Profilo di una piccola grande suora trappista

Scritto da Francesco di Maria.


La lunga e travagliata storia della comunità monastica cistercense di Vitorchiano è maestra di fede, di speranza e di carità (C. Piccardo, La storia. Maestra di fede, di speranza, di carità, Torino, Lindau, 2014). Questo è l’assunto da cui muovono il racconto e l’ampia e dotta riflessione teologica di Madre Cristiana Piccardo, di origine genovese ed entrata nel monastero trappista di Vitorchiano nel ’58, dove è stata badessa nel ’64, nonché instancabile guida per 24 anni di tale comunità che ha disseminato in ben 5 continenti, assolvendo funzione di badessa anche nel monastero affiliato fondato a Humocaro in Venezuela. E’ stata dedita per decenni, nell’apparente silenzio dei monasteri da lei frequentati, allo studio delle sacre scritture, alla contemplazione della grandezza misericordiosa di Dio e al servizio dei bisognosi.

Ma qui vorrei spiegare perché maestra di fede, di speranza e carità sia stata in realtà lei stessa. Maestra di fede perché, sempre in linea con il santo magistero della Chiesa, ne ha di certo arricchito la spiritualità con un pensiero lucidamente orientato a fissare le essenziali coordinate della fede in Cristo, a cominciare da un concetto oggi sempre più scomodo e sempre meno accettato e vissuto nella profondità del cuore da parte della stessa comunità cattolica occidentale: quello per cui non è cristianamente lecito pensare da credenti e vivere da atei, in quanto non è la fede pensata e proclamata ma la fede vissuta e testimoniata con la vita quella che può veramente immetterci sulla scia salvifica di Cristo.

I cristiani, per primi, devono avere ben chiaro che  «vivere alla superficie di tutte le cose, di ogni avvenimento e dell’esistenza stessa, è il mistero della condanna eterna. L’inferno è proprio questo vuoto di significato, questo vuoto di esistenza, perché è il vuoto di Dio, l’eterna presenza che respira nell’esistenza umana e dà consistenza a tutte le cose. Sí, Gesù parla delle fiamme che bruciano nell’inferno, del fuoco che consuma, ma ciò che veramente arde e non si consuma è l’indicibile vuoto, l’inconsistenza assoluta, la febbre del nulla» (op. cit., p. 29).

Il cristiano non dev’essere tiepido, uno che non dice di no ma un sí che rasenti l’apatia e l’indifferenza e porti pertanto a non voler trasformare la qualità della propria vita e del rapporto tra la propria vita e quella degli altri, tra la propria vita e le “infuocate” aspettative spirituali di Dio.

Maestra di fede, ma suor Cristiana è stata anche una maestra di speranza e di carità. Quelli che, sia pure soggetti alle tentazioni del mondo, non stanno dietro alla ricchezza, al potere, alla bellezza e persino alla cultura; quelli che tutto questo considerano sempre e solo in un’ottica di fede, di lode al Signore, di rimpicciolimento di sé, di comunione e condivisione fraterna, possono sperare. Anzi, solo costoro possono sperare in senso proprio di rinascere a nuova vita, di vedere Dio faccia a faccia, di essere destinati ad una vita immortale.

Una persona di Chiesa, come una religiosa di un determinato ordine contemplativo, osserva Cristiana raccogliendo la testimonianza di una sua consorella, «può essere anche molto buona, ma se non ha un amore ardente per Cristo, la sua vita manca di tono…La vita contemplativa senza una grande fiamma interiore è solo una vita vegetativa, una vita impossibile » (ivi, p. 44 e p. 46).

Su cosa può mai fondarsi una speranza vera e non illusoria di Cielo, di Eternità, di Felicità, se non su quella percezione di Dio come di una persona in carne e ossa, che, al di là della sua misteriosa ed invisibile presenza, da un momento all’altro si potrebbe vedere, udire, toccare, sensorialmente, fisicamente, materialmente. Può sperare solo chi percepisce Dio come reale e nella stessa realtà umana corporea e spirituale di Cristo, non come mera possibilità, non come pura ipotesi, non come fredda congettura di natura pseudoconsolatoria.

E, infine, la badessa Cristiana Piccardo è stata anche una maestra e una testimone di carità. Ella, infatti, ricorda anche i suoi sforzi personali di vivere la carità in linea con lo spirito del Concilio Vaticano II, in virtù del quale sarebbe stato chiesto alle stesse comunità monastiche di non essere comunità separate dal mondo ma piuttosto comunità separate nel mondo, separate certamente per testimoniare la loro appartenenza esclusiva, con la preghiera e la vita di povertà e castità, a Dio e non al mondo, ma separate nel mondo, perché l’appassionata carità verso Dio avrebbe dovuto pur sempre trovare il suo riscontro nell’attenzione e nell’amore fraterni e solidali verso il prossimo.

Un concetto ribadito successivamente da Giovanni Paolo II nel 1995 nella lettera apostolica Orientale Lumen: «Il monastero è il luogo profetico in cui il creato diventa lode di Dio e il precetto della carità concretamente vissuta diventa ideale della convivenza umana». La fede è personale e realmente caritatevole solo se è vissuta nella comunità e per la comunità, anche se o quando vi siano incomprensioni o contrasti.

Se prima del Concilio negli ordini monastici e negli istituti di clausura si pensava soprattutto all’osservanza delle regole formali, a resistere fisicamente alla preghiera vigiliare, al lavoro dei campi, al digiuno, e via dicendo, dopo il Concilio «si cominciava ad essere più attenti alle persone, si pensava che anche chi non aveva molte risorse fisiche forse aveva altri talenti che potevano arricchire la comunità e determinare comunque una bella vocazione monastica. Il valore dell’uomo era al centro del messaggio conciliare e iniziava lentamente a essere al centro di un discernimento comunitario. Il secondo punto nevralgico di quella trasformazione era certamente il dialogo – che stimolava una ricerca di verità personale e comunitaria, la ricerca di sintonie vere e profonde e non di alleanze equivoche e sporadiche – e ci metteva tutte profondamente in discussione» (p. 58).

Certo, il dialogo comportava talvolta anche lo scontro o il violento battibecco tra mentalità diverse, per cui non era affatto scontato il reciproco e attento ascolto, ma pian piano, ricorda con commozione suor Cristiana, «il dialogo diventava lentamente il metodo formativo dei nostri noviziati e monasticati» (p. 59). Questa è la via della carità non sempre priva di ostacoli e faticosamente seguita da suor Cristiana nell’ambito della sua esperienza religiosa e monastica. Ma «la comunione fraterna» nei conventi come nella Chiesa e nel mondo rimane ancora oggi una delle mete non solo più alte ma anche più difficili della vita comunitaria cristiana contemporanea.