Francesco tra luci e ombre

Scritto da Aldo Maria Valli on . Postato in Compagni di viaggio, articoli e studi

 

Papa Francesco ha fatto della misericordia di Dio il tema centrale del suo insegnamento. A più riprese, fin dai primissimi momenti del pontificato, ha parlato di Dio come padre misericordioso che ama le sue creature con tenerezza e perdona ogni peccato di coloro che si rivolgono a lui con cuore pentito. Ha sottolineato che Dio ama per primo, senza condizioni, e che ricorrere alla sua paternità amorosa è la miglior medicina contro ogni tipo di sofferenza. Il Dio dei cristiani, ha detto utilizzando il suo linguaggio colorito, non è un «Dio spray», nebulizzato, vago e indeterminato, ma è padre, un padre buono che non si stanca di cercarci e di perdonarci: il nostro rapporto con Dio è dunque diretto, è un autentico rapporto filiale. Con Dio possiamo e dobbiamo parlare, senza paura, senza reticenze, senza temere di provare il senso di vergogna. E dobbiamo utilizzare lo strumento della confessione, il mezzo più efficace per riconciliarci con il Padre e riprendere il cammino con fiducia.

Dal punto di vista dottrinale non si tratta certamente di un insegnamento rivoluzionario. Francesco non ha fatto che ribadire alcuni punti centrali della fede cristiana. Ma allora perché si parla tanto di «rivoluzione» di Francesco? Perché le sue parole sono apparse così nuove? E perché tante persone che si erano allontanate dalla Chiesa avvertono che ora, con Francesco, la distanza si sta riducendo?

Il motivo sta proprio nel fatto che Francesco anziché mettere al primo posto del magistero gli obblighi morali che derivano dalla fede sta privilegiando l’annuncio della misericordia divina.

Quando a Francesco è stato fatto notare che da parte sua non ci sono che pochi accenni a quelli che venivano chiamati «valori non negoziabili» (la vita umana dal concepimento alla morte naturale, la famiglia fondata sul matrimonio fra uomo e donna, la libertà di educazione), ha risposto che lui è un figlio della Chiesa: un modo per far capire che non ha  intenzione di discostarsi dall’insegnamento tradizionale. Tuttavia a suo giudizio, in questa fase storica, è più importante proporre l’annuncio della misericordia che ricordare i precetti derivanti dalla dottrina.

Possiamo dire che Francesco sta mettendo al centro della sua proposta il Vangelo più che la legge, il kerygma (dal greco kēryssō, che letteralmente significa gridare, proclamare) più che la didaché, ovvero l’insieme dei precetti morali. Per Francesco la fede può sbocciare solo in presenza del kerygma, dell’annuncio, e l’annuncio è l’evangelo, la buona novella portata da Cristo. Ecco perché ha raccomandato di tenere sempre con sé una copia tascabile del Vangelo, magari per leggerla in autobus o sulla metropolitana, ed è arrivato perfino a farne distribuire migliaia in piazza San Pietro. Solo il Vangelo può scaldare il cuore, ma occorre annunciarlo. E annunciarlo significa parlare di Gesù, significa rimettere Gesù al centro della predicazione.

Qualcuno sostiene che la proposta di Francesco rischia di cadere nel buonismo e di ridurre lo stesso messaggio cristiano a un invito consolatorio e sentimentale. Io pensavo che non fosse così, ma dopo Amoris laetitia mi sono nati molti dubbi. Trovo che il documento che fa da sintesi del sinodo dedicato alla pastorale della famiglia sia ambiguo e generico. La morale del caso per caso, che viene richiamata come via da praticare, confina pericolosamente con il soggettivismo e il relativismo. La morale della situazione può costituire una via ma, se spinta troppo avanti, si traduce nella giustificazione di ogni comportamento. In Amoris laetitia questo equilibrio non c’è: al contrario, emerge l’idea che ogni scelta sia buona se vissuta con sincerità e che la legge divina abbia una gradualità da applicare in base alle possibilità umane. Sia Familiaris consortio sia Veritatis splendor sono contraddette in modo aperto.  

Man mano che il pontificato va avanti, queste ambiguità emergono sempre più chiaramente. La stessa definizione di Chiesa come «ospedale da campo», più volte ribadita, è rimasta a un livello troppo superficiale: ospedale di che tipo, per guarire come? Purtroppo, dopo Amoris laetitia, vedo un rischio: che il magistero di Francesco punti più al benessere psicofisico della persona che alla salvezza dell’anima. Noto con dispiacere che nel suo insegnamento sono assenti, o quanto meno molto rari, i riferimenti alla questione del giudizio divino e dunque della verità, della libertà e della responsabilità umana. Sappiamo bene che Jorge Mario Bergoglio non è un pensatore sistematico, ma certe sue reticenze, unite ad alcune affermazioni avventate, hanno suscitato in me molto sconcerto e penso che non aiutino un confronto serio con la cultura atea.

Il discorso a braccio che Francesco ha fatto nella chiesa luterana di Roma, quando, rispondendo a una domanda sull’intercomunione, non ha saputo dire se questa strada sia praticabile o meno, e alla fine è sembrato legittimare una sorta di «fai da te», mi ha profondamente inquietato. Il munus docendi di Pietro, il suo compito di insegnare, non può essere preso così alla leggera, specialmente in una cultura come la nostra, già abbondantemente imbevuta di relativismo e superficialità. Artificiosa e tutta «di vertice», senza partecipazione popolare, mi è sembrata l’operazione Svezia, con la visita a Malmö e a Lund, nel quadro di una generica, e ambigua, rivalutazione di Lutero che non contribuisce a fare chiarezza e non aiuta il dialogo ecumenico, perché non ci può essere dialogo senza chiarezza e verità. Molto discutibile mi è sembrato il pensiero di Francesco a proposito dell’Islam. Inquietanti le sue parole quando, nell’intervista a La Croix, ha sostenuto che se è vero che l’idea di conquista è inerente all’anima dell’Islam, «si potrebbe interpretare, con la stessa idea di conquista, la fine del Vangelo di Matteo, dove Gesù invia i suoi discepoli in tutte le nazioni». Questa valutazione non ha alcun fondamento, è grave che a proporla sia stato il papa e di certo non favorisce un  dialogo costruttivo con il mondo islamico.

Francesco mi piace quando propone per la Chiesa il paradigma del samaritano, che si china concretamente sulle ferite del viandante colpito derubato dai briganti. Mi piace e mi convince molto meno quando sembra sposare alcune cause (penso anche a un certo suo ecologismo à la page, a un certo suo populismo superficiale) che gli procurano grande popolarità ma non sono connotate da verità e saggezza.

Per queste mie valutazioni ho ricevuto duri attacchi, il che ha rafforzato in me un’impressione che vado maturando da tempo: nel mondo cattolico, per lo meno in quello italiano, manca un’opinione pubblica degna di questo nome, capace di un confronto libero e sincero. D’altro canto vedo crescenti sintomi di papolatria, atteggiamento di chi esalta il papa sempre e comunque, come se non fosse un preciso dovere di ogni battezzato vigilare sulla retta dottrina. Inutile dire che la papolatria è condita abbondantemente con l’ipocrisia e il tornaconto personale. Tuttavia credo fortemente nello Spirito e non mi stanco di invocarlo. E prendo molto sul serio Francesco quando chiede di pregare per lui.