del giudizio legislativo, giudiziario e comunitario, il giusto non si stanca di ricordare che devono ascoltare le cause dei fratelli e giudicare con vera e non falsa giustizia le questioni che si possono avere con connazionali o stranieri, con persone potenti o deboli: infatti, come recita l’Antico Testamento, “nei vostri giudizi non avrete riguardi personali”, là dove bisogna “dare ascolto al piccolo come al grande”, per cui “non temerete alcun uomo, poiché il giudizio appartiene a Dio” (Dt 1, 16-17).

Il giusto, per rendere efficace la sua testimonianza religiosa, non è necessario che disponga di un consenso o di un seguito molto ampio di persone, anche se ha sempre il dovere di annunciare “opportune et importune”, e sia pure umilmente e rispettosamente, la parola divina e di sollecitare chiunque a fare la volontà di Dio.

Da una parte, non è necessario che le sue iniziative di fede siano condivise da grandi masse di persone, anche perché se si mette molto sale nella zuppa, essa sarà immangiabile. Per insaporirla, ce ne vuole quanto basta ad insaporirla, il che, fuor di metafora, significa che anche pochi uomini, a volte persino un solo uomo (come è stato ed è nel caso dei profeti di ogni epoca), possono rendere davvero significativi e coinvolgenti gli insegnamenti di Dio, dove importanti non sono solo i contenuti trasmessi (che sono non un possesso privato di chi annuncia ma un dono che bisogna partecipare ad altri con umiltà e rispetto) ma anche e soprattutto i modi in cui vengono trasmessi.

Dall’altra, la sua opera non può limitarsi all’annuncio ma alla messa in opera dell’annuncio stesso nei limiti delle sue possibilità e capacità operative, per cui dovrà farsi carico delle altrui debolezze, pur senza rinunciare a cercare di far valere le ragioni del vero e del bene, senza essere troppo preoccupato di imporsi o, peggio, di perseguire scopi e interessi personali anche solo di natura psicologica, e dovrà essere sempre vicino ai soggetti più deboli, più sensibili e più bisognosi di solidarietà e di sostegno materiale e spirituale.

Ognuno di noi è chiamato ad essere un giusto, in proporzione ai carismi ricevuti da Dio, e quindi ad essere “sale della terra e luce del mondo”: quanto più sincera e disinteressata è la capacità di fare nostre le miserie e le angosce dei sofferenti e di stare tangibilmente dalla loro parte, quanto più elevata e saggiamente comunicativa è la qualità dell’annuncio, tanto più degno sarà ognuno di noi della fiducia riposta da Cristo in ogni suo discepolo: “voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13-16).

Il giusto è chi conserva la sua sapidità di fronte alla corruzione, ad ogni forma di corruzione: se la gente dice male di lui proprio a motivo della sua resistenza al male, egli se ne deve solo rallegrare perché questo è l’effetto prodotto dal sale “che morde e punge le piaghe”, come commenta Giovanni Crisostomo, mentre se “il timore delle calunnie” gli “farà perdere il vigore che gli è indispensabile”, allora per lui “vi saranno conseguenze ben peggiori” perché “sarà coperto dalle ingiurie e dal disprezzo di tutti”. Identico è il ragionamento per il giusto come “luce del mondo”.