I pastori di anime ieri e oggi

Scritto da Francesco di Maria.

Non so se, nei tempi più antichi di cui racconta la Bibbia, fosse più facile o difficile esercitare dignitosamente l’attività spirituale e missionaria di pastore di anime. Forse in passato la figura religiosa del pastore era meno appetita, meno ambìta, soprattutto perché gli svantaggi esistenziali che generalmente ne conseguivano, anche a prescindere dal fatto che essa fosse o non fosse ritenuta fedele al volere di Dio e quindi degna o indegna di rispetto tra gli uomini, erano di gran lunga superiori ai vantaggi pratici che, sia pure abusivamente, ne potevano scaturire. Tuttavia, anche in passato, se molti uomini giusti e santi venivano investiti direttamente da Dio, come si apprende soprattutto dalla narrazione vetero-testamentaria, del compito di annunciare ad un’intera comunità civile e religiosa il suo volere, il suo sdegno, le sue intenzioni punitive o misericordiose, non mancavano talvolta coloro che osavano spacciarsi per uomini di Dio per il perseguimento di scopi personali più o meno illeciti e sacrileghi.

Non c’è dubbio, per contro, che oggi, in un mondo profondamente diverso dai contesti storico-sociali e religiosi che gravitano intorno alle vicende dell’antico e del nuovo Testamento, l’aspirazione al sacerdozio è, da un punto di vista sociologico, molto più comune e diffusa, indipendentemente dalla natura realmente o fittiziamente vocazionale e dagli esiti spirituali di tale scelta, molto meno sofferta e meditata di quanto avvenisse ai tempi dei grandi profeti biblici e della predicazione cristiana o postcristiana compresa tra la vita storica di Gesù e la prima metà circa del XX secolo. Dopo quest’ultimo periodo storico comincia il declino di quel processo di cristianizzazione, di radicamento della fede cristiana nella coscienza di generazioni e generazioni di uomini e donne che era venuto svolgendosi costantemente nel corso di circa due millenni sia pure in un’alternanza di momenti più significativi ed intensi e momenti più critici e convulsi di vita spirituale. Anche all’interno del ceto presbiterale cattolico si assiste ad un graduale ma sempre più accentuato affievolimento del senso del sacro sia pure nel quadro della crescente consapevolezza della necessità di purificare tanto la fede quanto il culto religioso da quell’eccesso di devozionalismo esteriore e spesso superstizioso sino al punto di rasentare forme irrazionali o regressive di religiosità.

Si può così capire perché, da una parte la religiosità odierna, quella cattolica in particolare, sia generalmente tiepida, formale, abitudinaria, più meccanica che sentita e profonda, e dall’altra la stessa figura del prete sia sempre più simile a quella di un impiegato, di un funzionario, di un burocrate, piuttosto che a quella dell’apostolo, del missionario, del martire le cui regole non possono mai essere di natura burocratica, legalistica, convenzionale, adattativa, ma devono essere quelle di una spontaneità e immediatezza evangeliche seppur disciplinate, di una prontezza e agilità spirituali non schematiche, non standardizzate, seppur responsabili e finalizzate al perseguimento del maggior bene possibile per il singolo e la comunità, di una predicazione e di una testimonianza volte non già a rendere il prossimo, il credente, uno spirito conformista e sottomesso alle logiche servili, praticistiche, efficientistiche, del mondo, ma uno spirito certo educato e rispettoso del vivere civile e tuttavia sempre libero di pensare, di sentire e agire, secondo la verità non mistificata e non manipolata di Cristo. Ma, in vero, è sempre più netta la sensazione che la verità cristiana venga usata ormai per i motivi più disparati e generici e non di rado anche più lontani da quelli che possono favorire realmente la salvezza delle anime.  

Utilitarismo, economicismo, funzionalismo psicologico e sociologico e persino funzionalismo ecclesiale consistente nell’organizzare e nel rendere la pastorale quanto più attraente, avvincente, coinvolgente possibile, ben al di là dei veri obiettivi spirituali che essa dovrebbe proporsi di raggiungere: ecco, ormai la “buona novella” viene posta sempre più di frequente al servizio di questi falsi valori, di questi disvalori che esprimono in realtà una mentalità mondana e pagana. La gente, è il ritornello prevalente, deve essere rassicurata, confortata, gratificata, non scossa, né turbata, né sollecitata a riflessioni troppo impegnative e faticose, ma così facendo si agevola molto il compito di Satana, di colui che propone soluzioni facili, rapide e immediate, di compromesso con logiche disimpegnate e arrendevoli di questo mondo, soluzioni spesso antitetiche a quello spirito di lotta contro il maligno e il male, contro la menzogna e l’ipocrisia di continuo risorgenti nell’animo umano, che, con l’aiuto di Dio, è strumento indispensabile di rifugio e di salvezza in Cristo. Ma questi sono gli effetti disastrosi prodotti non solo dallo “spirito del tempo” bensì anche da pastori che non sono pastori e si comportano piuttosto come psicologi, spesso ignorando i princìpi psicologici più elementari, operatori sociali, non di rado entrando goffamente in competizione con figure professionali e istituzionali a ciò preposte, e pretendendo persino di esercitare uno specifico ruolo intellettuale nel segno del cattolicesimo senza essere né dotati di capacità critiche sufficientemente sviluppate, né predisposti a indagare e ad intendere la reale e specifica complessità del mondo e della vita.

Non è scandaloso sostenere che, molto probabilmente, la maggior parte dei presbiteri cattolici contemporanei sono venuti e vengono basando la loro scelta sacerdotale più su criteri di opportunità e di possibile integrazione umana in un mondo in cui si sentirebbero altrimenti emarginati ed isolati, o, se si vuole, falliti, che non su reali motivazioni vocazionali e spirituali. E questo spiega perché poi si sia costretti a registrare, col passar del tempo, all’interno stesso della Chiesa, innumerevoli scandali e incresciosi quanto frequenti episodi di disaffezione comportamentale e spirituale rispetto agli obblighi inerenti il proprio status sacerdotale. Di qui deriva altresì, a fronte di un’attenzione meramente istituzionale e di pratiche sacramentali esercitate in modo routinario, la sostanziale disattenzione verso masse, in vero sempre più esigue, di fedeli che, da parte dei loro parroci, avrebbero bisogno di cure spirituali non epidermiche e occasionali, ma molto più personalizzate ed incisive.

Capita spesso oggi che persino il più imbecille e rozzo dei preti si senta protetto dalla autoreferenzialità che il vigente sistema ecclesiastico lo autorizza di fatto ad usare come mezzo di autodifesa, almeno sino a quando non emergano a suo carico reati, malefatte o accuse talmente gravi, da indurre le gerarchie ecclesiastiche ad abbandonarlo al suo destino. Quello che duole, però, è che questa dinamica finisce per isolare e punire non solo e non tanto i preti infedeli, ma non di rado anche preti così ligi ai propri doveri e così fedeli alla volontà di Dio da risultare ecclesialmente scomodi o addirittura dannosi e pertanto meritevoli di essere messi opportunisticamente da parte. La Chiesa di Cristo ha il compito di contrastare il male del e nel mondo, non di tollerarlo e favorirlo compiacendo tutti coloro che lo ritengano inevitabile e scusabile, ha il compito di ingaggiare con l’ipocrisia e con ogni genere di iniquità del mondo un combattimento che potrà aver fine solo con la morte, non di promuovere una sorta di galateo spirituale di buone maniere, di rapporto dialogico senza condizioni e senza chiusure, né di consentire un uso indiscriminato e arbitrario di universali valori evangelici quali amore, carità, misericordia, per il semplice fatto che tali valori possono essere solo equivocati al di fuori del loro naturale riferimento alla verità e alla giustizia di Dio. La misericordia vale per coloro che temono Dio, la sua giustizia,il suo giudizio, non certo per quanti la considerano scontata e quasi dovuta. Dio, diceva sant’Agostino, ti crea senza il tuo consenso, ma non ti salva senza il tuo consenso, perché esige la collaborazione, la partecipazione consapevole, attiva e responsabile della creatura al suo progetto d’amore e di salvezza. La psicologia cristiana non è assimilabile né ad una psicologia oppressiva, repressiva, disperante né ad una psicologia rassicurante, concessiva, permissiva; in quanto muove da una profonda e oggettiva conoscenza delle strutture psichiche, mentali, interiori degli esseri umani, essa è essenzialmente una psicologia educativa, esortativa, correttiva, perché funzionale al raggiungimento non già di uno stato spirituale di mediocrità ma di un sempre più elevato perfezionamento dell’umana spiritualità.

Il Signore non ama chi si rifiuta di essere corretto, ripreso, ammonito, ma, al contrario, proprio chi docilmente si sottopone ai suoi giudizi, ai suoi scossoni, e non respinge con sdegno o indolenza né eventuali turbamenti o conflitti interiori, crisi di coscienza e sensi di colpa, né l’eventualità che abbia a subire, in ragione dei peccati commessi, persino dure punizioni di natura espiativa e rigenerativa ad un tempo. Come recita la “lettera agli ebrei”: «”Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che ama e percuote chiunque riconosce come figlio”. E’ per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati. Perciò, rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire». 

  Tale attitudine educativa deve dunque potersi riflettere sui pastori del Signore, altrimenti essi sono solo falsi pastori, cattivi e dannosi pastori del gregge che Dio ha loro affidato e continuamente affida. Essi devono essere virtualmente capaci di coltivare uno spirito di verità attraverso il retto intendimento della Parola di Dio, devono tendere alla giustizia divina non senza mostrarsi compassionevoli verso l’errante, verso il penitente sinceramente desideroso di conversione, ma restando umilmente severi e intransigenti nell’espletamento della loro predicazione e della loro funzione apostolica, profetica e missionaria. Il pastore, sin dai tempi più antichi, viene rappresentato come qualcuno che possiede e dispone, nell’esercizio del suo lavoro, di un bastone e di un vincastro. Il bastone gli serve per indicare al gregge la via e per evitarne eventuali deviazioni di rotta, il vincastro non è, come talvolta si è indotti erroneamente a credere, un bastone più grosso, più robusto e nodoso, ma, al contrario, un vimine, un rametto di salice, tenero e flessuoso, la cui funzione è quella di stimolare dolcemente le pecore, con delicati colpetti sui loro fianchi, sia per indurle a riprendere il cammino quando capita che esse tendano a interrompere il cammino e a fermarsi per un tempo eccessivo, sia per farle camminare insieme e per evitare quindi di farle disperdere.

Molto bello e fedele all’immagine che biblicamente ne ha sempre avuto Dio, il ritratto del pastore che tratteggiava alcuni anni or sono don Giacomo Panfilo nel settimanale della sua parrocchia di Bergamo (Il tuo bastone e il tuo vincastro. A proposito del buon pastore e del suo rapporto con il gregge, 2 luglio 2015): « Se mi metto fra le pecorelle di Dio, vedo il pastore camminare davanti al gregge, lo conduce fuori, lo guida verso i pascoli appoggiandosi, soprattutto nei passaggi più difficili al suo bastone che gli dà visibilmente sicurezza. E la sicurezza tranquilla del pastore dà sicurezza e tranquillità anche a me e a tutto il gregge. Quando vedo poi il pastore brandire con decisione il suo bastone contro animali o anche uomini cattivi che ci assalgono e vorrebbero disperderci per rapirci e divorarci, allora la mia, la nostra, sicurezza si carica di fiducia e di coraggio. Poi quando vedo il pastore avvicinarsi e sento che mi sfiora con il morbido vincastro, sento la sua tenerezza incoraggiante e capisco che egli non è un mercenario, ma è il mio buon pastore e che io gli appartengo. Allora il camminare dietro a lui e accanto a lui diventa una gioia. E sento che è così anche per le altre pecore del gregge … Ma siccome per vocazione e per ordinazione, nella Chiesa sono diventato collaboratore del Buon Pastore, guardo a lui per imparare a stare tra le pecore e a fare per loro le cose bene, secondo il suo cuore. Imparo innanzi tutto ad appoggiarmi al bastone della fede per avere io per primo sicurezza da infondere poi nelle pecorelle che mi sono affidate. È infatti la fede che dà la sicurezza. Lo diceva già Isaia: “Senza la fede non avrete stabilità” (Is 7, 9). Poi imparo a brandire il bastone della fortezza per difendere il gregge dagli assalti a volte violenti, a volte subdoli, dei nemici del Buon Pastore. Imparo anche a usare con la maggior delicatezza possibile il tenero vincastro per stimolare affettuosamente le pecore affidatemi, soprattutto quelle malate, le pecore madri e in modo tutto particolare gli agnellini. Oltre a Gesù, l’unico Pastore delle nostre anime, io guardo anche ad alcuni collaboratori che egli si è dato nella storia. E in questo campo dell’uso del bastone insieme col vincastro mi è particolarmente di stimolo e di incoraggiamento don Bosco che tra le varie parole d’ordine del suo metodo educativo (pastorale) aveva il binomio “fermezza e amorevolezza”».

Non c’è dubbio che, anche in questo caso, chi vuole intendere può intendere. Dopodiché, a voler essere realisti, si tratta pur sempre di dubitare che di questi pastori fedeli al buon Pastore ce ne siano oggi in circolazione un numero cospicuo, anche perché nel frattempo, almeno in Paesi di antica tradizione cattolica come l’Italia, non si pone solo un problema di qualità vocazionale e spirituale del clero, ma anche un ulteriore e assai preoccupante problema come quello della progressiva scomparsa tanto materiale quanto morale del clero. Forse sono stato sfortunato o sono troppo prevenuto, e, se fosse così, chiedo sinceramente al Signore di illuminarmi e di poter rivedere il mio severo, seppur non malevolo, giudizio, ma io pastori così, come quelli magnificamente descritti da don Giacomo, nel corso della mia vita ne ho visti e ne vedo sempre di meno, anche se prego il Signore di mandare operai numerosi e soprattutto degni per la sua grande messe, memore tuttavia delle sferzanti parole divine rivolte, attraverso il suo profeta Ezechiele (34, 1-31), ai pastori indegni del suo gregge, del suo popolo, della sua Chiesa: «Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando le mie pecore su tutti i monti e su ogni colle elevato, le mie pecore si disperdono su tutto il territorio del paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura. Perciò, pastori, ascoltate la parola del Signore: Com'è vero che io vivo - oracolo del Signore Dio -, poiché il mio gregge è diventato una preda e le mie pecore il pasto d'ogni bestia selvatica per colpa del pastore e poiché i miei pastori non sono andati in cerca del mio gregge - hanno pasciuto se stessi senza aver cura del mio gregge -, udite quindi, pastori, la parola del Signore …: Eccomi contro i pastori: a loro chiederò conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge, così non pasceranno più se stessi, ma strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto ... io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine».

Sono parole terribili rivolte non solo ai pastori dell’antico Israele ma anche a quelli del nuovo ed eterno Israele, a quelli della sua Chiesa sorta per effetto dell’opera salvifica del Cristo, parole da cui si evince quanto grande sia la responsabilità dei pastori davanti a Dio in rapporto al gregge che Egli ha loro affidato. Che razza di pastori sono quelli che si allineano ad autorità scientifiche, civili, politiche, che, in occasione di una pandemia non trascurabile ma di dimensioni non particolarmente rilevanti, hanno esercitato non responsabilmente, come si continua a sostenere con una buona dose di persistente e stolto protagonismo, ma in modo del tutto allarmistico e spropositato, una vera e propria azione terroristica sull’intera popolazione mondiale, a cui i pastori, anziché avallare ossessivi e peraltro opinabili consigli sanitari con atteggiamenti pavidi e vili, consigli come distanziamento, mascherina, vaccinazione, green pass e quant’altro, e anziché opprimere e indurre i fedeli non disposti ad accogliere tali consigli a sentirsi addirittura cattivi cristiani, egoisti, irresponsabili, avrebbero dovuto spalancare le chiese senza trasformarle in presìdi medico-sanitari visto che esse sono già dei presìdi ma di ben altra natura, e senza indossare i panni dei vigilantes visto che essi indossano panni rappresentativi di ben altro genere di vigilanza, avrebbero dovuto offrire conforto spirituale senza toni rassegnati e timorosi, elevare l’anima sofferente dell’intera comunità alle eterne verità della fede e alla certezza assoluta dell’amore divino, come al valore inestimabile della grazia e della vita sovrannaturale.

Ma questo è solo un esempio di come i pastori possano tradire facilmente il loro sacro mandato, riducendosi ad essere uomini men che mediocri. Un altro esempio potrebbe essere il tentativo omicida e genocida dei russi di cancellare dalla faccia della terra un intero popolo: di fronte ad una evidenza malvagia di questa natura il popolo cattolico, grazie all’ipocrisia e all’ignavia dei suoi vescovi e dei suoi preti, non ha saputo fare altro che apparire diviso, incerto, incapace di equanimità caritatevole e di senso della giustizia, perché incapace di distinguere tra aggressori e aggrediti, tra carnefici e vittime, tra persecutori e perseguitati. Non uccidere, certo: ma anche nel senso che, mentre si prega e si invoca un potente e lungimirante intervento pacificatore di Dio, bisogna fare di tutto affinchè colui o coloro che intendono uccidere non pongano in essere indisturbati il loro disegno criminale. Ma si tratta, pur sempre, di esempi o casi eclatanti ed emblematici dello sdoppiamento interiore da cui è affetto il clero cattolico contemporaneo, perché in effetti è nella vita ordinaria di tutti i giorni che si assiste a fenomeni di gratuito paternalismo, di improvvida reticenza da non confondere con la saggia riservatezza, di quietismo individualistico o di sbrigativo moralismo, in quelle che dovrebbero essere e spesso non sono le austere, sagge, ispirate ed edificanti meditazioni e pratiche di vita del clero cattolico.

I cattivi pastori sono quelli che pensano di poter esercitare la loro funzione sacerdotale in un senso puramente istituzionale ma in un’ottica di questo tipo i drammi, i traumi, i lutti, smarriscono completamente il loro significato e il loro valore, in quanto non c’è problematica, non c’è sofferenza o tragedia che non possa trovare una soluzione di natura istituzionale e circoscritta al momento del colloquio o della confessione sacramentale, al di là del quale il pastore non te lo ritrovi vicino a confortarti, ad essere responsabilmente, paternamente o fraternamente partecipe dei tuoi dubbi, del tuo travaglio, della tua angoscia, delle tue stesse critiche a certo conformismo e indifferentismo etico-religiosi, ad essere insomma realmente presente nella tua vita penitenziale e nella tua ricerca di piena e santa adesione ai comandamenti di Dio. Per non dire che, ove si verifichi una difformità di opinione o di giudizio tra te e il tuo pastore, questi se la prende spesso a male e sia pure diplomaticamente comincia a voltarti le spalle, presumendo che il più interessato a coltivare pacificamente, senza screzi e divergenze di rilievo, dovrebbe pur essere il fedele, non già chi è preposto, istituzionalmente, alla cura delle anime. E se per caso il fedele avesse ragione, non una ma cento volte, di confrontarsi criticamente, soprattutto su specifici problemi di fede e di dottrina, con il suo pastore, questi di solito non accetta di sentirsi parzialmente o radicalmente contestare da un semplice fedele, magari persino suo parrocchiano. Le cose vanno così e quindi vanno decisamente male, specialmente se accade, come purtroppo sembra accadere, che i pastori, oggi vescovi e presbiteri, anziché confermare nella fede, seminino, per scarsa capacità di discernimento, per omissività esegetica o per un subentrato offuscamento della propria fede, errori anche grossolani e diffondano confusione, provocando smarrimento e dispersione delle anime. Quando i pastori, forse inavvertitamente, si trasformano in padroni del gregge, infrangono il motivo stesso per cui sono stati chiamati a guidare il gregge, che è quello di servire sempre e comunque e mai quello di prevaricare o spadroneggiare o prevalere, magari con un semplice atteggiamento di distacco o di ostentato disinteresse, su chiunque sia stato loro affidato.        

Oggi i cattivi pastori sono anche quelli che tacciono, per deferenza verso certi potenti, personaggi famosi, o affermate celebrità, su peccati conclamati e vergognosi, minimizzando colpe e azioni ignominiose di cui ci si dovrebbe solo vergognare, senza rendersi conto del male che si viene così facendo alle anime e di cui essi dovranno render conto a Dio. I cattivi pastori sono anche quelli che restano sempre in attesa che le pecore vadano da loro, nelle chiese e nelle sacrestie in cui dimorano, abituandosi a vivere in esse come se fossero chiese e sacrestie di loro proprietà e sottoposte essenzialmente alla loro discrezionale amministrazione. In realtà, essi dovrebbero essere sempre preti in uscita, non però soprattutto dal punto di vista fisico-spaziale quanto da un punto di vista spirituale, e quindi nel senso di un loro prendersi cura attivamente delle loro pecore, soprattutto di quelle più deboli o di quelle che sono state vittime di qualche incidente o fatto traumatico. Il prete in uscita sa bene che l’ovile è più grande della chiesa parrocchiale e comprende i quartieri, le abitazioni, le occupazioni giornaliere delle pecore, per cui spetta a lui interessarsi ad ogni sua pecorella, verificare che stia bene o che sia guarita e stia riprendendo le sue forze. Le pecore riconoscono il loro pastore se lo vedono e lo sentono vicino, presente in mezzo ad esse, sempre pronto ad intervenire premurosamente per il loro bene, non possono certo riconoscerlo se è assente, se va a celebrare spesso messa al di fuori della sua parrocchia, se va in cerca freneticamente di nuove conoscenze ed esperienze apparentemente religiose e comunitarie Il prete in uscita, invece, non è quello che fa quel che gli pare, muovendosi in lungo e in largo come un vagabondo di strada, non è quello che si scorda dei suoi parrocchiani e vive e agisce come se non esistessero, aspettando che siano essi a farsi sentire, a telefonare, a farsi vedere in chiesa, ad essere premurosi e gentili verso di lui, che non si sente gratificato tanto dal fatto di essere al servizio di Cristo ma che, pur senza dichiararlo in modo esplicito, vorrebbe essere circondato da attenzioni, da parole gentili e magari dai complimenti delle sue pecorelle o dei suoi pecoroni.

Questa però non si chiama umiltà, non si chiama spirito di servizio, si chiama vanità, presunzione, orgoglio, spesso soprattutto ingiustificata pretenziosità e persino stupidità, questo è un modo come un altro di vivere di apparenze e di coltivare desideri banali, perché, beninteso, a tutti piace essere circondati dall’amore altrui ed è un sentimento umano del tutto legittimo, ma quel che non è lecito fare è concepire il servizio pastorale in funzione delle gratificazioni, del senso di gratitudine e di apprezzamento, degli elogi magari che ci si aspetta di ricevere dal prossimo per l’espletamento di un servizio che è semplicemente doveroso eseguire nel migliore dei modi. Il prete buono, serio, giusto, è quello che cerca di emulare il buon Pastore per eccellenza che è Cristo, che tuttavia, diversamente da Cristo, si sforza con sincerità di sentirsi un “servo inutile” e di accettarsi come tale; un servo, quindi una persona priva di importanza sociale e comunitaria, anche se amatissimo da Dio — e questa consapevolezza dovrebbe essere la sua unica ma vitale e gioiosa gratificazione —, e inutile, in quanto cosciente che, per quanto esercitato con impegno e spirito di carità, il suo è sempre un servizio limitato, incompiuto, difettoso, carente e mai abbastanza utile, appunto perché solo Dio può rendere utili persino le opere più inutili delle sue creature e dei suoi servi. L’umanità, come un gregge, tende a seguire sempre voci, suoni, segni, che sono quelli dei pastori oppure dei cattivi o falsi pastori. Ma non sempre è in grado di distinguere tra gli uni e gli altri e comportarsi di conseguenza.

Ora, la condotta irresponsabile dei pastori non esime il gregge, le pecore, i credenti, dal dovere di fare comunque del proprio meglio per evitare di deviare dalla giusta via e di subire il triste destino dell’isolamento e della dispersione, della solitudine e della disperazione, perché il Signore riserva anche al suo gregge e al suo popolo parole molto esigenti e monitorie, benché intrise di infinita tenerezza paterna: «A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri. Non vi basta pascolare in buone pasture, volete calpestare con i piedi il resto della vostra pastura; non vi basta bere acqua chiara, volete intorbidire con i piedi quella che resta. Le mie pecore devono brucare ciò che i vostri piedi hanno calpestato e bere ciò che i vostri piedi hanno intorbidito. Perciò così dice il Signore Dio a loro riguardo: Ecco, io giudicherò fra pecora grassa e pecora magra. Poiché voi avete urtato con il fianco e con le spalle e cozzato con le corna contro le più deboli fino a cacciarle e disperderle, io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda: farò giustizia fra pecora e pecora». Un gregge senza pastore, abbandonato a se stesso, può diventare facilmente ingovernabile e soggetto all’impulso di fare di testa propria, di assecondare cioè impulsi disordinati, violenti e prevaricatori, di muoversi in modo irragionevole e dannoso soprattutto per le pecore più deboli. Ma queste dinamiche, il calpestare la pastura altrui, il bere acqua pulita, limpida, ma il voler intorbidire quella che resta per dissetare le altre pecore, il voler prendere il meglio per sé non solo lasciando il peggio per le altre pecore ma facendo deliberatamente in modo che il peggio vada a quest’ultime, non trovano alcuna comprensione, alcuna giustificazione presso il Signore, che a tempo debito cercherà di capire perché alcune pecore sono grasse e altre magre, perché alcune sono ferite, spaventate e costrette a fuggire lontano dal gregge, mentre altre appaiono sane, forti e ben sicure di sé. Il Signore cercherà di capire e poi giudicherà, una per una, tutte le sue pecore, quelle magre e quelle grasse, e infine farà giustizia salvando e rendendo eternamente felici e soddisfatte le prime, disinteressandosi invece al destino delle altre.

Il gregge, pertanto, non è innocente solo perché privo di pastori capaci, in quanto il Signore manda il suo Spirito di forza, di verità e di vita, anche su greggi senza pastore in virtù del quale spirito conservano quanto meno un’opportunità di retto giudizio e di giusto comportamento almeno per quanto riguarda le regole più elementari dello stare in comunità e della civile convivenza. Tuttavia, ancora una volta nella storia dell’umanità, ancora nel tempo presente, sembra che il popolo di Dio, la sua Chiesa, i suoi ministri e i suoi capi non meno dei semplici fedeli, tenda a dimenticare, anzi a non percepire proprio, i duri moniti divini rivolti sia ai suoi “rappresentanti”, ai suoi vicari e pastori, sia anche alle masse sempre più esigue dei fedeli. Il gregge è capace di malefatte, del resto, anche se venga o fosse guidato da pastori degni e santi, perché seguire con fedeltà il Cristo è necessario per conseguire la salvezza ma è anche molto impegnativo e non è mai scontato che l’esito della prova terrena cui specialmente i battezzati devono sottoporsi sia vittorioso.