Vangelo e violenza

Scritto da Francesco di Maria.


Questa riflessione sul rapporto tra vangelo e possibile uso della violenza viene svolta sia sulla base della narrazione evangelica edell’approfondimento esegetico del senso della Parola di Dio, sia sulla base della riflessione che sullo stesso argomento venne facendo in un volume collettaneo (AA.VV., Forza e violenza, Roma, Volpe, 1973) un importante filosofo cattolico francese del XX secolo quale Gustave Thibon.

A prima vista il vangelo sembra radicalmente opposto all’uso della violenza. Esso infatti è interamente fondato su queste parole di Gesù: "Siate perfetti, come perfetto è il vostro Padre celeste”, che significa “siate misericordiosi in quanto uomini come lo è il Padre celeste in quanto Dio” ma anche “poiché voi non potrete mai raggiungere la perfezione di Dio ed essere misericordiosi come lui, sappiate che, per quanto grande, la vostra misericordia sarà sempre insufficiente e imperfetta e proprio per questo non dovrete mai stancarvi di rinnovarla ed esercitarla verso i vostri simili”.

Quello di Gesù è un imperativo ma, dal punto di vista morale e spirituale, non c’è un imperativo più dinamico di questo. E’ come se Gesù ci dicesse: perfetti non si è, perfetti si diventa; perfetti non si è mai compiutamente ma sempre parzialmente, per il semplice fatto che la perfezione divina è inarrivabile e perché il nostro modo di essere misericordiosi è sempre suscettibile di perfezionamento e ci sarà sempre tanta strada da fare prima di poter raggiungere uno stato di compiuta perfezione.

Da ciò sembrerebbe conseguire la proibizione di ogni genere di violenza e sembrerebbe avallare il detto di Pascal: “violenza e verità nulla possono l’una sull’altra”. Anzi, l’unica violenza che sembra essere consentita e richiesta dal vangelo è quella che l’uomo è chiamato ad esercitare sulle sue passioni malvage per poter tenere a distanza il peccato sempre incombente, secondo quanto lascia intendere il versetto di Mt 11, 12: “il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono”. Qui si ha a che fare con una santa violenza che viene esercitata solo a vantaggio della libertà e non contro la libertà e la dignità di alcuno.

Ma, nei rapporti con il prossimo, il cristiano può mai essere necessitato a fare uso di violenza o di un qualche genere di violenza che risulti compatibile con la legge evangelica dell’amore oppure il suo atteggiamento dev’essere sempre e comunque passivo e incruento, tanto più in presenza di forme disumane di violenza?

Generalmente la violenza noi l’esercitiamo, più che su noi stessi, sugli altri. Diceva Nietzsche che “quando non siamo contenti di noi stessi, siamo sempre pronti a farla pagare agli altri”. E questo è vero, nel senso che può capitare e capita spesso. Ma la domanda è: è proprio vero che evangelicamente non sia consentito di esercitare alcun tipo di violenza nei confronti del prossimo, anche o specialmente ove occorra difendere o salvaguardare l’altrui sopravvivenza? Il Signore ci dà due criteri molto chiari di comportamento: verità e amore, ben sapendo che per natura noi tutti in genere tendiamo ad essere violenti e aggressivi, vale a dire più o meno schiavi del peccato originale o attuale (G. Thibon, La violenza al servizio  della libertà, in op. cit.). Allora sembrerebbe inevitabile rispondere alla domanda posta: no, non c’è niente da fare, il seguace di Cristo dev’essere sempre capace di porgere l’altra guancia e di non resistere al male e ai cattivi (Mt 5, 38-42).

Solo che con queste parole Gesù intende affermare la superiorità spirituale, non certo la debolezza o la viltà del cristiano rispetto al suo nemico. Il cristiano cioè non si deve mai mettere sullo stesso piano di violenza e aggressività del suo stolto avversario, ma deve tuttavia contrastarlo efficacemente ora con la parola e con la persuasione, ora con il ricorso alla legge e al giudice (perché il cristiano, pur appartenendo a Dio, vive nel mondo di Cesare e a Cesare legittimamente può rivolgersi), ora con il silenzio e l’apparente rinuncia a far valere le sue ragioni, e insomma, a seconda dei casi, in tutti i modi e con tutti i mezzi incruenti legittimi di cui dispone personalmente e storicamente, senza in alcun caso rinunciare a difendere la propria e l’altrui libertà. Il cristiano può essere spiritualmente cosí forte da affrontare in talune circostanze, senza opporre resistenza fisica, persino il martirio e la morte. Per esempio, la circostanza in cui Cristo dice a Pietro di riporre la spada nel fodero è una di quelle circostanze in cui colui che ama veramente e totalmente Dio non oppone alcuna resistenza perché capisce che è venuta “l’ora” del sacrificio supremo, dell’offerta totale di sé al Padre per il bene di tutta l’umanità.

Ma altro sono le circostanze particolari, speciali della vita (nel caso di Gesù si trattava di una circostanza carica di significato salvifico), altro sono le circostanze ordinarie della vita nelle quali bisogna badare a guardarsi dalla sopraffazione, dal sopruso, da molteplici forme di violenza e di iniquità, e a reagire in modo cristianamente adeguato. Gesù ci dice di offrire l’altra guancia, non di lasciarci calpestare senza proferire parola, ci dice di stupire i propri nemici con atti straordinari di pazienza e di bontà, non di consentire loro che possano abusare tranquillamente dei nostri beni personali, dei nostri affetti o delle nostre persone più care. Certo, bisogna non opporsi al malvagio proprio nel tentativo di disinnescare la carica di violenza che il malvagio esercita contro di noi, ma il Signore non dice che dobbiamo restare silenziosamente in balía del malvagio anche quando sia del tutto evidente che ci vuole espropriare di tutto o vuole distruggere noi e i nostri cari. Sarebbe un gravissimo errore confondere, come ebbe a notare una volta il cardinale Giacomo Biffi trattando del pensiero del filosofo russo Solovev, il pacifismo e la non violenza di matrice tolstoiana con gli ideali evangelici di pace e fraternità, sarebbe il modo migliore di arrendersi alla prepotenza e di lasciare senza difesa i deboli e gli onesti.

Siamo chiamati a sopportare sempre e comunque e ad essere quanto più possibile misericordiosi: questo è il senso delle esortazioni rivolteci da Gesù. In questo senso, là dove sia chiaro che il malvagio ci tiene completamente in pugno e che ormai vana è o sarebbe qualunque possibilità di difesa, siamo anche chiamati ad andare serenamente e fiduciosamente incontro al martirio e alla morte, ma il messaggio di Gesù non può essere inteso in nessun caso come un invito a lasciarsi sopraffare e annientare.

Ciò detto, esistono anche diverse forme di violenza che, a meno di non volersi attenere ad una accezione acritica ed ipocrita dei termini violenza e non violenza, sono completamente compatibili con il messaggio non violento di Gesù. E sono tutte quelle forme legittime di violenza che servono da una parte a migliorare l’individuo e dall’altra a proteggere la società.

C’è ad esempio una violenza educatrice che si esercita sul fanciullo per educarlo e che consiste nell’obbligarlo gradualmente a rinunciare “ad una parte della sua libertà di oggi per meglio assicurare la sua libertà di domani”. Qualcuno ha detto giustamente che la cultura, sotto il profilo educativo, “comincia con una scocciatura”, ovvero comincia con il costringere il fanciullo a fare qualcosa che non ha voglia di fare (ad esempio ad obbedire a ordini o norme del tutto ragionevoli ma impegnative o a distinguere tra ciò che si può fare e ciò che non si può fare). La stessa violenza educatrice si esercita sui giovani della secondaria superiore allorché un docente che si rispetti, per quanto possa essere aperto al dialogo, non può che imporsi all’ascolto e all’attenzione della scolaresca con un bagaglio adeguato di conoscenze e di competenze che, sebbene trasmesse e comunicate con un linguaggio chiaro e preciso, possono anche infastidire gli studenti e richiedere loro molto sforzo intellettivo e morale ma che sono assolutamente necessarie alla loro formazione intellettuale e morale.

Ciò è vero anche se oggi, nella pedagogia scolastica contemporanea, vige massicciamente il principio esattamente opposto, ovvero quello della spontaneità o meglio dello spontaneismo educativo, per cui il fanciullo non dovrebbe essere forzato ad apprendere né dovrebbero essergli inculcati princípi morali ma dovrebbe essere solo accompagnato ad apprendere spontaneamente tutto quel che gli va di apprendere e quando gli va, cosí come i giovani più che di professori preparati e competenti avrebbero bisogno di professori psicologi non oppressivi che, fermo restando oggigiorno l’impossibilità di discriminare tra allievi volenterosi e diligenti e allievi imbecilli e presuntuosi, sappiano farsi carico delle vere necessità psicologiche ed umane di ciascun allievo.

Ora, non è che non si vogliano riconoscere i limiti e gli eccessi avvilenti e tirannici di certi antichi metodi educativi, ma passare da essi all’eccesso opposto non è forse ridicolo oltre che palesemente fuorviante e dannoso per i singoli come per la società nel suo complesso? Perché l’umanità deve sempre passare da un eccesso all’altro ed è cosí difficile usare correttamente la propria capacità di discernimento al fine di non sbandare e di tenersi saldamente al centro della strada? Ma è solo questione di discernimento o anche e soprattutto di onestà completamente carente nelle università, nei ministeri, nelle scuole, negli stessi dirigenti scolastici e in tanti docenti il più delle volte impreparati?

Se si parte dal demagogico presupposto che i bambini siano dei piccoli dei cui tutto dev’essere sacrificato e che i giovani siano degli intoccabili che devono essere solo capiti ed assecondati, non si rischia di farne dei mostri di egoismo e di irresponsabilità oltre che di stupidità?

Altra forma di violenza legittima è quella necessaria ad assicurare l’ordine e la sicurezza sociali, è quella che sono tenuti ad esercitare le forze dell’ordine e il potere giudiziario attraverso l’applicazione delle leggi e delle relative pene ai trasgressori e ai delinquenti, senonché troppe volte accade oggi che si tenda a minimizzare le responsabilità del delinquente incallito e a colpevolizzare in modo altrettanto aprioristico l’operato di polizia carabinieri e giudici, o che al contrario si condanni univocamente e in modo altrettanto preconcetto il delinquente e si assolva per partito preso, qualunque cosa facciano, poliziotti carabinieri e giudici. Per cui la violenza in sé benefica può diventare, a seconda dei casi, oggetto di incomprensibile e irrazionale condanna oppure strumento salutare ma anche ambiguo e pericoloso di sicurezza sociale se per l’appunto si prescinda  dal fatto che se ne possa abusare.

Infine, c’è un’ultima forma di violenza ben legittima che il vangelo non solo non condanna in modo esplicito ma ammette implicitamente in riferimento al quinto comandamento: non uccidere. Non uccidere implica dal punto di vista evangelico anche il non fare uccidere, il darsi da fare secondo le proprie possibilità perché non vengano poste in essere intenzioni o azioni omicide, tant’è vero che in Esodo 23, 7 lo stesso comandamento viene formulato in modo meno generico e più preciso: «Non far morire l'innocente e il giusto».

Non uccidere dev’essere dunque letto evangelicamente anche come un esplicito invito a non essere indifferenti dinanzi a situazioni in cui si cerchi di privare determinati individui o determinati popoli della loro libertà; a fare di tutto, e se necessario a far uso anche della violenza, per tutelare il diritto delle persone e dei popoli alla vita e ad una vita dignitosa. Dinanzi ad una tirannia spietata può essere legittima cristianamente la sommossa o la rivoluzione di popolo, dinanzi ad una casta perversa e iniqua può ritenersi giusta cristianamente una rivolta violenta, dinanzi ad una guerra proclamata contro l’intera civiltà umana da gruppi di fanatici sanguinari (leggi ISIS), è più che legittimo o doveroso mobilitarsi con le armi.

Forse si può sintetizzare il sottinteso evangelico con la massima di Pierre Corneille: "La violenza è giusta ove dolcezza è vana". Tuttavia, se il vangelo non esclude aprioristicamente un possibile uso legittimo della violenza, non fornisce d’altra parte specifiche indicazioni che possano essere generalizzate, perché nella vita come nella storia i casi in cui ci si debba interrogare sulla liceità o non liceità dell’uso della forza sono infiniti e per molti di essi sussiste anche un margine ineliminabile di opinabilità a livello di fede e di coscienza morale, per cui solo chi concretamente sia coinvolto direttamente o indirettamente in più o meno gravi episodi di incomprensione, contrasto, lite, discordia, conflitto e via dicendo, può decidere sul da farsi attraverso la preghiera e il proprio senso di responsabilità.

Quante volte nella vita ordinaria o nella storia umana trova concreta attuazione il contenuto di una favola come quella del lupo e dell’agnello? Il lupo della favola è fuor di metafora, come si sa, un uomo che non solo vuole mangiare l’agnello, il mite, l’onesto, ma vuole anche avere la ragione o il diritto dalla sua parte! Questo per dire che, pur essendo ben note le ipocrisie cui può condurre “l’ammissione del principio della giusta violenza”, il rifiutarsi pregiudizialmente e sistematicamente di fare uso di violenza in circostanze particolarmente pericolose per la vita stessa delle persone o dei popoli, lungi dall’essere indice di saggezza evangelica, può condurre direttamente ad una violenza sempre più grande, o, come scrive Thibon, “al regno della violenza assoluta”.

Inutile è qui ricordare una tragedia emblematica come il nazismo che assai difficilmente si sarebbe potuto abbattere per via pacifica. Degno di essere riportato è, al riguardo, un ricordo di Thibon: «mi ricordo anche di Simone Weil, che fu una grande anima, un grande spirito, e che evidentemente nel 1935 era fautrice della pace ad ogni costo e nel 1941 mi diceva — e Dio sa se era non-violenta, se era vicina a Gandhi, vicina al misticismo indiano — mi diceva: "Non espierò mai abbastanza il criminoso errore del pacifismo". E infatti, che dura prova fu quella!» (ivi). Ma la stessa esperienza quotidiana ci mostra come molti uomini, potenti, religiosi, psicologi ed educatori, intellettuali, siano portati a parlare di amore con un tale slancio e una tale intensità che, ascoltandoli, non si può fare a meno di provare per loro un sentimento di stima e ammirazione, salvo poi a ritrovarli, in alcune circostanze della loro vita privata, capacissimi di esplodere per un nonnulla in espressioni o atti di rabbia violenta e incontrollata.

In sostanza, «nella prospettiva cristiana…la violenza rappresenta una necessità di fatto, dovuta all'imperfezione della nostra natura e alla presenza molto virulenta del peccato in noi; una necessità di fatto che va ridotta al minimo indispensabile per evitare un maggior male…L'uomo, lui, è collocato alla confluenza di due mondi; è sempre in equilibrio instabile fra le dure esigenze della vita temporale e l'appello di una purezza divina e perciò non realizzabile totalmente quaggiù. In tale prospettiva egli non si rassegna alla violenza se non quando essa contribuisca alla sopravvivenza e all'espandersi di quelle città carnali che - come dice Péguy - sono il corpo della Città di Dio» (ivi).

Peraltro, nel nostro mondo è curioso che da una parte si aborrisca ogni forma di violenza mentre dall’altra, senza rendersene conto o in modo inescusabilmente ipocrita, si sia indulgenti verso forme di violenza spacciate per conquiste di civiltà: si pensi a tutte le mode di pensiero e di costume che impazzano e sollecitano, attraverso stampa, cinema e televisione, gli appetiti più bassi! Si pensi alle pressioni sociali innaturali e sempre meno arginabili che vengono esercitate su una sfera cosí delicata quale è quella sessuale, in cui si assiste a un progressivo sovvertimento di valori naturali che, venendo meno, non possono che favorire o accelerare l’autodistruzione della società. Queste non sono forse forme di violenza volte a mutare la naturale e reale fisionomia psichica e spirituale della persona e del genere umano?

Perciò, dall’educazione della prima infanzia agli ambiti più qualificati della cultura, della morale e del diritto, della politica e della stessa religione, il vero cristiano è chiamato a vigilare e a combattere, non certo ad assistere passivo ed inerte, magari con la corona del rosario in mano, all’incancrenirsi della vita umana e sociale in tutti i suoi aspetti.

Se il non fare uso di violenza, né con la parola né con atti concreti, può salvare la vita di qualcuno o di molte persone, il cristiano non solo deve trovare la forza di astenersi da essa, ma, se necessario, dev’essere pronto al sereno sacrificio di sé. Ma se l’incolumità fisica e morale, la libertà e la dignità di pochi o di molti, dipendono anche dalla nostra capacità personale di gettarci generosamente e in autentico spirito di carità nella mischia e nel bel mezzo di un combattimento di qualsivoglia natura, il cristiano non può tirarsi indietro e deve comportarsi di conseguenza pur nei limiti delle sue possibilità e delle sue forze.

Molto bello e significativo, circa l’uso cristiano della violenza al servizio della verità, della libertà e dell’amore, è un pensiero conclusivo di Thibon: «La rosa ha sempre bisogno di letame, ma il letame può benissimo fare a meno della rosa. Lo vediamo ogni giorno. Sorvegliamo dunque il letame, non già per tuffarci in esso, ma per amore della rosa. E quando dico letame non parlo di qualcosa di disgustoso: parlo di tutti i valori temporali, di tutti i valori inferiori, che sono lo zoccolo esistenziale dei valori superiori. Ci vuole molta abnegazione, quando si crede nei valori superiori. È un lavoro durissimo, una disciplina durissima, ma che è implicita nella condizione umana» (ivi).

Che il Signore non ci abbandoni in nessuna circostanza, buona o cattiva, della nostra breve vita terrena!