Umberto Eco: quale eredità?

Scritto da Francesco di Maria.

 

Umberto Eco se n’è andato. Pace all’anima sua! Adesso anche lui, come ogni comune mortale, dovrà affrontare il giudizio di Dio, e in tutta sincerità io gli auguro di poterne uscire indenne. Tuttavia, mentre in Italia, a morte avvenuta, sono molti quelli (a cominciare dagli esponenti più in vista del mondo massmediatico) che osannano alla sua portentosa genialità e alla preziosa eredità filosofico-culturale che avrebbe lasciato alle future generazioni del mondo intero, sembra doveroso ricordare che sulla figura di Eco, o meglio sul valore della sua produzione letteraria e filosofica, i giudizi non sono mai stati unanimemente elogiativi ma anzi, non di rado, fortemente critici e negativi.

Personalmente confesso di non aver mai letto un solo rigo della sterminata produzione cartaceo-editoriale del professor Eco, né mi è mai capitato di sentirmi interessato ai suoi frequenti interventi sulla carta stampata e sulle reti televisive, ma mi consola il fatto che un riconosciuto e apprezzato esperto di comunicazione come il sociologo Guido Vitiello della “Sapienza” di Roma, pur affermando di aver «letto tutti i suoi libri» e precisando che «alcuni li ho letti due volte, alcuni perfino studiati», concluda poi candidamente: «Quando penso a Umberto Eco, non mi viene in mente nulla. Nulla, nemmeno un mozzicone di frase, con altri autori invece funziona a meraviglia» (Festeggiare gli 80 anni di Umberto senza riuscire a ricordarsi nulla di lui in “Il Foglio” del 5 gennaio 2012).

In realtà, non si tratta di una critica isolata: se fosse isolata avrebbe ben scarso rilievo perché certo una rondine non fa primavera. No, le critiche molto severe ad Eco sono molteplici e provenienti tutte da personalità non secondarie della cultura e della stessa cultura accademica internazionale. Bisogna anzi precisare che se in Italia Eco, a parte qualche eccezione rilevata in questo articolo, è considerato generalmente come un eroe nazionale del pensiero, all’estero egli è stato spesso oggetto di sonore stroncature che contribuiscono molto a ridimensionarne lo spessore critico: come, in modo particolarmente significativo, nel caso dell’uscita del suo libro del 2010 “Il cimitero di Praga”, edito da Bompiani e ispirato ai Protocolli dei Savi di Sion, il documento  falsamente attribuito ad una volontà ebraica di conquistare il mondo alla luce di una profonda avversione verso la cristianità ma contenente in realtà un campionario di stereotipi antiebraici volti ad alimentare paura, odio e ostilità in tutti gli strati sociali della popolazione mondiale, e come nel precedente caso di un altro suo romanzo, “L’isola del giorno dopo” (Bompiani, 2004).

In Germania gli è stato detto di tutto: che l’opera del 2010 era “noiosa e illeggibile” e poteva considerarsi “un fallimento di alto livello, un noioso ammasso di inverosomiglianze grottesche, uno scritto intellettualmente cosí basso da poter essere definito senz’altro mediocre”, mentre ai prestigiosi giornali tedeschi Süddeutsche Zeitung e Frankfurter Allgemeine Zeitung si sono uniti quotidiani inglesi quali il Sunday Telegraph e l’Independent nel bollare come dotato di scarso valore letterario e filosofico il libro citato del 2004.

Peraltro, già un decennio prima, nel 1995 lo storico inglese Noel Malcolm aveva definito ironicamente Eco come «l’Armani dell’Accademia», laddove un suo connazionale, lo scrittore Ken Follett, aveva risposto in modo sferzante a quanti paragonavano i suoi romanzi a quelli di Eco: «Preferirei non essere cosí noioso». Qui non si può non ricordare anche la dura e indignata reazione del mondo cattolico e di parte significativa del mondo laico al giudizio non solo offensivo ma palesemente gratuito che il professore piemontese avrebbe espresso su papa Benedetto XVI nel settembre 2011: «Non credo che Ratzinger sia un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale…Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane», diceva Eco, «nemmeno uno studente della scuola dell'obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole» (M. A. Calabrò, Dura critica di Eco al Papa: non è un grande teologo, in “Corriere della Sera”  del 20 sett. 2011). Passi con molte riserve la critica al filosofo Ratzinger, benché non si possa certo dire che lo stesso Eco abbia elaborato un sistema o un metodo originale di pensiero, ma, quanto al teologo Ratzinger,  non c’è dubbio che il semiologo passasse allora largamente il segno: cosa ne sa Umberto Eco, obiettivamente, di teologia? E, infatti, la risposta del mondo cattolico a tanta tracotanza sarebbe venuta per bocca dell’autorevolissimo filosofo cattolico Nikolaus Lobkowicz, rettore dell’Università Ludwig-Maximilian di Monaco (una delle migliori università del mondo), il quale avrebbe sottolineato come papa Benedetto fosse non solo uno dei migliori teologi viventi ma anche «uno degli uomini più colti del nostro tempo e anche uno dei più colti della lunga storia dei vescovi di Roma».  Si può aggiungere che il famoso discorso sulla violenza islamica all’Università di Regensburg, che pure tante polemiche avrebbe sollevato nell’immediato, si sarebbe rivelato addirittura profetico alla luce dei recenti attentati compiuti a Parigi nel nome dell’islam.

Ma in Italia Umberto Eco, almeno a livello di grande comunicazione mediatica, è sempre stato sinonimo di vera e grande cultura: tutti quei libri pubblicati, quella versatilità multidisciplinare, quelle competenze  nella scienza della comunicazione, che altro sarebbero se non una chiara testimonianza di elevata statura intellettuale? E invece questa tesi, questa valutazione viene letteralmente contraddetta e confutata da un intellettuale laico come Costanzo Preve, autore di un numero impressionante di opere e artefice di un contributo originale ad una rifondazione antropologica del comunismo. Preve, morto circa tra anni fa,  ebbe a dire di Eco quanto segue: «Ho conosciuto molti anni fa Umberto Eco in un seminario residenziale dei gesuiti all’Aloysianum di Gallarate. Era esattamente quello che sembra: un brillante e superficiale retore, che supplisce alla mancanza di profondità con un fuoco d’artificio di erudizione. […] A differenza di Umberto Eco,  giudico Ratzinger un teologo ed un filosofo di alto livello […], del tutto indipendentemente dal suo ruolo di papa e dal fatto che personalmente non sono in alcun modo una pecorella del suo gregge. […]. Se collochiamo Ratzinger nel tempo in cui stiamo vivendo, la superiorità di Ratzinger sulla spocchia autoreferenziale dei dotti universitari boriosi alla Eco è addirittura tennistica» (C. Preve, La filosofia, la teologia e la volgarità arrogante di Umberto Eco, in Arianna Editrice, 28 settembre 2011).

Sorvolando sulle accuse di plagio rivolte ad Eco in particolare per quanto riguarda il suo romanzo “Numero zero”, edito ancora da Bompiani nel 2015, ed è opportuno sorvolare perché in fondo siamo tutti esseri umani con le loro debolezze (come lo sono i vari Saviano, Galimberti, Augias e via dicendo, tutti regolarmente colti in fallo), non si può tacere infine sulla terza e forse ultima eccezione italiana di critica franca e risoluta ad Eco (anche se prima in senso cronologico), ovvero sulla presa di posizione di un importante critico letterario come Alfonso Berardinelli, che, insofferente verso gli specialismi scientistici delle università, verso il conformismo pur eterogeneo di tanto pensiero accademico, verso certe forme di megalomania filosofica alla Severino, oltre che verso un diffuso snobismo intellettuale di molti “maestri” italiani “di pensiero” e di pensiero più segnatamente “di sinistra” spesso coincidenti con il perfetto modello del distaccato e sussiegoso “barone” universitario, e infine verso il sistema corporativo della cultura in Italia, ebbe il coraggio etico-civile di dimettersi da professore universitario per continuare ad esercitare magistralmente da uomo libero la sua funzione di critico della cultura. Ecco, Berardinelli, che in tempi non sospetti non esitava a prendere di mira alcuni mostri sacri della cultura accademica nazionale, ha ribadito più recentemente che «se fosse per le mie opinioni critiche, i romanzi di Umberto Eco e il libro di filosofia di Severino potrebbero sprofondare nella pattumiera» (Lo strano caso degli opinionisti che negano l’esistenza dell’opinione pubblica, in “Il Foglio” del 21 agosto 2008).

Tuttavia, a Umberto Eco, che ancora giovane universitario riteneva di abiurare la fede in Cristo e nella sua santa Chiesa, l’onesto cattolico deve oggi qualcosa: non certo la sua frettolosa ed avventata tendenza a definire violento il monoteismo cristiano, al pari di quello ebraico ed islamico, e a considerare pacifico il politeismo, ma la sua corretta interpretazione del Medioevo, da lui ricostruito non già come un’epoca oscura ma come “un’epoca gloriosa” che ha prodotto «quella che chiamiamo oggi Europa, con le sue nazioni, le lingue che ancora parliamo, e le istituzioni che, sia pure attraverso cambiamenti e rivoluzioni, sono ancora le nostre», e poi la sua prontezza nel riconoscere del tutto legittimo il diritto della Chiesa ad intervenire pubblicamente su temi sociali di grande rilievo etico come il divorzio, l’omosessualità, l’eutanasia, il celibato dei preti. Su cose del genere, diceva Eco, i laici non hanno alcuna ragione per lamentarsi delle posizioni della Chiesa, perché essa altro non fa che rendere testimonianza coerentemente alla sua stessa fede (In cosa crede chi non crede, Bompiani 2014, in cui si riporta la corrispondenza intercorsa tra Eco e il cardinal Martini nel 1995).

Ma i cattolici, per quanto doverosamente impegnati a cogliere limiti e ambiguità di questo intellettuale che troppo presto ritenne di doversi separare da Cristo, non possono non ritrovare nelle parole che egli volle dedicare al confronto tra etica naturale ed etica cristiana un nostalgico anche se forse inconscio riferimento proprio alla figura di Gesù: «ritengo che un’etica naturale – rispettata nella profonda religiosità che la anima – possa incontrarsi coi princípi di un’etica fondata sulla fede nella trascendenza, la quale non può non riconoscere che i princípi naturali siano stati scolpiti nel nostro cuore in base a un programma di salvezza» (Ivi, p. 25). Umberto Eco è morto: quale eredità dunque ci ha veramente lasciato?