Nota sull'identità del cristiano
Il problema centrale della vita religiosa cristiana, come tutti sanno, non è dirsi credente in Dio ma credere in Dio; non è la quantità della fede, e quindi il numero o la frequenza delle sue pratiche liturgiche, sacramentali e di preghiera, ma la qualità della fede, ovvero la sua intensità e il suo grado di fedeltà alla parola e alla volontà del Signore; non è quello che in nome della fede si fa ma il modo in cui lo si fa e la profondità delle ragioni per cui certe cose si fanno o non si fanno in nome della fede stessa; non è il pentirsi abitudinario e indolore di colpe solo genericamente accusate o di colpe onestamente riconosciute ma troppo spesso reiterate, per cui tutto quel che si riesce a confessare dinanzi a un sacerdote è di essere o sentirsi peccatori, di essere pieni di difetti e di limiti, di sbagliare nei confronti di questo o di quello, di non riuscire a staccarsi da certe pratiche deleterie di vita, senza mai entrare nello specifico dei peccati enunciati e senza mai avvertire ogni volta, al di fuori di ogni finzione retorica, la propria reale piccolezza esistenziale e la propria indegnità dinanzi a Dio oltre che il peso umiliante e devastante della propria incapacità di uscire stabilmente dalla spirale del male, ma il pentirsi impacciato e tuttavia accurato e timorato di chi sente davvero di non poter nulla tacere o omettere per sperare nella misericordia divina.
Il problema centrale della vita religiosa è la consapevolezza mai statica o definitiva che si può essere superbi anche esercitandosi in prove impegnative di umiltà o facendone pubblica professione, che si può essere affetti da sterile saccenteria pur assurgendo socialmente o ecclesialmente a maestri di vita e di spiritualità, che si può vivere carnalmente anche nel contesto di un’ordinata tranquilla e rituale spiritualità per quanto elevata essa possa essere o apparire.
Se sei puro, non te ne accorgi o temi sempre di non esserlo abbastanza; se sei onesto, hai sempre la tendenza a non sentirti compiutamente tale; se sei giusto, non puoi fare a meno di implorare il perdono di Dio per le tante iniquità che non vedi e non sai o non vuoi evitare; se sei davvero innamorato di Dio, non puoi esimerti dall’avvertire uno stato di malessere per tutte le volte che ti senti attratto da cose o situazioni terrene. L’identità del seguace di Gesù è ancora falsa o incompleta se non presenta anche queste caratteristiche esistenziali.
Nella vita del cristiano, le più intime criticità personali non inducono a crearsi e a creare razionalizzazioni di comodo, facili alibi o disinvolte scusanti, magari col supporto di una teologia superficiale e tendenziosa, permissiva e condiscendente. Nella vita del cristiano, se il problema è quello di appartenere sempre più a Dio e sempre meno alla terra, non ci si può concedere il lusso di essere “troppo umani”.
Piuttosto, pur consci di essere soggetti a tentazioni e di essere comunque “troppo umani” per poter meritare di appartenere a Dio, ci si dovrà sentire sfiancati dal sincero e reiterato tentativo di essere interamente e senza riserve dalla parte dell’“umano” solo attraverso il modo e lo spirito divini di assumerlo nei propri pensieri e nella propria condotta. Ci si dovrà sentire perennemente e beneficamente condizionati dall’idea che nessuno possa usufruire della misericordia divina senza sforzarsi incessantemente di vivere secondo la giustizia divina.