Il paradiso cristiano

Scritto da Francesco di Maria.

 

Il paradiso cristiano, come è già stato spiegato in questo sito, è una realtà, non una semplice illusione, un’idea chimerica e meramente consolatoria. E’ sia un luogo  che uno stato. Non può essere solo luogo visto che chi vi è ammesso deve già prepararsi, sin dall’esistenza terrena, ad una vita spirituale ineccepibile e naturalmente diversa da quella che si svolge sulla terra, quindi conforme a princípi di giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo (Rm 14, 17); e non può essere solo stato perché la realtà spirituale del paradiso non è una realtà disincarnata ma pienamente e perfettamente incarnata in Cristo e viene concretamente manifestandosi in una dimensione di materialità-corporeità oggettiva anche se trasfigurata nella logica della gloria celeste, quindi anche in un luogo non sottoposto alle leggi spazio-temporali ma a leggi fisiche, chimiche e astronomiche che noi non conosciamo.

Bisogna stare attenti a parlare delle “cose celesti”, perché, come recita severamente Apocalisse 18, 19, a chi arbitrariamente «aggiungerà qualche cosa» di improprio o estraneo alla rappresentazione giovannea della realtà celeste, «Dio farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro», mentre «chi toglierà qualche parola di questo libro profetico», che tuttavia deve essere inteso correttamente con l’aiuto dello Spirito Santo, «Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa»; ma, al tempo stesso, non bisogna temere di parlare delle “cose celesti”, perché è lo stesso insegnamento apostolico che sollecita gli uomini salvati in Cristo Gesù, a cercare le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio, ad aspirare alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra (Col 3, 1-2).

Cristianamente, si deve vivere in modo realistico e fattivo quaggiù pensando alle cose di lassù, dove “quaggiù” e “lassù” non vanno intesi evidentemente in senso spaziale ma stanno a denotare rispettivamente questa vita  e l’altra vita, pensando cioè a quei valori di giustizia, di carità, di fraternità, di pulizia interiore, di pace che regnano incontrastati nel Regno di Dio e che qui bisogna sforzarsi di perseguire e realizzare nel miglior modo possibile. Pensare al paradiso, per un cristiano, non è indice di disimpegno terreno, di spreco di energie spirituali, di evasività, di fantasticheria, di sterile visionarietà, ma, al contrario, fungendo i suddetti valori da sprone quotidiano ad un agire virtuoso e ad una vita santa, è indice di vero amore e timore di Dio, di sincera tendenza ad una continua conversione personale, di dedizione alla pur difficile attuazione del bene in rapporto a se stessi e al proprio prossimo.

Ecco perché, persino nelle circostanze più difficili e nei momenti più drammatici della vita, il cristiano non può non pensare al paradiso, alle sue perfezioni, alle sue bellezze, alle sue gioie, alla piena e perfetta felicità che spetta a chi, pur peccando, abbia cercato di seguire il Signore onestamente e con il cuore sempre contrito e affranto. Quanto più un cristiano aspira alle gioie concrete, sensibili, corporee della vita paradisiaca, sebbene glorificate e trasfigurate, ovvero ulteriormente potenziate e nobilitate rispetto alle loro forme terrene, tanto più sarà portato, nonostante i suoi limiti, le sue persistenti debolezze, le sue laceranti contraddizioni, a vigilare su stesso, sui propri pensieri, sui propri propositi e sui propri atti, e a lottare contro tutto ciò che tenda ad allontanarlo da Dio.

Il cristiano non occasionale, non superficiale, non tiepido e non indifferente alle cose dell’anima e del mondo, e magari non semplicemente preoccupato di esorcizzare il male terreno (malattie, disgrazie, crisi familiari e professionali) con la recita di preghiere quotidiane e la partecipazione a tutte le pratiche e i riti formali della liturgia cattolica, sa bene o meglio crede correttamente nel fatto che i risorti non siano spiriti privi di carne, non siano qualcosa di etereo o di vagamente spettrale, e ormai del tutto impassibili dinanzi alle sensazioni degli organi di senso.

Chi è infatti il Risorto per eccellenza se non Gesù stesso, se non quel Gesù che, proprio per farsi riconoscere dai suoi discepoli ancora convinti della sua morte, spaventati e increduli nel vederlo dinanzi a loro, si espresse in questi termini: «“Pace a voi!”. Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho”. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro» (Lc 24, 37-42, ma anche Gv 21, 9-13).

Ecco: i risorti non sono fantasmi, non sono esseri incorporei, non sono esseri diversi da noi se non per la loro natura immortale e quindi anche per una costituzione fisico-psichica e mentale non più soggetta a processi di logoramento e dotata di facoltà fisico-estetiche, intellettive e volitive molto più potenziate rispetto a quelle terrene. I risorti, come dice Gesù, avranno “carne e ossa”, “mani e piedi”, e si possono toccare e guardare, e potranno fare tutto quello che si suole fare nel mondo terreno, ivi compreso il mangiare e il bere, e molto di più, anche se non più sotto una legge biologica di necessità ma sotto una più potente legge di libertà. Certo, anche mangiare cibi familiari e gustosissimi sarà possibile, come significativamente il Risorto stesso dimostra nel chiedere di poter mangiare qualcosa, ma non più per fame bensí per piacere o per diletto.

D’altra parte, proprio nel momento di più elevata e solenne spiritualità della sua vita terrena, ovvero quando istituisce il sacramento della Santissima Eucaristia, Gesù prefigura l’era paradisiaca allorché, dopo aver simbolicamente paragonato il vino al “sangue dell’alleanza, che è versato per molti”, afferma significativamente ben al di là di ogni significato semplicemente simbolico: «In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio» (Mc 14, 24-25; Lc 22, 14-18; Mt 26, 29).

Analogo ragionamento può essere fatto per il sesso, nel senso che chi si immagina una vita paradisiaca senza sessualità, sia in senso generico come sessualità maschile e sessualità femminile, sia in senso specifico come sessualità maschile e femminile di questo o di quest’altro individuo, probabilmente continua a coltivare un’idea ancora troppo puritana e inesatta del mondo paradisiaco, per il fatto che ogni persona risorta non potrebbe conservare la coscienza della propria identità se si ritrovasse priva di quella sessualità che è elemento originario e costitutivo della complessiva identità personale di ciascuno.

Questo tuttavia non ha niente a che fare con il paradiso edonistico ed orgiastico propagandato dalla religione islamica, né comporta che nella dimensione celeste la sessualità continui ad essere esercitata nelle stesse modalità, il più delle volte solo apparentemente e limitatamente “naturali”, in cui essa viene esercitata sulla terra, innanzitutto perché la natura umana nella sua perfezione non è quella postedenica, ovvero quella  della “caduta”, quella dell’uomo e della donna che hanno disobbedito a Dio e rotto il rapporto armonico tra ordine divino ed ordine umano, per cui, pur essendo “salvata” tale natura malata dalla grazia divina, resta in qualche modo ferita, debole e difettosa o depotenziata sino alla fine del ciclo terreno, persino nelle forme spiritualmente meglio riuscite di sessualità umana e personale, e in secondo luogo perché la sessualità anch’essa trasfigurata, al pari di tutto ciò che è umano, e quindi ricreata o totalmente rinnovata da Dio, avrà delle potenzialità inimmaginabili e imprevedibili anche se molto più ricche e appaganti di quelle conosciute sulla terra: non ci saranno, pertanto, amplessi scomposti e licenziosi anche se non cesseranno di essere coinvolgenti e appassionati, non ci saranno né rapporti perversi né schemi di comportamento noiosamente ripetitivi tra i beati ma rapporti innocenti e rispettosi anche se intensi ed emozionanti, non ci saranno atti di cui ci si debba vergognare o pentire.

L’istinto non andrà più per conto suo ma sarà completamente al servizio della ragione e di una ragione ormai santa o santificata, tutti saranno felici di penetrare l’identità altrui e di fondersi con essa  senza dover ricorrere ad atti di possesso o di violenza fisica e mentale o ancora a gesti in qualche modo lesivi della dignità propria e altrui. Un esempio emblematico di come, anche sotto questo aspetto, saranno i beati in paradiso, lo abbiamo in Maria, Madre celeste ma donna tra donne ed essere umano tra esseri umani. Ella non fu asessuata in terra pur nella sua natura e nella sua condotta verginali, né per questo fu sessualmente repressa, nevrotica o frustrata; ed ella non sarà asessuata in cielo, costituendo anzi per tutti coloro che vi saranno ammessi il più perfetto modello di sessualità umana, un’icona spirituale della sessualità appena uscita dalla mente di Dio.

Ecco: niente sarà tolto alla vita umana rispetto ai beni, alle aspirazioni, alle opere, alle soddisfazioni intellettuali e sensoriali di cui lecitamente si sarà goduto o verso cui ci si sarà orientati in questo mondo, ma tutto sarà conservato anche se trasformato, potenziato, perfezionato nel mondo celeste. Solo il peccato, la malattia, la sofferenza, la morte, ovvero tutto ciò che depotenzia e avvilisce l’essere vivente, saranno eliminati per l’eternità nella vita senza fine dei beati.

In paradiso sarà sempre festa  perché ognuno avrà sempre l’opportunità di fare festa secondo le sue attitudini più feconde e produttive, i suoi gusti più elevati, le sue più sante e significative preferenze in un universo anch’esso ricreato e bellissimo in ogni suo angolo, in un universo senza confini inderogabilmente retto su assoluti e definitivi princípi di verità, di giustizia, di carità e amore fraterno, e stabilmente presidiato da legioni angeliche per nulla metaforiche, simboliche o genericamente spirituali, ma, come ci fa intendere Gesù nella pagina evangelica della sua cattura nell’Orto degli Ulivi, armate di tutto punto e ab aeterno  preparate a contrastare e a sbarrare il passo alle forze del male e del Maligno.

In questo inedito e spettacolare universo, Dio sarà continuamente lodato ed adorato in un “eterno riposo” che a lui ci accomunerà ma che non potrà mai annoiarci, perché non sarà fatto caricaturalmente di mera, statica e silenziosa contemplazione adorante della maestà divina bensí, come una volta ebbe a precisare la rivista dei Gesuiti “Civiltà Cattolica”, in quel “riposo” «non ci saranno le fatiche e gli affanni che caratterizzano la vita presente, ma ciò non significa affatto che la vita eterna sarà una vita di semplice far niente, di inattività. Infatti, proprio perché vita, la vita eterna sarà attiva e dinamica» (La civiltà cattolica, Editoriale, La vita eterna. Il paradiso, p. 15, Quaderno 3403, 4 aprile 1992).

In modo forse più spregiudicato, ma ugualmente veritiero e ispirato, sant’Agostino, già molti secoli or sono, cosí scriveva del paradiso: «Ibi vacabimus et videbimus, videbimus et amabimus, amabimus et laudabimus. Ecce quod erit in fine sine fine» («Lì sarà sempre festa e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo. Ecco quel che si avrà senza fine alla fine», La città di Dio, XXII, 30, 5). Contempleremo vedendo, amando, lodando, ma, innanzitutto, dopo tante fatiche e sofferenze terrene, vacabimus, faremo festa per l’eternità.