Educare all'inclusione nel mondo della complessità

Scritto da Adele di Fusca.

La scuola segue, oggi come sempre in passato, l’evoluzione della società.

Viviamo in un  mondo ipertecnologico e globalizzato, permeato dalla complessità: “V’è complessità quando sono inseparabili le differenti componenti che costituiscono un tutto (…)  e quando v’è un tessuto interdipendente, interattivo e interretroattivo fra le parti e il tutto, fra il tutto e le parti” [1]. Il nostro pianeta e il nostro universo sono tutt’altro che ordinati, perfetti ed eterni: la Terra altro non è che un puntino in mezzo a milioni di galassie , in un cosmo in continua espansione. Si rende necessaria una riforma del pensiero, che educhi al pensiero della complessità, per approdare ad una percezione multidimensionale delle cose e del mondo, aperta e dialogica, che valorizzi e salvaguardi le diversità e le singolarità. Bisogna comprendere la multidimensionalità, con un pensiero problematico che sappia affrontare l’incertezza e la pluralità dell’esperienza, in modo multidirezionale e antidogmatico. Gregory Bateson [2], nella sua Ecologia della mente, parla di interconnessioni simili a Mandala di contesti, relazioni e funzioni.

Oggi non c’è un senso definitivo, non ci sono princípi unitari e tantomeno leggi immutabili e universali. Di conseguenza le certezze dell’individuo vengono meno, così come le identità. Con la comunicazione si aprono strade di collaborazione, dialogo e rispetto della diversità. Si rende necessario che la scuola, agenzia educativa e formativa, favorisca la nascita e lo sviluppo di uno spirito etico, che possa stimolare una nuova sensibilità verso i processi di inclusione. 

Nel variegato panorama delle nostre scuole la complessità delle classi diviene sempre più evidente (…). In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse. Gli alunni con disabilità si trovano inseriti in un contesto sempre più variegato, dove la discriminante tradizionale –alunni con disabilità/alunni senza disabilità- non rispecchia completamente la complessa realtà delle nostre classi [3]. Con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità [4], approvata nel 2007, è stato introdotto il concetto di inclusione. Si tratta di un’evoluzione semantica, che ha percorso i sentieri dell’ "inserimento", negli anni ’70, per poi passare a quelli dell’ "integrazione", un decennio dopo e, in fine, pervenire all’ "inclusione”. Si tratta di un grande cambio di prospettiva, che riconosce il diritto alla non esclusione.

La diversità coinvolge l’intera comunità scolastica, le famiglie e il territorio, volendo promuovere autonomia personale, buone relazioni sociali e dignitose condizioni di vita. L’attenzione non deve essere incentrata sull’individuo, in una relazione duale operatore/utente, ma deve prendere in considerazione il contesto, i processi comunicativi, un progetto di vita a lungo termine che vada oltre l’approccio riabilitativo. Apprendere non è possedere contenuti ma essere consapevoli di come utilizzare le conoscenze acquisite e come organizzare i nuovi saperi, cioè conoscenze e competenze messe in gioco per agire nella società del cambiamento. Il progetto formativo che la scuola crea e mette in atto deve essere flessibile e aperto, per adattarsi alle varie caratteristiche cognitive e socio-affettive dell’allievo. 

L’inserimento di un bambino disabile nella scuola decreta l’importante passaggio da una prospettiva medico-razionalista, incentrata sul deficit (con le classi comuni, differenziali e speciali) ad una costruttivista ed ermeneutica che punta l’attenzione alle condizioni in cui il bambino apprende. Mi preme evidenziare che l’ultimo concetto espresso sia di fondamentale importanza per tutti i bambini che possono incontrare difficoltà, sin dai primi periodi della scolarizzazione, per varie problematiche di apprendimento che non sempre sono attribuibili a mera pigrizia o svogliatezza da parte dell’allievo; spesso si tratta di ragioni di natura emotiva o relazionale, eventi traumatici (come la separazione dei genitori), di una inefficace qualità delle strategie didattiche utilizzate a scuola. Ugualmente importante è che i docenti siano preparati nella gestione dei DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento), riconosciuti dalla Legge n. 170 dell’8 ottobre 2010, che individua questi ultimi come disturbi su base neurobiologica (in assenza di deficit intellettivi) e punta al successo scolastico anche attraverso strumenti compensativi e misure dispensative. Per gli alunni con DSA viene messo in atto un PDP (Piano Didattico Personalizzato), che contiene le strategie di intervento programmato; l’adulto di riferimento e in particolare l’insegnante deve individuare alcune situazioni conseguenti, come problemi di motivazione, relazione, comportamento. Risulta indispensabile una buona dose di sensibilità ed empatia ma, ancor di più, una preparazione specifica, che – purtroppo -  non sempre si riscontra nel personale docente. Sarebbe invece auspicabile agire secondo i criteri e le direttive della Consensus Conference – Raccomandazioni per la pratica clinica - 2007 (CC-RPC-2007), garantendo interventi che favoriscano la riduzione del disturbo, l’inserimento scolastico e sociale dell’alunno e il completo sviluppo delle sue potenzialità, in modo da consentire allo stesso allievo di pervenire al miglior livello possibile sul piano funzionale, sociale ed emozionale. 

I docenti sono chiamati a raffinare la propria competenza in una didattica inclusiva, favorendo l’apprendimento insieme agli altri, condividendo obiettivi e strategie di lavoro e attuando una collaborazione con le famiglie. I numerosi fallimenti nei quali rischiano di incappare bambini o ragazzi con problemi di natura emotivo-relazionale, potrebbero generare un senso di impotenza appresa, bassi livelli di autostima e atteggiamenti di inibizione o, al contrario, un aumento dell’aggressività. Ciò che un buon insegnante può fare è sicuramente mettere in gioco ogni risorsa per costruire una relazione efficace con l’alunno. L’empatia a cui si è fatto cenno in precedenza, è un buon regolatore di emozioni, aiuta a dare un nome alle emozioni che, riconosciute, possono rivelare un vissuto emotivo e collegarlo a un pensiero, in modo da coadiuvare il ragazzo nella propria autoregolazione. La relazione con l’alunno non ha solo una dimensione diadica ma deve collocarsi in un sistema di relazioni e di interazioni che includa la famiglia, i colleghi, gli altri alunni. Non è semplice costruire tutto questo; è necessario che l’insegnante accetti l’alunno per quello che è, al di là delle sue diversità, capacità o competenze e non solo perché apprende attraverso il suo intervento. La promozione dello sviluppo emotivo e sociale passa attraverso atteggiamenti di amorevolezza, incoraggiamento e stima, che possono influire sullo sviluppo dell’identità, dell’autonomia e delle competenze del ragazzo. Sappiamo che il legame fra riconoscimento e identità è alla base della formazione e della crescita dell’individuo. Donald Winnicott parlava di rispecchiamento del sé del bambino in quello della madre, fondamentale nel processo di costruzione dell’identità dell’individuo : “(…) La madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge” [5].

L’immagine di sé viene costruita sulla base della relazione con gli altri significativi e in particolare in base all’immagine di noi che gli altri ci rimandano. “Molti lattanti devono avere una lunga esperienza di non vedersi restituito ciò che essi danno. Guardano e non si vedono. Ne derivano conseguenze. Prima di tutto la loro capacità creativa comincia ad atrofizzarsi, ed in una maniera o nell’altra guardano intorno cercando altri modi di riavere qualcosa di sé dall’ambiente… in secondo luogo, il bambino si abitua all’idea che quando guarda ciò che vede è la faccia della madre. In tal caso la faccia della madre non è uno specchio. Così la percezione prende il posto di ciò che avrebbe potuto essere l’inizio di uno scambio significativo…” [6] Ciascun individuo ha bisogno, per poter crescere e svilupparsi, di essere riconosciuto nelle sue caratteristiche peculiari e il riconoscimento che è preludio dell’identificazione identitaria può rintracciarsi anche nella relazione educativa vissuta con l’insegnante, il quale può diventare un regista del percorso formativo  e coltivare l’utopia educativa, cioè scoprire il poter essere di quel ragazzo [7].

Ogni alunno ha uno sviluppo diverso dall’altro. I bambini che vivono una qualsiasi disabilità necessitano di un riconoscimento di dignità, oltre che una personalizzazione di approcci, metodologie e ambienti di apprendimento. Il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità a scuola è il preludio di una partecipazione efficace e costruttiva alla vita sociale, nel rispetto di valori condivisi che possono contribuire al benessere collettivo.

L’insegnante, dunque, deve andare oltre le tradizionali competenze culturali e didattiche, arricchendosi di tutto ciò che riguarda la relazione e la comunicazione, adeguandosi ai nuovi bisogni emergenti e orientandosi al traguardo dell’inclusione. L’insegnante deve mettersi in discussione, far emergere se stesso e condurre l’allievo alla conoscenza di sé.

Come ci ha insegnato Platone, dal non essere non si può risalire all’essere ma dall’essere si può intravedere il non essere. L’insegnante può trasmettere solo ciò che possiede e la vera ricchezza deriva dal nutrimento dell’anima…

L'insegnante specializzato/a nel sostegno degli alunni in situazione di disabilità, resta turbato quando non vede attuare strategie educative e formative inclusive nelle classi, così come si commuove senza alcuna ipocrisia per la semplicità e l’amorevolezza con la quale i bambini riescono autonomamente ad accogliere, proteggere e comprendere in modo estremamente inclusivo un compagno disabile ...

Io stessa, come insegnante specializzata di sostegno, ripongo tutta la mia fiducia nella funzione realmente formativa ed emancipativa della pur difficile opera di educazione all'inclusione che si tratta di attuare diligentemente e pazientemente a favore di generazioni destinate a vivere in un mondo sempre più precario e complesso. 

Note

[1] Cfr. E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Cortina, Milano 1999, p. 6

[2] G. Bateson. Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977

[3] Direttiva 27 dicembre 2012 e C M: n. 8/2013

[4] L’Assemblea delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità nel dicembre 2006. Attraverso i suoi 50 articoli, la Convenzione indica la strada che gli Stati del mondo devono percorrere per garantire i diritti di uguaglianza e di inclusione sociale di tutti i cittadini con disabilità. Il 24 febbraio 2009 il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione che è diventata legge dello Stato. Il 23 dicembre 2010 anche l’Unione europea ha ratificato la Convenzione

[5] Cfr.  D. W. Winnicott, Gioco e realtà, 1971

[6] Cfr. D. W. Winnicott, 1971

[7] Cfr. F. Bossio, Fondamenti di pedagogia interculturale. Itinerari educativi tra identità, alterità e riconoscimento, Armando, Roma, 2013