Aprirsi all'altro, non abolirsi nell'altro

Scritto da Francesco di Maria.


Quella che segue è una delle tante possibili riflessioni che i recenti e tragici fatti di Parigi possono indurre a fare.

Ospitalità non può significare rinuncia alla propria identità, cosí come l’accettazione della diversità altrui non può essere intesa in modo assoluto o indiscriminato ma in senso pur sempre relativo anche se largo e in senso pur sempre limitato anche se non ristretto o angusto. L’ospitalità implica l’apertura all’identità altrui nella misura in cui quest’ultima non entri in stridente rotta di collisione con la mia identità personale, con la mia umanità e la mia sensibilità; cosí come l’accettazione della diversità presuppone che anche l’altro, il diverso da me, colui o colei che è sempre in qualche modo straniero rispetto a me, si sforzi di accettare la mia alterità rispetto a lui o a lei, ai suoi schemi mentali e ai suoi stili di vita. Questo ragionamento vale soprattutto quando ci si riferisca a persone appartenenti a civiltà diverse e a differenti universi religiosi.

Perché un reciproco ospitarsi, un reciproco accettarsi sia realisticamente possibile, occorre saper discernere e concordare preliminarmente su un punto: che qualunque tipo di relazione umana e di confronto, per quanto acceso possa essere o diventare, non travalichi i limiti di una comune ed elementare razionalità e non si trasformi in nessun caso nell’uso, ovvero nell’adozione pratico-fattuale e non puramente dialettica, di mezzi violenti che mettano in discussione l’integrità fisica e morale di chiunque e di qualunque comunità.

E’ un assunto valido in e per qualsiasi contesto umano. Ma, per venire allo specifico, tu musulmano che hai deciso di venire in Europa sei tenuto ad accettare il quadro legislativo e normativo degli Stati in cui vieni ospitato o in cui sei nato senza pretendere di imporre con la forza la tua visione del mondo e la tua fede religiosa e soprattutto bandendo da esse qualunque riferimento alla possibilità di esercitare la violenza non a fini meramente e comprovatamente difensivi ma a fini di potere personale o di conquista politica e militare. D’altra parte, io cristiano occidentale oppure siriano o iracheno o pakistano di nascita o di adozione, mi impegno a rispettare le leggi degli Stati islamici che mi ospitano o di cui sono cittadino o suddito nei limiti in cui tali leggi non esigano che io accetti o ponga in essere delle pratiche di vita obiettivamente ripugnanti e disumane che siano espressamente vietate dal mio credo civile o dalla mia fede religiosa o, più semplicemente, da un elementare principio di buon senso e di moralità.

Chiunque deve essere disposto ad integrarsi nella comunità politica o religiosa di appartenenza o che lo ospita, pur dovendoglisi garantire come cittadino di contribuire pacificamente a un’eventuale dilatazione delle capacità integrative ed emancipative delle strutture giuridiche, economiche, politiche e religiose, delle specifiche comunità ospitanti. Tutto questo comporta anche che, se la tua concezione religiosa è incompatibile con la mia, si prende pacificamente atto dell’esistenza di una irriducibile conflittualità tra posizioni diverse, senza pretendere reciproci ma insulsi ed ipocriti riconoscimenti e senza esasperare il conflitto culturale e religioso fino a volerlo trasformare in un conflitto di ordine politico-punitivo, fisico-coercitivo o terroristico-militare.

Solo cosí è possibile che io e te rispettiamo le nostre diversità personali senza necessariamente sentirci vincolati all’obbligo di rispettare anche le nostre pur irriducibili o insanabili differenze di natura culturale e religiosa. Purtroppo, da molto tempo l’Occidente non si rende conto che le differenze, la pluralità di opinioni, la democrazia stessa, sono realmente grandi valori umani e civili solo ove se ne sappiano intendere e individuare razionalmente limiti e inevitabili ambiguità. La libertà, la democrazia, la stessa fede religiosa, si nutrono e devono nutrirsi di diversità, di pluralità, di differenza, purché non si ignori che esse possono sempre convertirsi nel loro contrario dove se ne faccia un uso arbitrario e sconsiderato, dove più in particolare si vengano collocando tutti i valori, tutte le forme di pensiero, di etica e di fede, su un medesimo piano qualitativo, come se tutte le diverse espressioni spirituali o religiose avessero necessariamente o potessero avere lo stesso peso o la stessa capacità di incidenza sulla qualità della vita personale e collettiva, sul progresso complessivo del genere umano.

Oggi viviamo in un tempo e in una società di eccessi: e gli eccessi, anche se intrisi di belle parole e di enfatici proclami di civiltà, sono sempre nemici dell’umanità pensante, senziente e sofferente di questo nostro difficile e complicato mondo. La diversità è senza dubbio una ricchezza possibile e reale ma, come nota il filosofo francese di origine ebraica Alain Finkielkraut, essa non può essere valorizzata a scapito della identità, di una determinata tradizione di pensiero, di un ben definito modello di civiltà. La storia di ognuno come di ogni popolo può essere sempre arricchita, migliorata, ma non può essere azzerata o abolita nel nome di un’ospitalità, di un’accoglienza indiscriminate. Perché la diversità abbia un senso, bisogna che essa sia colta anche nei suoi limiti, nelle sue intrinseche difficoltà di interdipendenza e integrazione in un o con un mondo che non ha bisogno solo di novità, di contaminazione, di continua modernizzazione, ma anche, almeno nella stessa misura, di stabilità, di identità, di frontiere, in virtù delle quali sia sempre possibile arricchire se stessi, rimanendo e non distruggendo tuttavia se stessi (Intervista di R. Casadei a A. Finkielkraut in “Tempi” del 12 gennaio 2014).

Bisogna sapersi aprire all’altro ma non per confondersi con l’altro o per abolirsi nell’altro, bensí per conservarsi rispetto all’altro e per distinguersi dall’altro anche se possibilmente con l’aiuto e in compagnia dell’altro. Ma oggi, commenta il suddetto filosofo, «in Francia e in Europa stiamo assistendo al rigetto puro e semplice dell’identità, a un vero e proprio processo di “disidentificazione”. Rifiutiamo sia l’identità particolaristica che quella universalistica, e concepiamo la Francia e l’Europa semplicemente come spazi per l’espressione delle culture “Altre”». Non che la Francia e l’Europa non siano pronte «ad affermare l’universalità dei diritti dell’uomo, a riconoscersi nei valori della tolleranza e del rispetto, ma esse non assumono il loro essere, rifiutano di concepirsi come specifiche civiltà. Quando si tratta di affrontare la questione dell’integrazione, l’Europa proclama che essa deve avvenire nei due sensi, cioè che la cultura del paese o del continente d’accoglienza non deve avere alcun privilegio su quella dei nuovi arrivati», il che significa anche, al di là delle convinzioni ebraiche di Finkielkraut, che la civiltà europea, che è civiltà cristiana per eccellenza persino nelle sue migliori versioni laiche, non dovrebbe più rivendicare, sia pure con la dovuta umiltà e con il sincero ripudio di accenti trionfalistici, il legittimo primato della religione e della civiltà cristiana e cattolica su qualsivoglia altro tipo di religione storica.

E quale sarebbe la ragione di una rinuncia cosí importante da un punto di vista identitario? Si risponde: la tolleranza, la convivenza, la pacificazione, in altri termini il proporsi di vivere meglio nella odierna società globalizzata secondo i consueti anche se ormai logori standard del “politicamente corretto”. Ma non si comprende che si può sperare di vivere meglio solo nella verità, nella franchezza, nella paziente e instancabile ricerca di forme sempre più universalmente razionali e morali di vita personale e comunitaria, non certo nell’ambiguità, nell’equivoco programmato, nell’assenza puramente nominale di conflitti, nell’ipocrita volontà di pace e nel mascheramento sistematico di specifici e corposi interessi di potere.

Noi europei e cristiani abbiamo a che fare non necessariamente con persone di fede islamica tutte indistintamente affette da fanatismo religioso e da pulsioni omicide incontrollate, ma sicuramente con una religione islamica che sotto il profilo storico-dottrinario è carica di misoginía, di antisemitismo, di razzismo, di intolleranza e di violenza, di spirito totalitario, e dovremmo far finta che tutto questo non appartenga allo stesso codice genetico dell’islam? E perché mai? Sarebbe forse questo il modo migliore di assicurare la convivenza tra popoli e civiltà, tra culture e religioni diverse? O non invece un modo vile e inefficace di rinviare a domani i problemi che non si ha la forza spirituale e la volontà morale di affrontare e risolvere oggi in modo lineare e veritiero?

E’ d’altra parte vero che, per seguire sempre il ragionamento del pensatore francese, c’è «il pericolo che la sola alternativa al politicamente corretto, sempre più sordo e cieco di fronte alla realtà, consista in un ritorno al “politicamente abietto”, cioè alla xenofobia, al nazionalismo sciovinista, alla politica dei capri espiatori»; tuttavia, esiste anche «una terza via che il politicamente corretto non vuole riconoscere. Ogni critica al politicamente corretto, ogni attentato al modo d’essere dei benpensanti, qui in Francia viene immediatamente etichettato come una “lepenizzazione delle anime”. E questa è una disonestà intellettuale di tipo terroristico, oso dire. Non c’è niente di ignobile nel volere guardare in faccia la realtà, tanto meno c’è qualcosa di ignobile nel chiedere all’islam di sottomettersi alle leggi della Repubblica, nel mentre che il politicamente corretto esige, in nome dell’antirazzismo, che la Repubblica si adatti alle esigenze dell’islam. Le leggi che proibiscono l’ostentazione di simboli religiosi in ambito scolastico sono del tutto legittime: non hanno niente di islamofobico. Lo Stato francese è stato molto più duro, molto più esigente con i cattolici all’epoca dell’anticlericalismo acceso di quanto non lo sia oggi con i musulmani. Questo deve essere ricordato. Non si tratta di rompere con la tradizione dell’ospitalità: sarebbe politicamente abietto. Si tratta di dire che l’ospitalità non consiste nell’abolire se stessi, nel fondersi nell’alterità. Essa consiste nel dare agli altri il tesoro che si possiede» (ivi). Altrettanto legittimo è il principio costituzionale e democratico francese ed europeo della libertà di pensiero, di espressione e di stampa, cui i tre terroristi islamisti di questi giorni hanno invece voluto contrapporsi con un’azione sanguinaria.

Il riferimento è alla Francia per motivi di attualità, ma la stessa cosa vale, mutatis mutandis, anche per altri Paesi europei come l’Italia, dove specialmente il buon senso cattolico non dovrebbe continuare ad essere quello che induce a chiedere sempre e solo accoglienza, assistenza, disponibilità, dialogo verso gli immigrati islamici ma quello che in pari tempo ammonisce gli stranieri di qualunque etnìa e fede religiosa a rispettare le leggi dei Paesi ospitanti, a non pretendere trattamenti e concessioni che fuoriescano dalle reali possibilità economico-finanziarie di quest’ultimi e dalle norme di sicurezza in essi giustamente vigenti. Il buon senso cattolico dovrebbe essere altresí quello che non rinuncia a testimoniare concretamente nei loro confronti, e ben oltre atteggiamenti esteriori di natura formale e diplomatica, la fede in Cristo, ovvero la fede nell’unico e vero Dio dell’umanità.

I cattolici lo devono dire in ogni circostanza della vita e della storia: Cristo, e non Maometto o altri falsi profeti, è il Signore, l’unico e grande Signore della vita e della storia degli uomini. Altrimenti, come potrebbero sperare i cattolici di avere dalla loro parte, specialmente nei momenti più difficili e oscuri, il Dio uno e trino da essi liturgicamente professato?

Bisogna mettersi in testa che ebraismo, cristianesimo, islamismo, almeno per dei cattolici coerenti, non hanno e non possono avere uguale valore e uguale dignità, essendo il cristianesimo l’obiettivo inveramento e completamento storico-profetici dell’ebraismo e ponendosi l’islamismo non tanto come preteso compimento della fede cristiana quanto come alternativa radicale ad essa e come ricorrente figura dell’Anticristo nella storia dell’umanità. Se non si comprende questa elementare verità, non si può capire perché il coerente e non conformista credente di fede islamica non potrà mai amare ma solo odiare distruttivamente quell’occidente e quell’Europa cristiane cosí intrisi di spiritualità e valori cristiani e che, sino a quando riusciranno a tenere in vita la loro identità, la loro tradizione, la loro storia di dubbi metodologici ed epistemologici ma anche di solide certezze metafisiche e religiose, sbarreranno il passo all’obiettivo più ambizioso della cultura religiosa islamica ortodossa: quello di ottenere la conversione pacifica o forzata di tutti i popoli del mondo al Corano e al falso Dio in esso rappresentato.

Compie un fatale errore sul piano religioso il cattolicesimo quando, a fronte di migliaia e migliaia di vittime cristiane e non cristiane mietute in ogni angolo di mondo nel nome dell’islamismo, continua a dare visibilità e quindi credibilità a tanti ipocriti rappresentanti orientali e occidentali di quest’ultimo, facendo sí che essi possano presentarsi come la faccia buona di un credo religioso la cui matrice originaria invece, com’essi sanno fin troppo bene, è data proprio da quel terrore da cui stoltamente anche molti rappresentanti politici occidentali, europei e italiani, e persino taluni esponenti del mondo cattolico, vorrebbero tenere ben distinto l’islam vagheggiandone una purezza e un’innocenza originarie storicamente inesistenti e irreali.

Ma tale errore è altrettanto grave anche sul piano politico, nel momento in cui, per voler soddisfare ogni genere di aspettativa psicologica individuale o di gruppo, si prende a declinare relativisticamente o meglio nichilisticamente la democrazia, ritenendo che essa possa o debba essere ricettacolo o sacrario persino di tante menzogne e di tante brutture spacciate per verità ed espressioni di libertà spirituale. Qui accade che, precisa o ribadisce Finkielkraut, «il processo democratico, proprio quando sfocia nel nichilismo del tutto uguale a tutto, mette in pericolo l’esercizio stesso della democrazia. Si tratta anche di fare in modo che il risentimento e l’invidia non abbiano l’ultima parola in democrazia. Occorrerebbe per esempio preservare nella democrazia la capacità di ammirazione, che è cosa diversa dal rispetto; ricordare che la democrazia non deve uscire dal suo alveo, che la cultura non è democratica, poiché conduce incessantemente a stabilire delle gerarchie. Che l’educazione si rivolge a tutti, ma che la riuscita per tutti è solo uno slogan, e per di più pericoloso. Si tratta dunque, per salvare la democrazia, di combattere l’eccesso di democrazia» (ivi).

Quel che oggi è accaduto in Francia ma che domani potrebbe accadere in qualunque altra parte d’Europa è il frutto di un multiculturalismo mal gestito e mal riuscito, di una crescente islamizzazione non solo esogena ma anche endogena nel cuore stesso della società occidentale, di una ridotta o depotenziata capacità del cattolicesimo contemporaneo di denunciare apertamente non solo le pur gravi deviazioni e omissioni dell’ateismo laico di questo tempo ma anche e soprattutto la subdola e ben più letale strategia islamica della lotta ora apparentemente pacifica ora manifestamente armata e fondata sul terrore per l’esercizio di un’egemonia quanto più possibile ferrea ed estesa in tutte le aree del mondo.

E’ inutile illudersi: aveva ragione Richard Millet quando, in un suo vivacissimo e dibattutissimo pamphlet del 2012 intitolato “Langue fantôme” e pubblicato con l’editore Gallimard, denunciava la genericità e la superficialità del linguaggio ormai adoperato da gran parte della cultura e dei grandi mezzi di comunicazione di massa dell’Occidente nel parlare di “fratellanza universale”, di tolleranza, di dialogo, di convivenza civile e democratica: un linguaggio che denota un aprioristico rifiuto di considerare come domani «il canto del muezzin in una delle tante belle piazze europee sancirebbe la morte della cristianità». Ecco perché, è stato ben scritto, «della sfida islamica Millet non conosce interpretazioni, ma pensa che sotto il minareto non ci sia soluzione di continuità tra moderazione e terrore, bensí solo diversi gradi d’intensità in direzione del califfato» (G. Meotti, Camus e Léger. La grande cultura francese assillata dall’islam, in “Il Foglio” dell’8 gennaio 2015). Non si può che condividere!