Usi e abusi della Parola di Dio

Scritto da Francesco di Maria.

 

E’ sempre stato cosí: per quanto chiara e profonda anche attraverso la mediazione di uomini ispirati dallo Spirito Santo, la Parola di Dio è sempre stata oggetto di malintesi, fraintendimenti, controversie esegetiche, contrapposizioni ermeneutiche, e di usi tendenzialmente corretti o di veri e propri abusi dovuti ad approcci biblico-evangelici superficiali, tendenziosi o prevenuti.

Nessuno è perfetto nell’ascolto della Parola di Dio, ma anche in questo caso c’è imperfezione e imperfezione, fermo restando che alla fine chiunque ad essa si accosti per divulgarla, illustrarla e testimoniarla si assume la responsabilità del suo dire e fare di fronte a Dio stesso. Ma il problema, ancor più che sul terreno teologico, su cui pure agiscono processi erosivi sempre più preoccupanti, si pone sul piano pastorale, sul piano dell’attività dei “pastori di anime”, su cui si tratterebbe non solo di enunciare le verità della fede quanto anche di comunicarle con intelligenza contestualizzandole in specifiche situazioni di vita parrocchiale e comunitaria ed illustrandole non attraverso concetti generici ed astratti magari conditi di banale paternalismo ma alla luce di esemplificazioni relative a casi reali o ipotetici ma pur sempre possibili di esistenza quotidiana.

Gli esempi da fare potrebbero essere moltissimi. Qui ci si limita a prenderne in considerazione alcuni tra i più significativi. Quando Gesù, per esempio, ammonisce a non chiamare nessuno “padre”, “maestro”, “guide”, bisognerebbe spiegare che il monito è diretto innanzitutto a sacerdoti del tempio, a scribi e farisei, a tutti coloro cioè che tendono generalmente a considerarsi “i rappresentanti del sacro” e non rifuggono dal sentirsi omaggiare con termini oltremodo gratificanti quali per l’appunto “padre”, “maestro”, “guide”. Non sfugge a Gesù il fatto che il fedele, il credente, il penitente, possano sentirsi legittimamente attratti da religiosi o “uomini di Dio” dotati di grande spirito paterno, di autorevolezza dottrinaria, di illuminata spiritualità, ma quel che egli intende rintuzzare è la tendenza quasi congenita dei ministri del culto del suo tempo e di ogni tempo a inalberarsi umanamente, ad essere orgogliosamente autosufficienti, ad autocelebrarsi, al di là dei frequenti confiteor  da essi recitati persino ogni giorno per se stessi e di una modestia più ostentata che reale.

Ora, questo specifico intendimento di Gesù non sembra emergere affatto da molte omelie dei giorni nostri risultando ben raro che i “ministri del culto”, più o meno preparati che siano, avvertano il dovere di riferire le sue parole innanzitutto a se stessi e alle proprie vulnerabilità umane e sacerdotali, in quanto essi tendono piuttosto a spiegarle genericamente come esortazione rivolta a tutti i fedeli (senza specificare se in questo “tutti” sia compresa preliminarmente la classe sacerdotale) a non sentirsi dei padri eterni, dei maestri, delle guide, quasi che un prete, un vescovo, un cardinale, un papa non possano essere esposti come o più degli altri a questa debolezza o a questa deprecabile vanità.

Lo stesso errore si compie facilmente quando i temi della predica siano quelli dell’umiltà, del perdono, dell’amore o della violenza, troppe volte trattati in senso cosí asettico e indeterminato da risultare applicabili, con pari valenza monitoria o esortativa, sia a chi generalmente è superbo e arrogante sia a chi invece è generalmente modesto e mite, sia a chi si sforza di perdonare sinceramente i suoi offensori sia a chi molto difficilmente è capace di perdonare qualcuno o qualcosa, sia a chi ama il prossimo nel rispetto quanto più possibile diligente delle verità divine sia a chi al contrario esercita il suo amore come un generico sentire che può anche prescindere da un’intransigente fedeltà ai valori evangelici, sia infine a chi aborre realmente la violenza pur essendo talvolta costretto o portato per oggettive ragioni morali a reazioni relativamente aggressive che a chi con la violenza e lo spirito di sopraffazione ha più forti rapporti di familiarità pur assumendo esteriormente ed ipocritamente atteggiamenti pacifici o benevoli.

Quando si parla di cose cosí delicate, bisogna essere chiari, bisogna farsi capire bene, senza dare l’impressione che il cristianesimo consista in un insieme di princípi e di norme neutrali in virtù dei quali sia possibile chiedere, appunto cristianamente, agli oppressi di chinare il capo per umiltà davanti ai propri oppressori, a coloro che cercano di pensare e vivere saggiamente e onestamente di non alzare mai la voce per carità contro individui che non sanno o non vogliono seguire le vie diritte del vero e del giusto, a quelli che si indignano e protestano per tante pratiche inique di tollerare in silenzio qualunque misfatto e offesa alle leggi di Dio e di limitarsi a pregare e a rimanere nella pace della propria coscienza e in una fraintesa pace di Cristo (già, la pace di Cristo è quella che si scambia durante la santa messa ignorandone tranquillamente il vero significato!).

Un cristianesimo presentato in questi termini non ha nulla a che fare con la fede, con la spiritualità cristiana, con l’amore evangelico, perché è pura e semplice mistificazione, ingannevole moralismo, cialtronistico spiritualismo. Quando Cristo parlava, non correva mai il rischio di essere ambiguo o equivoco, ma le sue parole erano cosí chiare, cosí precise, cosí taglienti e significative, che non potevano non provocare conflitto, irritazione, rabbia e persino pulsioni omicide nei cuori in cui ancora covava troppa superbia e amor proprio, troppo attaccamento alle cose mondane pur in una cornice di apparente devozione religiosa, e viceversa benefico turbamento, ma anche ricerca, conforto, serenità, nei cuori di quanti, quali che fossero le proprie condizioni materiali e morali di vita, non si sentivano né appagati, né giusti e puri, né sapienti e santi, anche nel caso in cui sussistessero realmente elementi concreti di amore per la verità e la giustizia e di carità verso il prossimo e verso Dio.

Lo stesso invito a non giudicare e a non condannare al fine di essere misericordiosi come il Padre celeste non si può continuare a rivolgerlo ai fedeli spesso ignari o ingenui come invito assoluto a non esprimere giudizi di nessun genere, quasi che Cristo non sapesse che il vivere, il credere, il testimoniare, l’operare in spirito di carità e fraternità e ogni forma di umana convivenza, si fondano necessariamente su giudizi conoscitivi e giudizi di valore. Ma come si può continuare ad essere cosí ambigui, cosí reticenti, cosí approssimativi su passaggi cosí delicati, essenziali e decisivi del cammino cristiano verso la salvezza? Cosa si aspetta nelle chiese di tutto il mondo a spiegare per bene che Gesù intendeva invitare i suoi interlocutori, nemici ed amici, non già ad una sorta di mutismo etico-esistenziale ma a non giudicare e a non condannare ipocritamente, frettolosamente, maliziosamente, altezzosamente, impietosamente, essendo comunque ognuno di noi, persino il migliore di noi, un peccatore bisognoso di essere perdonato.

Si potrebbe esemplificare a lungo: attualissimo per esempio è l’uso della forza per combattere il terrorismo islamico come ogni forma di terrorismo oppure per proteggere la propria vita ed entro certi limiti anche i propri beni da atti delittuosi di malviventi, delinquenti, mafiosi e soggetti totalmente privi di remore morali. Si tratta certo di questioni delicate che vanno affrontate con tatto e prudenza, ma che devono pur essere affrontate senza timidezze, senza incertezze e senza balbettamenti spirituali.

Vero è che la Chiesa ha sempre riconosciuto il principio della legittima difesa, ma per molti credenti e anche non credenti è come se tale principio fosse stato concesso appunto e aggiunto dalla Chiesa ai testi evangelici. D’onde quella strana e impacciata reticenza a parlare nelle nostre chiese di questo argomento e la tendenza a cavarsela con frasi generiche e non molto salomoniche del tipo: “odio chiama odio, violenza chiama violenza, la violenza si combatte con l’amore”. Che sono anche concetti in sé giusti e santi, ma del tutto inadeguati, in questa forma, a far capire esattamente come ci si posssa o debba comportare da cristiani in tutta una possibile serie di casi di profonda e acclarata ingiustizia o di efferata violenza. 

Non è vero che le Sacre Scritture e lo stesso Vangelo non ci consentano di trattare questo e altri argomenti ugualmente spinosi con sufficiente chiarezza. Basta leggerli con attenzione e spirito di approfondimento, pregando continuamente il Signore e il suo Santo Spirito di illuminarci e fortificarci nella verità, e anche in questo caso ogni cosa potrebbe essere spiegata senza reticenze e senza il terrore di uscire fuori del seminato. Il cristianesimo è una religione d’amore e di pace, ma non una religione melliflua, perbenistica, pacifista; è una religione che predica la concordia tra gli uomini, ma che insegna anche come agire virilmente non meno che santamente se al posto della concordia venga di fatto prevalendo il conflitto o la guerra. Non c’è questione umana su cui Gesù si sia tirato indietro. Su tutto, persino sulle cose più scabrose, ha lasciato una parola, un’indicazione o un segno che ci consentano di orientare le nostre scelte verso le soluzioni migliori.