Sulla religiosità laica di Piero Martinetti. Per una rilettura del suo "Breviario spirituale"*
Fra i filosofi italiani del primo Novecento un posto particolare spetta a Piero Martinetti (1872-1943), sebbene oggigiorno la memoria del suo lavoro sia appannata. In questo articolo si ripercorrono i contenuti del suo "Breviario spirituale", mettendo in luce la profondità della sua filosofia morale.
“Anima di un neoplatonico misteriosamente trasmigrata nel nostro secolo”,[1]diceva di se stesso Piero Martinetti , uno dei maggiori filosofi italiani del ‘900, immeritatamente poco conosciuto. Per l’approccio razionalistico-religioso che la caratterizza, la sua filosofia può essere definita come un idealismo critico trascendente, che trova ispirazione in una linea di pensiero che comprende Platone, Plotino, Spinoza, Kant, Schopenhauer, lo studio della filosofia indiana, fatto nella sua tesi di laurea Il sistema Sankhya, per non dimenticare Gesù Cristo, meditato e interpretato in vari e ponderosi scritti, un Gesù però affrancato dal dogmatismo ecclesiastico e da un soprannaturalismo irrazionalistico, e pensato, piuttosto, come la più pura realizzazione umana della divina razionalità. La sua visione idealistica del mondo si fonda sull’intuizione dell’Unità assoluta, Unitàche come Ragione universale rappresenta per l’essere umano il fine ultimo sia della conoscenza che della vita morale.
Nicola Abbagnano ha definito il pensiero di Martinetti “una specie di misticismo della ragione”;[2] felice espressione che, a mio avviso, riesce a trovare nelBreviario spirituale una limpida conferma.
Quest’opera, pubblicata anonima nel 1922, è riuscita a trovare un’altra pubblicazione, a cura di Giacomo Zanga, solo nel 1972, per giungere, infine, all’edizione del 2006;[3] questo conferma tristemente quanto scrive, nella sua vibrante prefazione, Anacleto Verrecchia: “Che strano paese è l’Italia: dimentica i suoi figli migliori”![4]
Il Breviario di Martinetti, infatti, può, a buon diritto, essere equiparato ai classici come il Manuale di Epitteto, i Ricordi di Marco Aurelio, i Pensieri di Pascal, gliAforismi di Schopenhauer, le Operette morali di Leopardi; classici che lo stesso Martinetti elenca nelle pagine conclusive del suo Breviario, e che sono stati per lui una preziosa fonte di ispirazione.
È, senza alcun dubbio, una grande lezione di educazione civica e morale, ispirata ad una profonda religiosità laica, quella che si può ricavare dalla lettura e dalla meditazione di quest’opera, e, come rileva ancora Verrecchia, per un’Italia che “soffre di grave insufficienza morale questo Breviario spirituale è un ottimo disinfettante per lo spirito”.[5]
Perché Piero Martinetti, per essersi dignitosamente e coraggiosamente rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista, ha saputo rinunciare alla cattedra universitaria, e rappresenta perciò, oltre che un maestro, un autentico testimone della libertà di pensiero: “non amava i campanacci che risuonavano nei cortili dei potenti, e tanto meno i collari” degli intellettuali posti al loro servizio; era “un uomo integro, di carattere e con la schiena diritta”, che poteva ben paragonarsi alla “figura di una quercia in mezzo ai giunchi”.[6]
Nella sintesi di un articolo è inevitabile perdere ricchezza e profondità di contenuto del testo integrale, e ciò vale tanto più per questo impagabileBreviario martinettiano; per questo, allora, l’augurio è che questa mia presentazione possa stimolare la curiosità e indurre l’interesse per la lettura completa di quest’opera, che andrebbe letta e meditata con assiduità, proprio come si fa per un prezioso vademecum. Forse questo può essere anche il giusto modo per onorare e ripagare degnamente il retaggio morale e intellettuale che abbiamo ereditato da questo grande filosofo italiano.
Introduzione
In queste pagine introduttive, Martinetti ci propone quasi una sorta di cornice teorica preposta a contenere quei concetti morali che avrà modo poi di presentare più dettagliatamente. Inizia col rilevare come ogni attività umana abbia un’origine istintiva e come ciò comporti sia la limitatezza morale di ciascun individuo, sia la parzialità e la relatività storica di ogni concezione morale. Da questa precaria e limitata condizione l’uomo può liberarsi solo elevandosi progressivamente al punto di vista della ragione: “l’uomo è tanto più libero quanto più è ragionevole: ed è tanto più ragionevole quanto più sa vedere ogni singola cosa dal punto di vista del tutto”.[7] Questo principio razionale è il criterio e l’ispirazione costante del progresso umano, che può trovare nelle religioni, intese come tradizioni di vita razionale, delle vie praticabili, e questo accade quando esse (religioni) sappiano attingere alla “sorgente che alimenta il corso perenne della vita spirituale”;[8] la religiosità di una determinata tradizione non deve chiudersi in una precettistica astratta, avulsa dalla realtà, ma deve tradursi, piuttosto, in una morale concretamente vissuta, riuscendo così a rinnovarsi attraverso un più profondo ed autentico legame di teoria e prassi.[9]
1° Cap. La forza
La virtù della forza rappresenta, come conservazione fisica, il primo gradino per una vita guidata dalla ragione; la salute del corpo si pone, infatti, come premessa indispensabile a sostenere le inquietudini e le fatiche della vita, per questo la disciplina di una energica volontà applicata alla vita fisica comporta un tempo dedicato all’esercizio e alla cura della propria forma fisica, un tempo che, perciò, non è mai sprecato. A questo scopo, c’è bisogno, sottolinea Martinetti, di nutrimento salutare, di un giusto equilibrio fra impegno e riposo, della giusta misura che riesce ad evitare tanto l’eccesso del lusso quanto la trascuratezza della miseria, e, relativamente al vestire e all’abitare, dichiara: “Non fare dell’abito e della casa la ragione d’essere di te medesimo, non essere schiavo della vanità, del lusso e della moda!”.[10]
Nella vita economica il guadagno deve essere inteso come mezzo per garantirsi l’indipendenza esteriore, e non come fine a se stesso: “Quando l’attività diretta al lucro diventa solo ed unico fine della vita, noi abbiamo una vera forma di aberrazione, in cui per amore del mezzo si rinuncia al fine che solo può nobilitare il lavoro e trasformarlo in un’attività morale”.[11] L’Autore si sofferma anche sulla necessità di trovare la giusta misura tra prodigalità e avarizia: “Lo stato migliore è quello che non è né povertà né ricchezza, che non deprime col bisogno e non corrompe con l’eccesso”.[12]
Toccando poi il tema dell’onore, Martinetti rileva come questo sia una specie di sentimento della nostra conservazione, e perciò rientrante anch’esso nell’ambito della forza, e sottolinea, quindi, la differenza tra chi, con maggior egoismo, si accontenta solo dell’onore o della stima che riscuote la propria persona, e chi, invece, con maggior grado di maturità morale e intellettuale, sa connettere sempre il pur legittimo orgoglio personale con la soddisfazione che l’onore venga tributato in primis alla dimensione ideale che trascende la propria individualità; infatti, scrive: “l’uomo dignitoso riconosce che vi è qualche cosa di superiore alla sua persona: le leggi morali di cui egli è servo fedele”.[13] In questo modo, chi persegue la via della ragione, pur gradualmente, sa riconoscere la distanza che separa l’ideale da ciò che è riuscito a realizzare nella sua individualità, e, quindi, ciò non può non implicare un senso di modestia e di sana umiltà. Questa dignità morale è ciò che impedisce, poi, ogni forma di servilità, da quella praticata nei confronti dei potenti di turno per ottenerne i favori, a quella, meno grave ma pur sempre poco dignitosa, che viene cercata nell’abuso dei complimenti insinceri, nelle frasi e nei gesti fatti per mera piaggeria. Conservare il prestigio richiede quella prudenza mondana che nasce dalla capacità di conoscere gli uomini e di saperne valutare adeguatamente, ad esempio, il grado di invidia, per questo “il parlare, senza stretto bisogno, di sé e delle cose proprie, il mettere in pubblico i personali interessi e gli intimi propositi, oltreché un’inutile e fastidiosa ostentazione, è sempre una leggerezza pericolosa: col mondo bisogna sapere reprimere il franco linguaggio del cuore”;[14] un autocontrollo è sempre segno di equilibrio e di forza interiore, e va perseguito sia nel dire che nell’espressione gestuale. Contro la vanità vale molto di più una sana e realistica autostima che un’affannosa ricerca della stima degli altri: “Essere stimabili ai propri occhi: ecco il primo mezzo di non cercare con troppa premura la stima degli altri. Molti non sono tanto inquieti di ciò che gli altri pensano e dicono di loro, se non perché molto probabilmente non sanno bene nemmeno essi che cosa debbono pensare di sé medesimi: essi sentono di non avere della stima per se stessi se non in quanto sanno di essere stimati dagli altri. … Lasciamo che di noi parli l’opera nostra”.[15]
Come non cogliere l’impagabile pregio di queste riflessioni per una società come la nostra, dove semplicità e nobiltà d’animo vengono, per lo più, non solo non tenute in degna considerazione, ma addirittura derise, dove primeggiano falsità e furbizia, così di frequente applicate ad una servile adulazione, dovel’indifferenza, quando ancora non il disprezzo, per i valori morali sono il terreno di coltura della sfrontatezza e del pettegolezzo.
Ma riprendiamo a seguire il testo di Martinetti.
Come la timidezza dipende da un’esagerata sensibilità di fronte agli altri, e al loro giudizio, ciò che porta spesso l’anima ad uno stato di insoddisfazione e, persino, di depressione, così il coraggio e la sua educazione porta al superamento di questa fragilità interiore, attraverso il dominio della volontà sopra se stessi: “il vero coraggio è essenzialmente opera di volontà, esso esige una lunga opera di educazione del carattere, di riflessione paziente ed attenta sopra se stesso”.[16]E a proposito della temperanza: “Il dominio di sé è un elemento essenziale della virtù della forza: esso non soltanto coopera al trionfo dell’uomo sul mondo esterno, in quanto la temperanza, la pazienza, la costanza, la stabilità sono i più sicuri alleati nella lotta contro il bisogno, ma prepara e consolida anche la vita morale, disciplinando le passioni e creando un terreno propizio alla vita superiore”.[17] Per arrivare gradualmente a quest’ultima è indispensabile la virtù della perseveranza, sulla quale la riflessione di Martinetti riesce ad evidenziare aspetti estremamente comuni e concreti, da cui derivano questi preziosi precetti: I. Osserva le norme igieniche; II. Ama il tuo lavoro; III. Risparmia il tempo; IV. Lavora con ordine. [18]
Per ognuno di tali precetti seguono delucidazioni e argomentazioni di grande acutezza e incisività; basti, come esempio relativo alla cura del tempo, citare questa perla di saggezza: “Le ali rispuntano ogni mattina a quelli che vivono nella regola”.[19] Dedicando la parte finale di questo primo capitolo alla stabilità interiore, scrive Martinetti: “Noi non possiamo essere sicuri di noi finché facciamo dipendere da altri la nostra tranquillità e fondiamo tutta la nostra vita sopra di essi”.[20]
2° Cap. La bontà
La virtù della bontà rappresenta un gradino più alto nel processo di oltrepassamento (di trascendenza) del piano individuale, dove ancora svolge un ruolo determinante la virtù della forza; infatti, se quest’ultima come scopo aveva quello di rinvigorire la nostra volontà individuale, tocca ora alla bontà il compito di indurre tale volontà a sacrificarsi allo scopo di conseguire fini più generali rispetto a quelli che trovavano il loro centro e la loro ragion d’essere nel singolo individuo. Martinetti si impegna, quindi, nella disamina dei diversi ambiti in cui può esercitarsi questa nuova virtù dell’uomo, quella della bontà, appunto.
È nell’ambito della famiglia che l’amore animale e sensuale può elevarsi al livello dell’amore veramente umano, che non è mai un che di meramente individuale, perché è “un amore che purifica e nobilita, che ispira ad alte cose e santifica la voluttà stessa”.[21] Ma è pur sempre con la guida della ragione che si può raggiungere questo livello d’amore, perché è la ragione che riesce a vedere attraverso le illusioni dell’istinto sensuale, e che è in grado di dirigere, senza per questo distruggerla, la passione sessuale. “L’amore d’una donna non rende beati che quando può trasformarsi in un sentimento più alto, come accade nella famiglia, od associarsi a sentimenti ideali e diventare una comunione morale ed intellettuale di due nobili spiriti”;[22] ciò trova compimento nel matrimonioche, perciò, non può essere considerato solo in funzione della prole, o solo come un mero contratto civile, oppure come pura soddisfazione dell’istinto sessuale. Nell’amore coniugale si concretizza, infatti, quell’unione fisica e morale che può essere tale solo se riesce a legare l’uomo con una sola donna per tutta la vita; per questo la forma naturale dell’unione dei sessi è la monogamia: “l’indissolubilità del legame sessuale monogamico non è violenza alla libertà, ma riconoscimento delle leggi più profonde della vita sessuale umana, collegamento dell’amore con le finalità più alte della vita”.[23]
Fra gli ambiti della virtù della bontà, Martinetti pone l’amicizia, e, in proposito, basti citare questo passo: “Sii quindi lieto quando trovi nella vita, in mezzo agli innumerevoli indifferenti od ostili, uno spirito simile al tuo, che, pure avendo la sua vita e i suoi interessi, gode del tuo bene e non ti abbandona nel male; che ti ascolta, ti consiglia con sincerità e con affetto, che è disposto per te anche a qualche ragionevole sacrificio. Se tu avrai trovato un simile amico, tienilo caro come un dono prezioso del cielo”.[24] Nel trattare, poi, dell’amore della patriae del suo possibile conflitto con l’ideale cosmopolitico, l’Autore rileva che “è possibile amare la patria senza cessare di amare la giustizia e la carità dovute a tutti gli uomini: vi sono ideali e doveri puramente umani che limitano e regolano lo stesso amore di patria. Non è lecito violare per l’amore della patria i precetti universali e fondamentali della carità: non è lecito per la patria tradire l’amicizia, mancare alla parola data, essere crudele contro i deboli e gli indifesi”.[25]L’amore e il culto della patria possono ben armonizzarsi, dunque, con l’ideale cosmopolitico della giustizia e della fraternità universali, perché le nazioni si configurano come le unità inferiori e subordinate di un’unità umana più grande ed onnicomprensiva, e non sarebbe certo un bene volerle distruggere anziché renderle più funzionali a quest’ultima. La patria trova poi la sua attuazione storica nell’organizzazione dello stato democratico.
Ripercorrendo in breve l’origine storica del movimento democratico, Martinetti si domanda che tipo di realizzazione politica sia quella basata sul criterio della volontà della maggioranza dei cittadini; considerare quest’ultima “quasi una manifestazione vivente della ragione”,[26] vuol dire confondere una situazione di fatto con la realizzazione di un fine ideale; non basta, cioè, affermare ilprincipio dell’uguaglianza per riuscire a superare con ciò stesso quel principio d’ineguaglianza che regna sovrano nella natura medesima. E anche a proposito dell’idea di libertà, tanto cara al liberalismo, non è con il facile ottimismo di Rousseau che si può raggiungere quella ordinata e armonica organizzazione della società che sia in grado di evitare sia l’anarchismo che il fanatismo rivoluzionario. Libertà, per Martinetti, non significa puro arbitrio, piuttosto essa “è servire a Dio, vivere secondo la legge morale”; per questo “la vita inferiore deve subire nel modo più rigoroso il controllo e la direzione della vita superiore”.[27] Anche la libertà di stampa deve prendere ispirazione da questo concetto stoico e cristiano della libertà: “Senza dubbio la libertà di stampa, che è libertà di manifestazione del pensiero, è un grande beneficio: ed è grave danno che la licenza presente possa mettere in pericolo ciò che in essa vi è di legittimo e di salutare. L’errore del liberalismo sta nel credere che ogni pubblicazione per mezzo della stampa sia manifestazione di pensiero; e che anche qui il bene possa sorgere dalla libera concorrenza delle attività individuali abbandonate a se stesse”.[28]
Le istituzioni parlamentari del liberalismo democratico si sono configurate finora più come una classe di professionisti della politica volta ad arricchirsi e a farsi strumento di interessi incontrollabili, che come un’aristocrazia morale, come sarebbe, invece, negli auspici di Martinetti, atta a dare effettiva realizzazione al vero senso della democrazia: “lo spirito democratico è veramente spirito religioso e cristiano: è la coscienza del diritto umano universale, che ha abolito la servitù, distrutto i privilegi, risvegliato negli oppressi la coscienza umana e che mira nello stato moderno al riconoscimento della personalità morale in tutti gli uomini, anche nei più umili e miserabili”.[29]
La questione sociale occupa una decina di pagine, dove Martinetti inframmezzando, con grande perizia, riflessione storica e argomentazione concettuale, mette a confronto la dottrina socialista con quella liberale. Critica il liberalismo economico quando esso, accampando una sorta di legge di natura, si fa strenuo difensore di diritti individualistici e di mera proprietà: “Noi non siamo davanti all’attuale ordine economico come dinnanzi ad un meccanismo che dobbiamo solo contemplare: noi dobbiamo anzi conoscerlo per agire su di esso, come facciamo per ogni ordine di fatti naturali e trasformarlo nel senso voluto da quella che è la legge suprema della nostra vita, la legge morale”.[30]
Ma neanche alla dottrina del socialismo scientifico – da distinguersi nettamente dal ‘socialismo utopistico’ per l’afflato morale e religioso che lo caratterizza – Martinetti risparmia la sua decisa critica: “Ciò che rende il socialismo “scientifico” teoricamente assurdo e praticamente funesto è la base materialistica della sua dottrina. La vita dell’umanità non è solo un divenire economico: non basta riempire a tutti ugualmente il ventre per creare un’umanità nuova!”.[31] Al concetto di proprietà l’Autore dedica poi una più dettagliata riflessione teorica, e sostiene, infine, che non si tratta di sopprimerla, quanto piuttosto di limitarla sulla base del valore sociale e morale che può svolgere nella società.
L’ambito della bontà, tuttavia, non è riservato esclusivamente agli esseri umani, coinvolge invece anche il mondo degli animali, e Martinetti sottolinea in queste pagine il rapporto di parentela naturale che lega l’uomo agli animali: “anch’essi fanno parte della grande città di Dio, nella quale tutti gli esseri hanno diritto alla benignità”.[32] Per questo motivo dichiara non solo senza bontà, ma del tutto privo di giustizia, sia lo stupido preconcetto, spesso confermato, peraltro, da credenze e pregiudizi religiosi, che pone una barriera discriminante fra uomini e animali, sia quel comportamento disumano che manipola questi ultimi come fossero delle cose, o che infligge loro indicibili sofferenze e torture solo per appagare i capricci del divertimento, del lusso, della moda, che hanno ben poco a che fare con l’idea di un vero progresso civile e morale dell’umanità. Questo sugli animali è un paragrafo bello e profondo, di grande valore spirituale, anche perché verte su di un tema che viene quasi sempre rimosso dalla pigrizia e dall’egoismo degli esseri umani.
Nella parte conclusiva del capitolo dedicato alla bontà, l’Autore prende in considerazione le due virtù fondamentali della giustizia e della carità, che rappresentano altrettanti modi e gradi attraverso cui si afferma la ragione. Lagiustizia si esplica come virtù negativa, nel senso che impone di non ledere il diritto altrui, e tale diritto può venir oltraggiato sia con la violenza che con lafrode. Martinetti si domanda quale, di fronte alla violenza, sia l’alternativa, tra il perdono e la reazione, più utile alla giustizia; e risponde che “soltanto il tatto personale può decidere sulla maggiore o minore convenienza morale d’una reazione. Il precetto evangelico del perdono alle offese rappresenta un ideale della condotta”,[33] che però deve anche saper fare i conti con una società imperfetta, dove alla imperante e diffusa violenza malvagia si rende necessario opporre, più che la legge del perdono, quella ‘violenza’ o, per meglio dire, quella ‘legge della forza’ che riesce ad essere più efficace nella realizzazione del bene: spesso “per poter essere buoni, dice giustamente La Rochefoucauld, bisogna che gli altri siano persuasi di non poter essere cattivi con noi impunemente”.[34]
Ma è sul venir meno della giustizia a causa della frode che la riflessione martinettiana riesce a toccare una pregnanza ed una perspicacia impagabili, anche perché è soprattutto la violenza della frode quella che pervade e domina la nostra sedicente civilizzata società. “Bisogna, però, farsi della veracità un ideale, non un idolo”,[35] questo per dire che dobbiamo saper distinguere la dissimulazione e la menzogna pietosa dalla menzogna che, come frode, è sempre contro alla verità: la menzogna pietosa del medico non è la menzogna che occulta per illegittimo interesse o per viltà. Tuttavia, se è vero che nella nostra società sarebbe impossibile, oltre che dannoso per sé e per altri, praticare una sincerità assoluta, è altrettanto vero che l’eccessiva propensione ad accondiscendere a dissimulazioni e a piccole quotidiane menzogne ci abitua ad avere delle relazioni umane improntate quasi esclusivamente alla doppiezza e, dunque, alla mancanza di una buona e giusta franchezza; questa per valere come autentica virtù della veracità, non deve, tuttavia, essere immediata ed impulsiva: “La veracità invece è franchezza voluta per riflessione, franchezza razionalmente disciplinata, che sa possedersi e contenersi: l’uomo sincero sa unire all’amore della verità la padronanza dei suoi atti e delle sue parole, per cui non dice nulla che sia contro le massime della prudenza o della discrezione. … Sappi perciò tacere, se le circostanze lo esigono, ma non indurti mai ad approvare attivamente, nemmeno per gentilezza, giudizi ai quali non partecipi: e dove il silenzio suonerebbe consenso, sappi essere del vero non timido amico”.[36]
E per stigmatizzare, poi, tanto la maldicenza che l’adulazione, Martinetti scrive: “L’uomo leale o tace o dimostra senza viltà la sua disapprovazione”.[37] Se lagiustizia consiste nel precetto negativo di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, la virtù della carità si compendia, invece, nel precetto positivo:ama il prossimo tuo come te stesso. Tuttavia, anche la carità, per essere vera e non scadere in un superficiale sentimentalismo, deve essere educata dalla ragione, ed è per questo che l’Autore pone queste domande: “A chi deve andare il nostro aiuto? Ed in qual misura? E qual è il modo più conveniente di recare questo aiuto?”.[38] Se un atto di carità deve essere razionale non deve, in primo luogo, offendere la giustizia. Ciò significa che non solo non deve ledere il diritto altrui, ma neanche può non tenere in debita considerazione ciò che è dovuto a se stessi; perciò “il noto precetto evangelico di vendere il proprio e distribuire il ricavato ai poveri può costituire una specie di monito ideale ad una società tutta intenta alla cupidigia del guadagno, un preannuncio del disinteresse assoluto che regnerà nella società perfetta, ma non può essere preso nel senso letterale”;[39]qui a Martinetti preme porre in evidenza un concetto di carità che, senza voler minimamente sottovalutare l’innegabile valore eroico della carità cristiana, sia accessibile e praticabile nell’esperienza ordinaria e quotidiana della vita, perciò scrive: “Sii umano, ma prima di ogni cosa sii giusto, inflessibilmente giusto. La giustizia non è che una forma della carità universale: la più universale anzi e fondamentale forma della carità”.[40] È quella che da lui viene definita carità chiaroveggente e che non può essere, ad esempio, né l’eccessiva tenerezza dei genitori verso i figli, che sarebbe diseducativa, né un’elemosina che favorirebbe la mendicità oziosa e professionale, anziché promuovere la dignità umana.
Un’altra caratteristica della carità è il suo disinteresse, e, in proposito, Martinetti cita espressamente Marco Aurelio: “Come la vite che porta il suo frutto e poi non chiede nulla, soddisfatta di aver dato il suo grappolo”,[41] e conclude, infine, come la carità riassuma sublimemente in sé tutti i doveri umani, proprio perché costringe l’uomo ad uscire dal suo egoismo. Per questo, rispetto alla storia dei grandi eventi dove prevalgono la gloria e le imprese dei potenti che lasciano dietro a sé lacrime e rovine, c’è un’altra storia, quella dell’umanità “delle anime umili e silenziose che hanno fatto il bene e per il bene sofferto, che hanno resistito ai potenti per la giustizia, che hanno sollevato gli oppressi e consolato gli afflitti”.[42]
3° Cap. La saggezza
Le 14 pagine di quest’ultimo capitolo dedicato alla saggezza lasciano trasparire una grande profondità morale e speculativa.
Riportando alcune citazioni dei prediletti Marco Aurelio, Giacomo Leopardi, Arturo Graf, Martinetti ci aiuta a riflettere sull’illusorietà e sull’inconsistenza dei progetti mondani, e ci porta a meditare sull’effimero che caratterizza tutta la nostra esistenza terrena, ragion per cui “ci è impossibile non sentire la tristezza del profondo mistero che circonda la nostra vita ed in cui anch’essa si sommergerà un giorno come infinite altre”.[43] Ecco perché dalla parzialità e dalla limitatezza del nostro punto di vista bisogna che impariamo ad elevarci alla considerazione della totalità delle cose, dove possiamo comprendere “che l’universo non è una vasta solitudine in cui lo sforzo delle volontà buone si perda nel silenzio e nel vuoto, senza lasciare traccia. Vi deve essere un ordine superiore alle vicissitudini del tempo, una realtà nella quale hanno il loro fondamento imperituro le volontà che tendono al bene”;[44] attraverso questa elevazione mistico-razionale allora “noi comprendiamo anche meglio il senso profondo della nostra sottomissione alla ragione. non vi è una ragione individuale che sorga, per così dire, dalle esperienze e sia il frutto della riflessione personale, ma vi è una ragione, una ragione comune a tutti gli uomini, che è il fondamento di tutti i vincoli che essi stringono, l’unità di tutte le volontà buone”.[45] La volontà buona è la prova che l’uomo partecipa all’eternità; ma, come avvenga questa partecipazione e, soprattutto, se e come si possa parlare di un’eterna persistenza dell’individualità personale, resta, anche per Martinetti, una questione aperta; ed è di fronte a quest’ultima che soccorre la virtù della saggezza, che è quella “disposizione di spirito che ci fa considerare le cose della vita e specialmente la nostra attività morale dal punto di vista dell’eternità” –sub specie aeternitatis, per citare Spinoza, un altro autore molto caro al Nostro –, “per essa (saggezza) alle virtù della vita attiva si aggiunge la perfezione della vita contemplativa”;[46] da ciò la necessità e l’importanza che fra le incombenze della vita quotidiana gli uomini riescano a dedicare un impegno disinteressato anche alla scienza e all’arte, discipline queste che possono avviare lo spirito alla meditazione filosofica, che “è la saggezza considerata sotto l’aspetto suo intellettuale, come contemplazione teoretica delle cose nella loro totalità”.[47]
E per sottolineare come la filosofia non debba mai ridursi ad uno sterile gioco dell’intelletto, ma debba, invece, avere quel carattere personale tale da tradursi in una vera e propria vissuta religiosità, Martinetti riporta una citazione di un altro suo prediletto autore, Henri-Frédéric Amiel: “Tutti hanno una religione, tutti danno alla vita un ideale e vogliono che l’uomo si elevi al di sopra delle miserie e delle piccolezze dell’ora presente e dell’esistenza egoistica. Tutti hanno fede in qualche cosa di più grande che essi stessi, tutti pregano e tutti si umiliano, tutti adorano; tutti vedono al di là della natura lo spirito, al di là del male il bene. Tutti testimoniano in favore dell’invisibile… Tutti conoscono il dolore e desiderano la beatitudine; tutti conoscono il peccato e desiderano il perdono”.[48]
*Alfio Fantinel già docente di materie letterarie nei Licei. La sua ricerca filosofica verte sul tema della metafisica connessa ai problemi dell’etica. Ha pubblicato recensioni e saggi brevi in varie riviste cartacee e informatiche. Nel 2012 ha pubblicato per “Mimesis” il libro “Tracce di Assoluto – Agonia dell’infinito in Giordano Bruno”. Questo articolo è stato pubblicato in “MICROMEGA” l’1 agosto 2015.
NOTE
[1]Piero Martinetti, Scritti di metafisica e di filosofia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1976, nota tratta dalla quarta di copertina.
[2]Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, UTET, Torino 1969, vol. 3°, p. 412.
[3]Piero Martinetti, Breviario spirituale, UTET Libreria, Torino 2006.
[4]Ivi, p. XIII.
[5]Ivi, p. XVI.
[6]Ivi, p. X.
[7]Ivi, p. 7.
[8]Ivi, p. 10.
[9]Ivi, pp. 14-15.
[10]Ivi, p. 26.
[11]Ivi, p. 29.
[12]Ivi, p. 34.
[13]Ivi, pp. 36-37.
[14]Ivi, p. 39.
[15]Ivi, pp. 42-43.
[16]Ivi, p. 48.
[17]Ivi, p. 52.
[18]Ivi, p. 66.
[19]Ivi, p. 71.
[20]Ivi, p. 72.
[21]Ivi, p. 80.
[22]Ivi, p. 82.
[23]Ivi, p. 90.
[24]Ivi, p. 99.
[25]Ivi, p. 101.
[26]Ivi, p. 107.
[27]Ivi, p. 108.
[28]Ivi, p. 110.
[29]Ivi, p. 113.
[30]Ivi, p. 124.
[31]Ivi, p. 127.
[32]Ivi, p. 134.
[33]Ivi, p. 142.
[34]Ivi, p. 143.
[35]Ivi, p. 144.
[36]Ivi, pp. 145-46.
[37]Ivi, p. 147.
[38]Ivi, p. 151.
[39]Ivi, p. 152.
[40]Ivi, pp. 153-54.
[41]Ivi, p. 156.
[42]Ivi, p. 157.
[43]Ivi, p. 161.
[44]Ivi, p. 162.
[45]Ivi, p. 163.
[46]Ivi, pp. 165-66.
[47]Ivi, p. 170.
[48]Ivi, p. 172.