Un senso oltre i sensi. La corporeità nella luce dell'Assunta*

Scritto da Maurizio Gronchi on .

 

Nel mezzo dell’estate, la celebrazione di Maria assunta, innalzata alla gloria del cielo in corpo e anima, ci offre l’occasione per avanzare qualche riflessione sulla nostra corporeità, sulla realtà che sperimentiamo, con lo sguardo rivolto al destino eterno che la Madre del Signore ha anticipato prendendo parte alla gloria del Figlio.

Il corpo: niente di più concreto ed immediato, tanto da attrarre o respingere, da curare o disprezzare, da cercare o fuggire, da amare o odiare. Complesso equilibrio, difficile armonia, sia nella prassi che nella teoria, quello tra esaltazione e sottovalutazione della corporeità. Non esiste un corpo uguale all’altro. Questa è la prima meraviglia, che muove alla scoperta dell’altro e di se stessi. Percepibile nel suo misterioso formarsi, continua e sorprendente nuova creazione, frammento e universo compiuto, il corpo è un mondo, la figura integrale della persona, percepita dallo sguardo e da tutti gli altri sensi, che ne veicolano il contatto, la conoscenza, l’intimità. Tuttavia, ciò che l’esperienza dice del corpo non è tutto. C’è bisogno di senso oltre i sensi, o meglio, si tratta di cercare il senso dei sensi. Che cosa significa il corpo? Da dove viene? Cosa farne? Quale sarà il suo ultimo destino? Sono domande che riguardano tutti i corpi, il proprio e quello altrui. Le risposte sono molteplici: il rispetto, la cura, la bellezza, la salute, la forza, il piacere, la fatica, il dolore, lo sport, il riposo.

Il cristianesimo, lungo la sua storia, spesso ne ha relativizzato l’importanza, in favore della dimensione interiore, spirituale, ovvero dell’anima invisibile. In verità, la fede cristiana trae origine da un evento di estrema corporeità — l’incarnazione di Dio — e tutto nella fede parla di corpo, dall’Eucaristia alla Chiesa, fino alla carne di Cristo che sono i poveri e gli ammalati. Il corpo di Gesù, vissuto, donato, crocifisso ed entrato nell’eternità di Dio è il mistero su cui poggia tutta l’esistenza credente. «È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità», scrive san Paolo (Colossesi, 2, 9). Prendere sul serio la carne assunta e salvata da Gesù significa riabilitare l’integralità dell’essere umano, a partire dalla sua fragilità e vulnerabilità, al di là di ciò a cui talvolta si rischia di dare priorità, ovvero alla razionalità, alla integrità fisica, alla salute mentale. Anche il corpo parla, ha il suo linguaggio, specialmente quando la persona manca della perfezione dei sensi, è menomata, disabile, sia fisicamente che psichicamente. Dunque, il corpo, non solo nella sua bellezza e salute, ma anche nella sua sfigurazione dovuta all’imperfezione, alla malattia, al danno, merita di essere amato. Perciò Gesù si è paragonato al medico di cui hanno bisogno i malati (cfr. Matteo, 9, 12).

Così la stupefacente diversità di donna e uomo, l’evoluzione naturale di bambino, giovane, adulto, anziano, dal nascere al morire, annunciano che qui, nel corpo, la vita si compie. Questo è il luogo misterioso e stupendo dell’identità personale, schermo su cui si riflettono anima e cuore, specchio dell’essere, in cui ciò che siamo si esprime fino al vertice estremo di sé: l’amore e il dolore. Pertanto, ogni corpo esige irrinunciabile rispetto, meravigliata ammirazione, custodia premurosa, perché un giorno, quando avrà nuova vita oltre la morte, possa essere riconosciuto nella sua verità e bellezza infinita. Fino a allora siamo creature incomplete, che non nascono già fatte, ma bisognose di storia, di relazioni, di amore, di grazia e di perdono, per diventare pienamente se stesse.

Il corpo del Figlio di Dio, nella tenerezza della sua nascita nel tempo come nella sua vulnerabilità sulla croce, dischiude a ogni uomo questa speranza. I racconti evangelici conservano mirabilmente la testimonianza che il risorto porta con sé le ferite della passione, attestando così la permanenza trasfigurata della nostra vulnerabilità, quale segno del dolore ingiusto sopportato per amore di tutti. La fragilità, dunque, da motivo di vergogna e ostacolo da superare diviene sigillo dell’umanità antica e rinnovata dalla Pasqua del Signore, di cui Maria è partecipe in pienezza come prima tra le creature.

 

* Pubblicato in "L'Osservatore Romano" del 13 agosto 2015