Maria tra versi e vita vissuta

Scritto da Francesco di Maria on . Postato in I miei scritti mariani

 

Che Maria di Nazaret sia presente nel cuore di tutti gli uomini, a prescindere dalle particolari esperienze di vita di ciascuno e dalle condizioni spirituali in cui versa ogni essere umano, è dimostrato anche, in modo eminente, da quella sensibilità umana, libera e spontanea ma generalmente tendente a travalicare i limiti della propria individualità per assurgere ad espressione di valori universali, che viene manifestandosi nelle molteplici forme dell’arte poetica.

La poesia, infatti, nelle sue espressioni anche tecnicamente più elevate e con la sua duplice funzione di veicolare sia determinati significati o contenuti concettuali sia determinati elementi emotivi o sentimentali attraverso la particolare e varia musicalità del verso, riesce non di rado a trasmettere pensieri e stati d’animo con una forza evocativa più potente ed incisiva di quella già vigorosa che viene esercitata dalla buona prosa nella quale le parole non sono accompagnate dalla musicalità o dal suono della metrica.

Se poi i versi hanno come orizzonte tematico, come punto di riferimento esistenziale, una figura come Maria di Nazaret, è difficile che essi, specie se ne siano autori talentuosi e riconosciuti esponenti della poesia mondiale,  non vengano esprimendo il vissuto più intimo e profondo di chi la canta e non vengano producendo un coinvolgimento commosso del lettore. Né è detto che la Maria messa in versi da poeti credenti ortodossi, con una vita spirituale sostanzialmente lineare e serena, sia sempre o necessariamente più esaltante della Maria messa in versi da poeti la cui fede o religiosità, al pari della loro stessa vita, siano molto più travagliate e sofferte.

Anzi, quasi riflettendo il dato emergente anche in alcuni significativi racconti evangelici, quanto più alto è il patos esistenziale e spirituale della composizione poetica tanto più intensi e sinceri risultano il sentimento religioso e la ricerca di Dio.

Dalla vita e dalla poesia mariana, in diverso modo tormentate e appassionate, di autori celebri come Giacomo Leopardi o Niccolò Tommaseo, come Paul Verlaine o Paul Claudel, o di autori non altrettanto celebri ma non meno credibili ed efficaci come un Carmelo Lauretta o un Domenico Giuliotti, su cui negli ultimi mesi mi sono particolarmente soffermato, scaturiscono preziosi spunti di riflessione per un credente o un non credente realmente o seriamente impegnato in una ricerca non artefatta di Dio.

Se Leopardi sia stato o non sia stato sino in fondo un “ateo religioso” o piuttosto “un credente inconsapevole” e sempre comunque impegnato nella sia pure disperata ricerca di un Dio di verità e di amore, non la storia della critica leopardiana ma solo il Signore un giorno potrà stabilirlo. Di certo vi è, però, che la ragione illuminista, tutta chiusa nel perimetro della scienza e del quantificabile per via scientifica, parve del tutto insufficiente al filosofo-poeta di Recanati, insufficiente a fissare la misura del reale, e quindi a stabilire cosa sia possibile e cosa sia impossibile, perché in effetti la ragione leopardiana fu ben più coerentemente aperta di quella illuminista non escludendo affatto che una risposta alle domande più decisive sulla vita degli uomini potesse venire da una rivelazione divina, come la rivelazione cristiana, pure sfuggente rispetto all’insaziabile sete di verità e d’amore dell’uomo.

Leopardi restò sempre aperto all’ipotesi della rivelazione, tanto che persino uno studioso marxista del suo pensiero come Cesare Luporini ebbe a scrivere in un suo celebre studio leopardiano che «la categoria della possibilità è sempre all’attenzione del giovane Leopardi». A vent’anni scriveva nel suo “Zibaldone” che l’esistenza umana «non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose…non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti», ma a diciott’anni, verso la fine del 1816, concludeva sorprendentemente un componimento intitolato “L’appressamento della morte” con un’invocazione alla Santissima Vergine: «O Vergin Diva, se prosteso mai/ Caddi in membrarti, a questo mondo basso, / Se mai ti dissi Madre e se t’amai,/ Deh tu soccorri lo spirito lasso/ Quando de l’ore udrà l’ultimo suono, / Deh tu m’aita ne l’orrendo passo», mentre nel 1819, all’età di vent'uno anni, un’altra sua invocazione compariva negli abbozzi degli “inni cristiani”, mai portati a termine dal poeta, sotto il significativo titolo “A Maria”, che denota il suo fiducioso abbandono all’amore materno della Santa Vergine: «È vero», recita il testo leopardiano, «che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici. È vero che questa vita e questi mali sono brevi e nulli, ma noi pure siam piccoli e ci riescono lunghissimi e insopportabili. Tu che sei già grande e sicura, abbi pietà di tante miserie».

Niccolò Tommaseo, grande scrittore e patriota italiano dell’800, fu un fervente credente cattolico, pur vivendo la sua fede in modo alquanto drammatico e lacerante perché continuamente sballottato tra un ossessivo senso di colpa e di peccato e un desiderio altrettanto abnorme di espiazione e di pentimento.

Sempre ansioso di purificazione interiore ma sempre vittima sino a tarda età di una turbolenta e incontrollata sensualità e di una smodata e trasgressiva attrazione per il sesso femminile (tanto che il Manzoni lo compatì dicendo di lui “quel benedetto uomo ha sempre un piede in cielo e un altro sulla terra”), e talvolta piuttosto mordace verso i suoi simili, come per esempio verso Leopardi a cui, per via del fisico deforme, dedicò un velenoso epigramma, anche Tommaseo avvertì, in un determinato momento della sua vita, il bisogno spirituale di rivolgersi alla Madre di Dio. Lo fece con una composizione poetica mariana del 1836 intitolata “Alla Vergine”: «Madre dell’unico/ Conforto mio,/Ché non pens’io,/Con la dolcezza/Ch’io pur dovrìa,/La tua bellezza?/ Amor degli Angeli/Fior delle cose,/Perché continuo/Al tuo materno/Amore eterno/Non raccomando/La madre mia?/ A te pensando/L’anima, piena/Di noie irose/Si rasserena./La tua mestizia/Un gioir santo;/Un dolce pianto/La tua letizia./Com’onda schietta/Di sasso in sasso/Scende sonando;/Vien la tua grazia,/O Benedetta,/Ad ogni passo/Pè lunghi secoli/Moltiplicando./ E, liberàti/Per te dall’odio,/Ch’è lor tiranno,/Tutti vivranno/Un giorno i popoli/Innamorati/Di tua divina/Malinconia,/Umil regina,/Dolce Maria./» (Poesie di Niccolò Tommaseo, Firenze, Le Monnier, 1872, pp. 423-424).

Ancor più toccante, forse, è l’ultima strofa di una sua composizione mariana del 1843, “Dall’ode alla Vergine”: «Ave Maria, noi ti preghiam gementi/dell’altrui colpa e della nostra stanchi:/per gl’infelici a cui la roba manca/dí, volta al tuo Figliol: “Non hanno pane”;/ per gli infelici a cui par poco Dio,/dí, volta al tuo Diletto: “Amor non hanno”/» (op. cit.).

Nello stesso periodo, in Francia, si trova un’esperienza di vita ancora più tormentata e, a differenza di Tommaseo, a lungo priva di qualsiasi sentimento religioso: quella di Paul Verlaine, figura emblematica di “poeta maledetto”, tutto genio, trasgressività e sregolatezza.

Verlaine, si fa per dire, non si è fatto mancare nulla: né la genialità, né il disordine esistenziale, né la perversione etero ed omosessuale, né l’aggressività e la violenza fisica (cercò di uccidere Rimbaud con cui ebbe una tempestosa relazione), né il travaglio interiore né infine la sua conversione alla fede cattolica.

Né, nel contesto appunto della sua finale conversione a Cristo, poteva privarsi di un accorato e struggente appello a sua madre Maria, da lui percepita persino come madre della patria e protettrice dell’onore nazionale francese (“Non voglio più amare che mia madre Maria”): Non voglio più amare che mia madre Maria./Tutti gli altri amori sono di comandamento./Necessari come sono, mia madre solamente/potrà accenderli nei cuori che l’hanno diletta./ E’ per Lei che bisogna amare i miei nemici,/è per Lei che ho votato questo sacrificio,/è la dolcezza di cuore e lo zelo al servizio,/siccome io la pregavo, Ella li ha permessi./ E siccome ero debole e assai cattivo ancora,/con le mani vili, gli occhi abbagliati dalle strade,/Ella mi abbassò gli occhi e mi congiunse le mani,/e m’insegnò le parole con le quali si adora./E’ per lei che ho voluti questi dolori./E’ per lei che ho il cuore nelle cinque Piaghe,/e tutti questi buoni sforzi verso le croci e i cilici,/siccome l’invocavo, Ella ne cinse le mie reni./Io non voglio più pensare che a mia madre Maria,/sede della saggezza e sorgente dei perdoni,/Madre di Francia anche, da cui noi attendiamo/incrollabilmente l’onore della patria./Maria immacolata, amore essenziale,/logica della fede cordiale e vivace,/amandovi che c’è di buono ch’io non farò,/amandovi di solo amore, Porta del cielo?».

Quanto a Paul Claudel, vissuto tra la seconda metà dell’800 e la prima metà del 900, può essere considerato certamente un cattolico ortodosso, anche se nel corso della sua giovinezza, trascorsa a Parigi, almeno una volta perse la fede aderendo all’allora imperante positivismo filosofico e mostrando simpatie politiche per il movimento anarchico. Conobbe, tra gli altri, anche Verlaine e si sentí affascinato dall’opera di Rimbaud, con cui il primo aveva avuto una relazione omosessuale finita male, ma fu realmente solida e definitiva la sua conversione al cattolicesimo, avvenuta, secondo il racconto dello stesso Claudel, nel 1886 nella cattedrale di Notre-Dame de Paris, mentre ascoltava il Magnificat durante la Messa di Natale.

Anche in Claudel campeggia la figura di Maria, ma una figura di Maria non del tutto scontata o convenzionale. Essa non vi compare semplicemente come espressione di pur sincera ed intensa devozione personale o come riflesso di una sentita ma ormai routinaria pratica religiosa, bensí come portato di un profondo e consapevole travaglio esistenziale e spirituale che ha un suo ancora dinamico e vitale punto di approdo nella Madre di Gesù, percepita anche in tal caso come Colei che partecipa attivamente e beneficamente alle vicende storiche del popolo francese. E’ ciò che si evince da diverse strofe di una poesia dedicata alla Vergine ed intitolata “La Vergine a Mezzogiorno” qui sotto riportata:

E’ mezzogiorno. Vedo la Chiesa

Aperta. Bisogna entrare.

Madre di Gesù Cristo, non vengo

a pregare.

Non ho niente da offrire e

niente da domandare.

Vengo solamente, Madre, a

vederti.

Vederti, piangere di felicità,

sapere questo

Che sono tuo figlio e tu sei qui.

Solamente per un momento

mentre tutto si ferma. Mezzogiorno!

Stare con te, Maria, in questo

luogo dove tu stai.

Non dire niente, guardare il tuo

viso,

Lasciare cantare il cuore nel linguaggio

che gli è proprio,

Non dire niente, ma solamente

cantare perché si ha il cuore troppo

pieno.

Come il merlo che segue la sua

idea in quelle specie di strofe

improvvise.

Perché sei bella,

perché sei

immacolata,

La donna finalmente ristabilita nella

Grazia,

La creatura nel suo onore primo

e nella sua fioritura ultima,

Com’è uscita da Dio nel mattino

del suo splendore originale.

Intatta ineffabilmente, perché

sei la Madre di Gesù Cristo,

che è la verità fra le tue

braccia,

e la sola speranza e il solo

frutto.

Perché sei la donna, l’Eden dell’

antica tenerezza dimenticata

Il cui sguardo trova subito il

cuore, e fa sgorgare le lacrime

accumulate.

Perché mi hai salvato, perché

hai salvato la Francia

Perché, anch’essa come me,

per te fu la cosa alla quale si pensa,

Perché nell’ora in cui tutto

traballava

Proprio allora sei

intervenuta,

Perché hai salvato la Francia

ancora una volta,

Perché è mezzogiorno, perché

siamo in questa giornata che è oggi,

Perché sei qui per sempre,

semplicemente perché sei Maria,

semplicemente perché esisti,

Madre di Gesù Cristo, sii ringraziata.

Questa breve rassegna di autori mariani si conclude con Domenico Giuliotti, toscano di San Casciano in Val di Pesa (Firenze) e Carmelo Lauretta, siciliano di Comiso (Ragusa). Giuliotti, scrittore di buon livello anche se discusso, fu per i primi 33 o 34 anni di vita completamente ateo. Poi, una volta convertitosi al cattolicesimo, venne testimoniando la sua fede, sulla scia di Léon Bloy, in modo fortemente polemico e a tratti quasi violento che risente anche del suo vecchio e congenito amore per un uso retorico e declamatorio della parola.

Tuttavia, anche lui autore di un certo numero di poesie, appare sincera e particolarmente ispirata la sua vena poetica proprio in relazione alla presenza di Maria nella sua vita come nella sua fede. Colpisce che questo ex ateo scriva versi di questo tipo: «Tuo Figlio, o Madre, è pane ed acqua e luce/che pienamente illumina e ristora;/ Egli, accogliendo l’anima che implora, seco, se degna, al Padre la conduce» (Rosa autunnale, in Poesie, Vallecchi, 1932). E poi, con un preciso riferimento autobiografico ai suoi trascorsi di miscredente:

Trentasett'anni, Vergine, è che vo

stanco e cencioso come un vagabondo,

lungo il torto viottolo del mondo;

e quando e dove poserò non so.

Ma tu, che d'ogni sconsolato errante,

segui, dall'alto, le intrigate péste,

volgi i begl'occhi al tuo Figliol celeste,

digli che m'apra le sue braccia sante.

…..

io, che son fra gl'infimi il meschino

e non son degno ancor del mio Signore,

(dacché, come lo stolto potatore,

mi sopravanza alla vendemmia il tino)

se Tu non vieni, Vergine, a pigliarmi

col tuo mistico remo e col tuo lume,

giunto sull'orlo de l'infernal fiume,

non ho da me speranza di salvarmi.

…..

Infine, Carmelo Lauretta, uno dei maggiori poeti dialettali siciliani, cattolico che non conobbe traumi particolari ma che fu ben consapevole dei drammi del nostro tempo, fra cui quello concernente la smania di facile successo degli uomini d’oggi, sottolinea, nella sua poesia "La tua maternità", la funzione salvifica della maternità universale di Maria con questi versi:

L’Eterno Ti volle madre

del Verbo

e di tutti i mortali.

Con i Tuoi occhi

Egli guarda dall’alto

tuttora i viventi…

Tu raccogli le lacrime

dei Tuoi figli in esilio

Sulla terra

E ne fai un seme di grazia.

Nella croce che ogni giorno

portiamo

non ci lasci soli a sorreggerla.

Nell’angoscia della morte

ci prendi nelle Tue braccia

come prendesti il Figlio Unigenito

e nella pupilla spenta

schiudi la fiamma dell’Eterno.

La Tua Maternità

illumina di salvezza

i millenni.


Ma poiché all’umanità di chi scrive non è totalmente estraneo quasi nessuno degli aspetti della personalità e del vissuto morale, spirituale e religioso, di queste significative e spesso problematiche personalità del mondo cattolico, gli si consenta, anche in vista dell’undicesimo anno di anniversario del suo specialissimo e immeritato incontro con Maria, di dedicarle qui due sue recenti composizioni poetiche di lode e di ringraziamento (26 Novembre e Maria viva), benché forse di valore non pari a quelle che le hanno sin qui precedute:

 

26 NOVEMBRE

Quel 26 novembre

ti ho chiamato

con fede leale

anche se quasi

per celia.

Tu però

mi hai risposto

sul serio

e mi hai tolto

la morte

dal cuore.

Se sono pazzo

o visionario

per il mondo

non m’importa

perché c’è ben altro

che la coscienza

non sopporta.

Ma se quest’affanno

è per amore

un conto

da pagare

con il Cielo

Mamma

fammelo saldare.


Francesco di Maria

 

 

MARIA VIVA

Dolcezza senza macchia

e senza fine

immacolato cuore

e intransigente

solo verso il peccato

di chi mente.

Ai pellegrini

di questa valle

dolorosa e angusta

concedi grazie e grazia

se in Dio non temono

alcuna disgrazia.

Ami la fede dei cercatori

di vita

ami l’ardore di chi

con Dio lotta

in modo tenace

e con fede incorrotta.

Sostieni l’umile

che sa di non esserlo

la sua grata preghiera

di peccatore

commosso e stupito

per averti davvero sentito.

Sei madre e regina

di spiriti

che aspettano adesso

non domani il Signore

per poter vivere sempre

nel suo salvifico amore.

Della croce di Cristo

ci rendi eredi

se facciamo di tutto

per superare

le nostre miserie

persistenti e non rare.

Se fino alla morte

ci tieni per mano

di là non troviamo

un nuovo uragano

non più lutto ma

beato riposo sovrano.


Francesco di Maria